Quarantenne afro-colombiana, femminista, ex colf e madre single, con due lauree e una storia importante di lotte nei movimenti sociali, antirazzisti e ambientalisti. Una storia riconosciuta – tra l’altro – con il Goldman Prize, detto il Nobel dell’ecologia, conseguito nel 2018 per le sue battaglie contro l’estrattivismo. Francia Márquez ha vinto le elezioni insieme al neo-presidente Gustavo Petro. Tutto il mondo parla di lei da quando, a metà giugno, è diventata la prima vice-presidente nera di uno dei Paesi più violenti e lacerati dell’intero pianeta. “Non lo do per scontato, ma non penso che Francia cada nell’ingenuità – e ancor meno nel semplicismo – di credere che ciò per cui intende battersi possa risolversi con lo Stato, grazie allo Stato e dallo Stato. Sono convinta che convocherà un grande movimento di cambiamento ben oltre il partito, l’alleanza e lo Stato. Un cambiamento che parta da dove lei vuole iniziare: il territorio, la comunità, i corpi e la vita quotidiana”, scrive Maria Galindo, femminista e anarchica delle Mujeres Creando boliviane, una delle voci più libere, irriverenti e acuminate della critica al potere. Anche a quello “indigeno” di Evo Morales e Álvaro García Linera, che della cooptazione nel potere boliviano di donne contadine quechua e aymara avevano sempre fatto una bandiera. O uno specchietto per le allodole. Forse, la vera sfida con il potere coloniale e patriarcale, per Francia Márquez, comincia davvero adesso. Sarà solo una scintilla per l’avvio di un entusiasmante processo storico collettivo o un nuovo (non certo il primo) aneddoto identitario, utile solo a far concludere che le cose non cambieranno mai e che non è affatto vero che a chi critica l’ordine delle cose non viene mai concesso spazio?

Non starò qui a scriverne il ritratto, anche se mi piacerebbe per l’immensa ondata di seduzione che provoca con tutto il suo essere. No, non lo faccio, perché non voglio correre il rischio di aggiungere solo altri begli aggettivi alla messe di essi che ha già raccolto e risvegliato con il suo passaggio. Non perché non senta anch’io queste emozioni, ma per non essere ripetitiva.
Da qui, dalla Bolivia, da un luogo molto vicino, voglio sottolineare ciò che lei, la sua presenza, la sua vittoria, la sua visione rappresentano per l’insieme dei femminismi.
Dove collochiamo Francia Márquez nella storia?
Come stabiliamo il significato del posto che occupa?
È apparsa come un miracolo, uscita dal nulla; è così?
Per rispondere a queste domande, provo a cercare nella mia memoria una figura o un fatto che mi permetta di confrontarne la grandezza della candidatura e della vittoria. Mi viene in mente la consegna del Premio Nobel per la Pace a Rigoberta Menchú nel 1992, 30 anni fa. Un’occasione che, pur non essendo questo lo spazio per analizzarla, Rigoberta ha sperperato in breve tempo fino al punto da perdere la sua legittimità più importante, quella che doveva essere coltivata nella sua terra guatemalteca.
Paragono dunque Francia con Rigoberta non per somiglianze tra loro, ma per la scala di entrambe: pietre miliari fondamentali, che concentrano in sé una potenza di cambiamento di grandezza unica e storica.
Né cifra etnica né biologica
Francia non fa il suo ingresso nei titoli dei giornali del mondo attraverso la porta del fattore caratteristico biologico stabilito dallo stesso sistema patriarcale e dalla democrazia formale rappresentativa che, a fronte della sua usura, aggiunge le donne alla politica patriarcale. Ci sono state decine e centinaia di donne nel Fondo Monetario Internazionale, alla presidenza di paesi dell’Unione Europea o di questo continente del Sud, tutte sono state parte intrinseca del progetto patriarcale.
Né entra dalla porta (del fattore o) della cifra etnica che il neoliberismo ha creato per tutti i settori detti “subalterni” (omosessuali, disabili, ecc.) per creare false immagini di rappresentazione.
È nera, è una donna, ma le sue parole e il suo progetto trascendono la cifra identitaria. Per questo è capace, in pochi minuti, sebbene con la formula del nominare, di farci viaggiare citando i suoi diversi amori politici affinché possiamo comprendere la corrispondenza intrinseca che esiste tra una causa e un’altra, andando ben oltre la mera questione identitaria. Francia menziona l’omosessuale, l’afro, il popolo, il povero e ci ritorna sopra ancora e ancora. Quel che in una Marcia è semplicemente magistrale, spontaneo e costante.
Trascende il tema identitario anche quando parla del suo percorso senza il minimo risentimento. Non si afferma sulla negazione dell’altro, ma sul sogno del “gusto di vivere”. Una scelta che non è meno contundente, ma è sì più seducente, più foriera di speranza e che ci porta a concentrarci sul progetto in cui ci troviamo e non sulla colpa da pagare o da cui riscuotere.

