di Ilaria De Bonis*
Eliminare il ghetto abitativo nei distretti agricoli italiani è possibile. Un’alternativa alle tendopoli e alla segregazione c’è, e si chiama “accoglienza diffusa”. In un paesino di mille anime come Drosi, comune di Rizziconi a Reggio Calabria, ad esempio, l’accoglienza nelle case ha funzionato. «Nei ghetti la vita è fuori norma. Vanno aboliti. La persona è esposta a qualsiasi malattia fisica e psichica – spiega Salif Guebrè, bracciante agricolo che conosce bene l’esperienza di Drosi e fa parte dell’associazione Fuori dal Ghetto – L’isolamento dei braccianti è un peso per tutti gli altri». Salif spiega che «i braccianti da soli non ce la facevano a ottenere la fiducia dei proprietari, così a Rizziconi la Caritas ha fatto da mediatore».
Per la prima volta nella loro vita in Italia i lavoratori hanno vissuto in una casa vera. «Erano i primi di gennaio del 2010 e c’erano ancora i frutti sugli alberi – ricorda Vincenzo Alampi direttore della Caritas di Palmi – Bisognava raccogliere le arance ma nella piana di Rosarno accadde quella che è nota come la rivolta di Rosarno». In quel clima di violenza e confusione totale i braccianti scappavano dal ghetto e gli abitanti della zona ne nascosero molti nelle campagne e nei casolari.
«Durante tutto il periodo della raccolta degli agrumi li tennero nascosti e li protessero. La Caritas locale aveva notato che c’erano molte case abbandonate. Così con una somma irrisoria, qualcosa come 12mila euro, abbiamo rimesso a posto le casette di Drosi, ripristinato l’elettricità e imbiancato le pareti». All’inizio erano cinque o sei i braccianti ospiti: con trenta euro al mese potevano dormire in un letto vero. «Oggi sono circa cento su mille abitanti. E la gente pian piano ha imparato a non aver paura. Questi migranti si son fatti voler bene», dice Vincenzo. Tanto che oggi nel Paese è stato avviato anche un corso di italiano per stranieri. E il clima con gli abitanti è di fiducia reciproca.
«Noi rifiutiamo a priori l’agglomerato tendopoli. Le baraccopoli e i ghetti vanno eliminati del tutto!», dice Nino Quaranta, tra gli agrumicoltori del progetto Sos Rosarno, che cerca di alleviare il degrado della piana calabrese. E gli fanno eco i braccianti africani. Due di loro erano presenti a un incontro sul caporalato alla Camera: Agromafie e Caporalato, la schiavitù invisibile (video), organizzato dal M5stelle.
«Volevo raccontarvi quello che viviamo a Boreano – ha esordito Yaka Kassoum – Io sono arrivato nel 1993 in Italia e ho lavorato in Basilicata. La situazione che ho visto lì è disumana. Ogni giorno vediamo cose brutte da vedere: non ci sono letti e fornelli, c’è solo un bagno e una doccia per cinquanta persone».
Il suo collega Koda Kassoum ha detto: «Ci dimentichiamo una cosa importante: che i ghetti dove vive questa gente producono la salsa di pomodoro che va sulle tavole italiane! Dobbiamo fare in modo di uscire dai ghetti e andare in città, avere una vita dignitosa e ricevere rispetto soprattutto!». E ancora: «Noi in Basilicata abbiamo la fortuna di lavorare con un piccolo salario di miseria. Ma per combattere il caporalato bisogna iniziare dalla base: il contratto di lavoro. Ci serve l’eliminazione dei ghetti e il trasferimento nelle case». Pretendere trasparenza e dignità di vita è davvero il primo passo per combattere l’idea stessa del caporalato. Ma c’è un altro equivoco di fondo: pensare che il caporalato sia un fenomeno antico. Non è così, ricorda il segretario nazionale della Flai-Cgil, Giovanni Mininni. È addirittura «un tratto della modernità». Nella misura in cui riesce a dare risposte all’industria. Lo dimostra il fatto che il caporalato «non esiste soltanto nel “profondo sud” ma anche in Francia Corta, in Toscana e nelle langhe dell’Astigiano o nel grossetano». Il caporalato rappresenta solo «un anello che rende visibile il fenomeno dello sfruttamento», dice Mininni. «È il sistema produttivo nel suo insieme che non funziona – spiega anche Yvan Sagnet, camerunense, autore del libro Ghetto Italia (Fandango) – è uno Stato che non controlla: bisogna portare alternative alla grande distribuzione». Sos Rosarno fa proprio questo: «Unisce i deboli con i deboli: i piccoli produttori e i migranti – dice Nino Quaranta – La chiave di volta è questa. C’è in atto una guerra tra poveri e l’imposizione dei prezzi da parte della grande distribuzione è il problema. Un chilo di arance è pagato appena 8 centesimi al coltivatore. E i migranti vanno a lavorare per 25 euro al giorno». È evidente che si tratta di retribuzioni da fame e il piccolo coltivatore è sotto lo stesso giogo del bracciante. «Quando la grande distribuzione o le logiche internazionali comprimono i prezzi, questa compressione ricade sull’anello più debole della catena che è il lavoratore».
Domenico Perrotta, sociologo e docente tra i fondatori di Fuori dal ghetto di Venosa, sostiene che sono tre i punti sui quali insistere per “liberare” la nuova schiavitù dei braccianti agricoli: «La vulnerabilità giuridica dei braccianti, e quindi cambiare la legge sull’immigrazione; la segregazione dei braccianti che hanno forte bisogno di politiche abitative nel paese, e il caporalato che è strettamente legato al collocamento». Finora l’approccio è stato: “arrestiamo i caporali”. Ma prima bisogna creare servizi alternativi di collocamento, che sia quello pubblico o quello sindacale. «Perché se si reprime o si arresta senza offrire alternative, è quasi inutile».
* Giornalista, ha aderito alla campagna 2016 di Comune:
https://comune-info.net/2015/12/facciamo-comune-insieme-2/
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