L’analisi del provvedimento teso a favorire l’emersione di rapporti di lavoro irregolari (o, più semplicemente, la regolarizzazione) di cittadini stranieri previsto dall’articolo 103, decreto legge n. 34 del 19 maggio 2020, sia che lo si esamini in relazione alle sue intrinseche illogicità iniziali, sia che lo si guardi nelle sue perverse conseguenze applicative, ci restituisce con triste evidenza l’immagine del rapporto malato che l’Italia, almeno sul piano istituzionale, continua ad avere con le migrazioni, il più potente fattore di cambiamento sociale del nostro tempo.
Da un accurato Report condotto dalla Campagna nazionale “Ero Straniero” (Regolarizzazione 2020 a rischio fallimento: tempi lunghissimi e ostacoli burocratici. Alcune proposte per “salvare” una misura necessaria) pubblicato a marzo 2021 emerge un quadro allarmante dei ritardi nella definizione delle procedure di regolarizzazione. Secondo il Report, per ciò che riguarda il primo e di gran lunga predominante canale della regolarizzazione, «al 31 dicembre 2020, delle oltre 207.000 domande presentate, in tutta Italia erano stati rilasciati solamente 1.480 permessi di soggiorno. A circa 4 mesi dal termine ultimo di presentazione delle domande quindi, le istanze concretamente giunte a conclusione sono lo 0,71% del totale». Né La situazione si è sbloccata nel 2021 in quanto «al 16 febbraio, a 6 mesi dalla chiusura della finestra per l’emersione, solo il 5% delle domande è giunto nella fase finale della procedura, mentre il 6% è nella fase precedente della convocazione di datore di lavoro e lavoratore per la firma del contratto in prefettura. In circa 40 prefetture, distribuite su tutto il territorio, non risultano nemmeno avviate le convocazioni e le pratiche sono ancora nella fase iniziale di istruttoria». Interessante notare come per quanto riguarda il secondo canale di regolarizzazione «che prevedeva che fosse il lavoratore, e non il datore di lavoro, a chiedere direttamente alla questura con una procedura standard attraverso kit postale – e quindi molto veloce – un permesso di soggiorno temporaneo, la situazione nelle questure italiane è decisamente migliore»: già a fine dicembre 2020 il 68% delle pratiche era infatti stato evaso. Il rapporto prosegue esaminando la situazione generale in diverse città medie e grandi evidenziando come, al ritmo di progressione attuale, occorrerebbero diversi anni per completare tutte le procedure, giungendo fino alla situazione di Roma dove i tempi si allungherebbero a cinque anni e al caso, sconcertante, di Milano, dove «servirebbero più di 30 anni per portare a termine tutte le domande».
Rispondendo a Montecitorio a un’interrogazione del deputato Riccardo Magi, il Governo ha riferito che, per affrontare la situazione, entro poco tempo (non indicato con maggior precisione) 800 unità, selezionate tra 20.061 candidati, «svolgeranno attività amministrativa di supporto agli Sportelli unici per l’immigrazione e saranno assegnate a ciascuna sede proporzionalmente al numero delle istanze pervenute». L’impiego, in tutta Italia, di 800 unità di supporto è, peraltro, un intervento modesto e tardivo (la regolarizzazione si è chiusa ad agosto 2020), da solo non in grado di recuperare una situazione che non rappresenta un semplice grave ritardo ma si configura piuttosto come un’implosione della procedura. È evidente che, per salvare almeno parzialmente l’esito di una storia nata male, sarebbe necessario un intervento correttivo ben più robusto. La campagna “Ero Straniero” ha avanzato al riguardo delle proposte precise e concrete a cui integralmente rinvio (https://erostraniero.radicali.it/la-proposta/).
Qui mi sembra interessante analizzare una delle questioni più delicate, sia sul piano etico-sociale che su quello giuridico, che stanno emergendo: il subentro di un nuovo datore di lavoro rispetto a quello con il quale è stata effettuata l’emersione. Che succede se, per le più diverse ragioni, il datore di lavoro con il quale è stata effettuata la procedura di regolarizzazione, non è più disponibile? Come troppo spesso accade nel nostro Paese anche in questo caso questioni che riguardano la condizione giuridica del cittadino straniero non sono regolate esclusivamente da disposizioni di legge, come prevede l’art. 10 della Costituzione, ma degradano a semplici e potentissime circolari dell’amministrazione.