La bacchetta magica
Francia corre pericolo che nel mondo, e soprattutto nel suo Paese, attribuiscano al suo trionfo il potere di una bacchetta magica che deve risolvere problemi così profondi e strutturali – come il razzismo o la povertà – con la sua sola presenza e da un giorno all’altro. Corre il rischio che le frustrazioni, per non essere riuscita a farlo nell’immediato, le si rovescino contro. La sua sfida politica e pedagogica più complessa è appena iniziata. O trasforma la sua presenza in un progetto storico collettivo o sarà ancora una volta ridotta dal sistema stesso ad aneddoto identitario utile per dire che le cose non possono essere cambiate o che ci hanno dato uno spazio. Francia non possiede una bacchetta magica e neppure la rappresenta. La sua semplice condizione di donna nera eletta vicepresidente non rappresenta la soluzione ai problemi che lei stessa denuncia, enuncia e si propone di affrontare. Il suo potere, la potenzialità di fare è altrove.
I femminismi e lo Stato
Non c’è alcun dubbio che il ruolo di Francia verrà utilizzato dalle tecnocrazie di genere neoliberista per cercare di riciclarsi dietro questa gigante. Sì, proprio quelle che erano già in ritirata, avendo dimostrato che non servono ad altro che a vivere della retorica dell’uguaglianza. Vorranno provare a servirsi anche di questa vittoria per reindirizzare e ingurgitare le aspettative di un movimento insaziabile com’è quello dei femminismi con incarichi negli Stati e nelle burocrazie delle ONG.
Francia si è candidata alle elezioni e oggi è una funzionaria di Stato, nientemeno che la vicepresidente, tuttavia, credo rappresenti una grande sfida che non può limitarsi a una riedizione della logora relazione governi/femminismi. Elenchi di rivendicazioni/riforme legali e femminismi.
In tutta franchezza, penso che la sua candidatura, in un contesto come quello della Colombia, fosse l’unica scappatoia rimasta per provare a rialzare la voce e rafforzare la speranza. Ciò che Francia sta facendo e ciò che rappresenta è l’apertura di un campo inedito di pratiche e pensiero politici. Un grande campo dove seminare speranza e darci compiti da portare a termine.
Non lo do per scontato, ma non penso che Francia cada nell’ingenuità – e ancor meno nel semplicismo – di credere che ciò per cui intende battersi possa risolversi con lo Stato, grazie allo Stato e dallo Stato. Sono convinta che chiederà un grande movimento di cambiamento ben oltre il partito, oltre l’alleanza e oltre lo Stato. Un cambiamento che parta da dove lei vuole iniziare; il territorio, la comunità, i corpi e la vita quotidiana.
In quel contesto, la candidatura e l’incarico ricoperto sono cornici, soglie, microfoni, sfide, ma in nessun modo sono posti che di per sé abbiano un senso.
Non la immagino ubriaca di potere come i patriarchi.
Non la immagino distante dalla gente come lo sono i governanti.
Immagino che pensi a come ribaltare tutto questo e fare, fare, fare qualcosa di molto tangibile, molto concreto. Immagino che non voglia farsi ubriacare dai tanti e tante che oggi stanno pensando di poterla guidare.

La sinistra è davvero alleata del femminismo?
Gustavo Petro l’ha convocata perché ne aveva bisogno. Non solo come qualcuno che aggiungesse voti ma anche densità, forza e contenuti. Non è un favore, non è una concessione della sinistra ai femminismi, meno ancora agli ecologismi. La sinistre e, ancor di più, i progressismi sono oggi ideologicamente vuoti e perplessi, i loro tanti grigi governi nella regione lo dimostrano giorno dopo giorno.
Il rapporto tra femminismo e sinistra è un rapporto che ha una lunga storia segnata dall’utilitarismo, dall’incomprensione, dalla subordinazione permanente dei progetti femministi messa in atto dalle sinistre. Peggio, la maggior parte dei progressismi nella regione sono profondamente patriarcali, in altri casi apertamente misogini e, nel migliore dei casi, ciò che intendono per femminismo non è altro che una manciata di diritti per le donne. Nessun progressismo ha capito che patriarcato e capitalismo sono due strutture in una o che quando si parla di femminismo si sta parlando della comprensione stessa della società, dell’economia, di tutto.
Mi chiedo come faccia Petro a pensare di poter coniugare le proposte contro l’ecocidio con uno sviluppo del capitalismo? La cosa interessante è che tutte le domande e le cose da mettere in discussione che possiamo immaginare in relazione a Petro non coinvolgono, né soffocano la forza della presenza di Francia. È così perché lei ha fatto un grande sforzo per farsi carico di se stessa e non apparire come soggetto secondario. Non c’è disputa per il protagonismo, non c’è un problema di ego, ma di capacità di affermare un orizzonte proprio. In questo contesto, Francia tiene i fili di un progetto fondativo di qualcosa che deve ancora essere costruito. Di qualcosa che ha bisogno di parole proprie, qualcosa in cui sta mettendo più e più volte in gioco il suo corpo.
Il progetto coloniale patriarcale ed ecocida è un progetto sovrastatale
La disputa sull’amministrazione degli Stati Nazionali come orizzonte di cambiamento è semplicistica, penso che a questo punto lo sappiamo benissimo. Più andiamo a sud, più le sovranità degli stati nazionali si restringono.
Ma come uscire da quel cerchio? Le organizzazioni internazionali non servono certo come strumento per mettere in discussione l’ordine mondiale. Al contrario funzionano come involucri giustificatori e sono abusivamente controllate dalle forze coloniali.
Tuttavia, proprio quello della Colombia – in quanto epicentro dell’occupazione dell’Impero nella regione – è lo scenario privilegiato per ripensare quel discorso. Ecco perché l’hanno soffocata tanto ed è sempre per questo che lì hanno ucciso tanto. Rovesciare la tendenza e convertire la Colombia in un territorio di speranza per aprire un nuovo ciclo è qualcosa che pensavamo di non poter vedere più. Ora stiamo vedendo che accade, ma che ha Francia Marquez come asse principale di quella possibilità.
Se vivessi in Colombia mi unirei al progetto di Francia Marquez con il più artigianale degli incarichi. Essendo dove sono, la ascolto, la seguo, la penso, la immagino e le mando amore, buone vibrazioni e le sono grata per l’apertura che sta producendo affinché tutte, tutti e tutt@ noi possiamo ripensare in modo radicale al posto che occupiamo.
Fonte: Radio Deseo, la radio delle Mujeres Creando
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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