Abdel Razek, lavoratore precario tunisino, dice che ci proverà ancora ad attraversare il Mediterraneo, anche a costo di concludere la sua esistenza tra i flutti. Ci proverà e riproverà, come tutti quelli che sono stati espulsi e rimpatriati in Tunisia, un paese che definiscono senza speranza. Un paese che l’Europa considera “sicuro”, dove nello scorso anno più di duemila giovani sono stati arrestati nelle proteste contro l’assenza di ogni prospettiva di poter vivere meglio. E dove sono stati denunciati casi di torture e trattamenti degradanti nelle carceri legati a quegli arresti. D’altra parte, non va molto meglio a chi oggi il Mediterrano lo riesce ad attraversare. Come racconta Hamdi, un altro dei protagonisti del bel documentario-inchiesta “La via del ritorno” che svela i contenuti tutt’altro che noti dell’accordo per il rimpatrio forzato siglato nell’agosto del 2020 tra Italia e Tunisia. La testimonianza di Hamdi, rinchiuso tre mesi nel Cpr di Trapani è agghiacciante. Come lo è il fatto che, grazie a quell’intesa bilaterale, ben 1700 persone siano state rispedite in Tunisia senza poter presentare domanda di asilo. Respingere delle persone solo sulla base del loro paese di provenienza è illegale, ricorda Laura Morreale, e viola la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, che prevede una valutazione della storia individuale per stabilire se la persona che dovrebbe poter presentare richiesta di asilo rischia una forma di persecuzione nel paese di origine
“Torneremo, torneremo un’altra volta. Ci proverò finché non mi mangeranno i pesci” dice con un sorriso amaro Abdel Razek, lavoratore precario tunisino originario della zona di Mahdia, uno dei volti del documentario “La via del ritorno”, realizzato da Giovanni Culmone, Youssef Hassan Holgado e Matteo Garavoglia, del Centro di Giornalismo Permanente (CGP)1. Ha provato più volte la traversata verso le coste italiane, ma ogni volta è stato rimpatriato dalle autorità italiane o intercettato in mare dalla guardia costiera tunisina. “Non solo io, ma tutti quelli che sono stati espulsi ci riproveranno”.
Si somigliano un po’ tutte le storie dei giovani, ormai disillusi sulla possibilità di vivere una vita dignitosa in Tunisia, che decidono di attraversare il mare su imbarcazioni di fortuna per raggiungere l’Europa. Qawarib al-mawt le chiamano, barche della morte. Ma chi non muore, chi ce la fa a mettere piede in territorio italiano, sempre più spesso viene respinto solo per il fatto di provenire dalla Tunisia. Un “paese sicuro” per l’Italia, che ad agosto 2020 ha concordato con il governo tunisino delle misure per accelerare i rimpatri e incrementare le intercettazioni in acque tunisine da parte della guardia costiera nazionale. Da allora, circa 1700 persone di nazionalità tunisina sono state rimpatriate dall’Italia sulla base di quell’intesa, senza poter presentare domanda di asilo.
I termini dell’accordo, che ad agosto veniva dato già per concluso, sono peraltro molto opachi: come rivela l’inchiesta, soltanto a novembre 2020 la Farnesina ha formalizzato il suo impegno a erogare finanziamenti alla Tunisia in cambio di risultati “in materia di riammissione e controllo delle frontiere”. Non è un caso dunque che, ad oggi, la Tunisia detiene il triste primato di paese verso cui l’Italia opera il maggior numero di voli di rimpatrio, superando di gran lunga gli altri Stati con cui sono stati stretti accordi di riammissione.
Respingere delle persone solo sulla base del criterio del paese di provenienza è illegale: va contro la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, che prevede la valutazione della storia individuale per stabilire se la persona che presenta richiesta di asilo rischia una forma di persecuzione nel paese di origine. La Convenzione vieta di discriminare “in base alla razza, alla religione o al paese d’origine”: ma questa disposizione non sembra essere più applicata nel caso dei tunisini, che proprio per la loro nazionalità vengono di fatto privati del diritto di chiedere protezione e rimpatriati in massa, in tempi sempre più brevi.
Lo ha vissuto sulla propria pelle Hamdi, un altro tunisino intervistato nel documentario, che ha deciso di lasciare la Tunisia per offrire alla sua famiglia una vita migliore, dopo che qualcuno aveva incendiato la sua casa, a Susa, probabilmente per minacciarlo. Ma una volta giunto in Italia, nessuno ha ascoltato la sua storia e formalizzato la sua richiesta di asilo. Hamdi si è ritrovato invece nel CPR di Trapani, dove è rimasto rinchiuso per più di tre mesi. La sua testimonianza è agghiacciante, ma tristemente ordinaria per chi conosce la realtà delle politiche di rimpatrio forzato: “Non ci sono letti, non c’è niente. Ci sono solo alcuni materassi per terra. Come ho detto, mettono medicine nel cibo, così dopo aver mangiato ti addormenti. […] Non c’è nemmeno un medico. I documenti che abbiamo firmato a Trapani, li abbiamo firmati senza poterli leggere”.