Nella circolare del 24 luglio 2020, in relazione al lavoro domestico o di cura della persona, si prevede, in questa ipotesi, il subentro del famigliare o di altro datore di lavoro mentre, per i settori di cui all’art.103, comma 3, lettera a (agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca e acquacoltura e attività connesse) si contempla l’interruzione del rapporto di lavoro «per cause di forza maggiore» (in pratica fallimento o cessazione dell’attività o di un ramo d’azienda). Una successiva circolare del 17 novembre 2020 affronta la questione della interruzione o mancata instaurazione del rapporto di lavoro per ragioni non riconducibili a cause di forza maggiore: in tali casi la pratica viene trattata «con priorità» e si prevede che, in sede di convocazione presso lo Sportello unico territoriale, verrà formalizzata dal datore di lavoro la rinuncia al rapporto e verrà effettuata una valutazione caso per caso della possibilità di rilasciare al lavoratore straniero un permesso di soggiorno per attesa occupazione. La procedura, che lascia comunque uno spazio di discrezionalità abnorme alla pubblica amministrazione, potrebbe funzionare nel caso di una velocità fulminea del procedimento. Ma, dato che così non è, nelle more della convocazione il lavoratore straniero che ha fatto l’emersione (in genere soggetto debole e senza grandi risorse e appoggi alle spalle) si ritrova, per un tempo indefinito, in una situazione di totale sospensione. Come osserva la campagna “Ero Straniero” «in tali circostanze (interruzione/mancata instaurazione del rapporto di lavoro per cause di forza maggiore o per altri motivi) il lavoratore, in attesa della convocazione (che, stando all’attuale situazione, avverrà solo tra alcuni mesi), si trova privo di reddito e nell’impossibilità di avviare un nuovo rapporto di lavoro e di accedere alle misure di ristoro messe a punto dal Governo». Con acume la stessa campagna formula tre proposte per rimediare a tale situazione kafkiana: a) consentire «il subentro immediato del nuovo datore di lavoro tramite procedura telematica», evitando la procedura in presenza, incompatibile con la necessità di «consentire l’avvio del rapporto lavorativo in tempi consoni»; b) rilasciare ai lavoratori che non hanno disponibilità di un nuovo datore di lavoro che subentri al precedente un permesso di attesa occupazione di almeno 6 mesi; c) generalizzare e non legare alla valutazione “caso per caso” (che allungherebbe ancora di più i tempi del procedimento) la possibilità di subentro di un nuovo datore di lavoro in caso di mancata instaurazione del rapporto per motivi non di forza maggiore.
L’ultima proposta è di assoluto buon senso ma, pur consapevole che la sua stessa accettazione sul piano politico sarà ardua, la ritengo insufficiente: non per massimalismo ma perché in essa non si prevede né la possibilità di interrompere il rapporto di lavoro in corso con un determinato datore di lavoro per instaurarne un altro con diverso datore (ritenuto migliore dal lavoratore straniero) né quella di cambiare settore di occupazione. Certo, entrambe le possibilità, e soprattutto la seconda, sembrano contrastare con il dettato normativo (che, con una scelta iniqua e irrazionale, prevede l’emersione solo nei settori di lavoro specificamente indicati: https://volerelaluna.it/migrazioni/2020/09/15/la-regolarizzazione-nellanno-della-pandemia-un-successo-o-un-fallimento/), ma quella norma appare parzialmente non conforme con fonti sovraordinate poste a tutela dei diritti fondamentali dei lavoratori. Nella seconda parte della Convenzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) n. 143/1975, ratificata con legge 10 aprile 1981 n. 158, che tratta della parità di opportunità e di trattamento, si fa riferimento a «qualsiasi persona ammessa regolarmente in qualità di lavoratore migrante» (art. 11). Lo stesso articolo prevede delle esclusioni da tale categoria, tra le quali non sembrano rientrare gli stranieri che in precedenza non avevano avuto un titolo di soggiorno ma che, a seguito dell’esercizio di una discrezionale volontà politica, hanno ottenuto una regolarità di soggiorno. Infatti, se è vero che lo Stato italiano non è obbligato a regolarizzare la posizione di soggiorno dei lavoratori migranti irregolari, è altrettanto vero che, allorquando tale provvedimento viene preso, sarebbe arbitrario distinguere tra i lavoratori migranti per ciò che attiene la parità di opportunità e di trattamento in materia di condizioni di lavoro. Di particolare interesse è l’art. 14 della citata convenzione laddove prevede che: «Ogni Stato membro può subordinare la libera scelta dell’occupazione, pur garantendo il diritto alla mobilità geografica, alla condizione che il lavoratore migrante abbia avuto residenza legale nel paese, ai fini del lavoro, durante un periodo non superiore a due anni o, se la legislazione esige un contratto di una durata inferiore ai due anni, che il primo contratto di lavoro sia scaduto». Alla luce di tale norma lo Stato italiano avrebbe dovuto precisare, nella norma che ha previsto l’emersione, se intendeva avvalersi delle limitazioni temporali poste dal citato articolo della Convenzione per ciò che concerne il diritto del lavoratore a cambiare mansione di lavoro rispetto a quella con la quale ha effettuato la regolarizzazione; in ogni caso, decorsi due anni, non potrebbe essere impedito al lavoratore straniero di scegliere un datore di lavoro e/o un’occupazione diversa da quella originaria anche se il procedimento amministrativo dell’emersione non si è concluso. L’abnorme lentezza del procedimento, non imputabile al lavoratore, non può costituire motivo di deroga a quanto previsto dalla Convenzione OIL in relazione alla libera scelta dell’occupazione da parte del lavoratore che abbia avuto residenza legale nel paese, ai fini del lavoro, da due anni.
L’interpretazione proposta trova conforto nell’aberrante conclusione alla quale si giungerebbe adottando il punto di vista opposto, ovvero ritenendo non modificabile il rapporto di lavoro instaurato regolarmente a seguito di emersione, neppure decorso il biennio (termine, sottolineo nuovamente, di cui il legislatore non si è avvalso) perché in tale ipotesi il lavoratore si troverebbe legato al datore di lavoro da un vincolo sine die che, senza enfasi, si potrebbe definire di semi schiavitù. Il lavoratore infatti verrebbe letteralmente legato al suo datore di lavoro per tutto il tempo necessario alla conclusione della procedura di emersione anche se essa dovesse durare 5, 10 o più anni, senza alcuna possibilità né di modificare le condizioni contrattuali, né la mansione, né, semplicemente, la possibilità, o meglio il diritto, di abbandonare un datore di lavoro che voglia approfittare di una situazione di potere.
Pubblicato su volerelaluna.it con il titolo completo Regolarizzazione e forme legali di semi schiavitù: un paradosso da evitare
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