Durante il trattenimento e il rimpatrio, non vieni trattato come un essere umano. Non solo i migranti diventano pratiche da sbrigare al più presto, ma la loro decisione di spostarsi è moralmente condannata, e questo permette abusi e gravi omissioni da parte delle autorità. Hamdi non è mai stato in carcere in Tunisia, osserva ironicamente, ma in Italia ha trascorso mesi in reclusione solo per aver cercato altrove una speranza di futuro. Abdel Razek, appena sceso da un volo di rimpatrio, racconta di essere stato minacciato da un poliziotto: “Muoviti. Ti rompo le gambe, così vediamo se non ti muovi”.
Le storie di speranze frustrate, detenzioni interminabili nei luoghi di frontiera e maltrattamenti da parte di chi ne esercita il controllo sono ormai all’ordine del giorno, ma non possono lasciarci indifferenti. A volte si trasformano in storie di morti tanto assurde quanto evitabili, come quella di Wissem ben Abdel Latif, il 26enne tunisino morto in circostanze ancora poco chiare, legato a un letto dell’ospedale San Camillo di Roma dopo un periodo di reclusione nel CPR di Ponte Galeria, o quella di Anani Ezzeddine, anche lui tunisino, suicidatosi nel CPR di Gradisca all’inizio di dicembre.
Se la nostra coscienza collettiva si è abituata alle morti di frontiera, l’idea della morte è una presenza costante anche in chi tenta il viaggio. Ma non è il peggiore dei mali: restare in Tunisia è diventata per molti un’ipotesi peggiore. L’ascensore sociale è rotto e la rivoluzione ha deluso le aspettative delle classi popolari, spiega nel documentario Olfa Lamloum, accademica e direttrice della ONG International Alert a Tunisi. Il mancato accesso a lavoro, risorse e servizi segrega di fatto i giovani dei quartieri popolari e dell’entroterra. Crisi economica, sanitaria e politica si intrecciano e rendono per molti e molte ancora più urgente il bisogno di partire. “Il 40% dei giovani dice di pensare sempre alla migrazione”, afferma Lamloum, “i loro sogni sono bruciati, la loro vita non diventa nulla. L’assenza di prospettive è l’assenza di tutte le possibilità”.
Insieme al malessere sociale, il documentario denuncia le misure repressive adottate dalla politica tunisina per farvi fronte: arresti arbitrari, uso della forza contro i manifestanti, criminalizzazione delle migrazioni e dei movimenti sociali. Come afferma Alaa Talbi, direttore esecutivo del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (FTDES), tutti questi segnali minacciano la tenuta democratica del paese e indicano un possibile ritorno dello stato di polizia. Il dibattito sulla violenza della polizia nei confronti dei giovani marginalizzati è oggi più vivo che mai in Tunisia: Antonio Manganella, direttore regionale euro-mediterraneo di Avocats Sans Frontières, denuncia che più di 2mila giovani sono stati arrestati in corrispondenza delle proteste nel corso di quest’anno, e sono emersi diversi casi di torture e trattamenti inumani e degradanti nelle carceri legati a questi arresti.
“Questo è un paese dove non ho trovato i miei diritti e nemmeno quelli dei miei figli” dice Hamdi, che non ha dubbi: “I miei figli li lascerei partire, perché qui non c’è speranza. Non voglio che soffrano come abbiamo sofferto noi”. Ma partire è diventato sempre più difficile, in un regime di gestione delle frontiere che impedisce di fatto alla maggioranza della popolazione tunisina di spostarsi in modo legale in Europa e che negli anni recenti ha inasprito ulteriormente la criminalizzazione delle migrazioni.
Ormai sono in molti, in Tunisia come in Italia, a sollevare il problema delle violazioni sistematiche dei diritti umani dei migranti tunisini. Ma il governo italiano resta sordo a queste voci, mentre quello tunisino sembra troppo debole per porre la questione in modo deciso. In occasione dell’ultima visita Di Maio a Tunisi del 28 dicembre, il presidente tunisino Kais Said ha sottolineato i limiti delle attuali politiche di contrasto all’immigrazione irregolare, chiedendo un approccio condiviso “che consenta di incoraggiare la migrazione regolare secondo meccanismi che garantiscano i diritti dei migranti”2.
Ma anche se venisse preso formalmente in carico dalle autorità, italiane e tunisine, l’impegno a rispettare i diritti umani dei migranti rischia di rimanere a lungo solo vuota retorica. La formula sembra ormai diventata un mantra con cui esimersi da situazioni di responsabilità, e la vicenda Italia-Tunisia non fa eccezione a questo modello. Come rivela l’inchiesta del CGP, l’UNOPS (ufficio dell’ONU per i servizi e i progetti), che ha finanziato il progetto della Farnesina di 8 milioni di euro per il restauro di 6 motovedette della Guardia costiera tunisina, si è limitato a margine del documento a “invitare le autorità tunisine a non violare i diritti umani”.
È evidente che queste timide richieste istituzionali, pronunciate a bassa voce e diluite in pagine di rapporti tecnici, non possono produrre nessun effetto reale. E così, tante persone intercettate in mare o sottoposte ai rimpatri continueranno a provarci, ad attraversare la frontiera, private dei propri diritti e, in alcuni casi, della vita stessa.
- https://www.rainews.it/archivio-rainews/media/inchiesta-via-del-ritorno-premio-morrione-2021-diritti-umani-violati-nella-rotta-migratoria-tra-Tunisia-e-Italia-790780dd-a7bc-4c7c-80d6-c85fdb53a566.html
- https://www.france24.com/ar/
Fonte: Melting Pot. Laura Morreale fa parte della Redazione community del Progetto Melting Pot Europa e collabora con Comune
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