A volte succede. A volte passi anni e anni a lavorare su un problema, come quello di come avere un commercio più giusto, a servizio dei bisogni materiali e immateriali delle persone, e provi a risponderti alla domanda: chi saranno le donne e gli uomini che pensano e praticano politiche tanto prive d’umanità come quelle di liberalizzazione commerciale? Che hanno, ad esempio il coraggio di esportare un prodotto italiano di bassa qualità e di basso prezzo, che da noi non ha mercato, nascosto dietro regole che lo proteggono, facendo così concorrenza sleale e buttando fuori mercato donne e uomini che faticano tutti i giorni, con poche certezze di salute e di reddito, causandogli così una miseria sempre più disperata? Come fanno a slegare guardie armate fino ai denti e a deportare centinaia di migliaia di persone inermi pur di costruire una diga, un ponte, uno stabilimento petrolifero? Oppure a mettere su piantagioni, magari anche biologiche, sapendo che però il bracciante che ci lavora era in realtà il padrone di quella terra, che coltivava con coraggio, e prima di lui sua madre e suo padre, i suoi nonni, cui hai letteralmente strappato dalle mani il diritto di coltivarla? Te li immagini con un occhio al centro della testa, certo, con la coda, qualche corno ben nascosto qui e là. Ma non ti rassegni a pensarli umani, come te e come chi ti legge, persone che mangiano tre o più volte al giorno, eppure decidono che altri non lo facciano.
Tutte le volte che mi succede di incontrarne una o uno, resto sempre sorpresa, cerco rapidamente con gli occhi la coda, le corna, e quando non li trovo assumo un atteggiamento di stupore e meraviglia che sicuramente insospettiranno l’interlocutore. E’ successo lo stesso mercoledì, quando alla presentazione al Forum sociale di Tunisi del nuovo Osservatorio sul commercio internazionale «Trade game: il commercio non è un gioco» – promosso da Cgil, Arci, Legambiente e noi di Fairwatch – si è presentata, a sorpresa, la rappresentante della «filiale» della Commissione europea a Tunisi, e insieme a lei un tecnico del Parlamento europeo, esperto in tematiche internazionali. Al centro del seminario, gli Accordi di partenariato economico «ampi e approfonditi» (lo so che fa ridere, ma Dcfta vuol dire proprio questo) che l’Europa sta negoziando coi Paesi del Maghreb. Non c’è molto da dire a riguardo: l’Europa ha promosso da sempre dei rapporti preferenziali con le sue ex colonie, che ha legato a se’ dopo la loro indipendenza con pesanti capestri commerciali.
Esistevano già dei vecchi accordi: nel 1995 il partenariato euromediterraneo prevedeva che si cominciassero a implementare questo tipo di Accordi di associazione. Nel momento in cui, però, sono cominciate a cadere le prime barriere commerciali, se ne sono sentiti i pesanti contraccolpi. «La Primavera araba ha abbattuto la dittatura, ma non è ancora riuscita ad abbattere il modello di sviluppo della dittatura – ci ha spiegato il rappresentante della Fseg, già segretario nazionale del settore scuola superiore e università della Tunisia – La Tunisia ha firmato i primi accordi perché erano supportati da un Rapporto fatto dalla Banca mondiale in cui si diceva che la Tunisia avrebbe guadagnato con questo passo un 3 per cento di miglioramento del benessere, oltre ad attirare investimenti esteri. Al tempo il coordinamento degli imprenditori protestò per non essere stato consultato, e previde che che 1/3 del tessuto economico della Tunisia, parliamo di 120.000 imprese, sarebbe stato danneggiato».
Il nostro modello di sviluppo
Che cosa è successo davvero? Ce lo spiega lo stesso sindacalista, che sottolinea che «E’è evidente che le finanze pubbliche per un Paese in cui il 30 per cento del bilancio pubblico veniva dalle tariffe, non c’è altra scelta che dipendere dall’esterno, e infatti oggi siamo strutturalmente finanziati, al 30 per cento del budget, dal debito estero. Il secondo passo fu ha il taglio dei trasferimenti sociali: la fine del sostegno ai prezzi al consumo, la spesa per l’educazione, la sanità pubblica e altre spese pubbliche come i bilanci delle autorità locali. I prezzi, dunque, sono esplosi, e la fine di ogni politica pubblica di sostegno alle imprese ha portato ben oltre le chiusure previste: il prezzo la gente lo paga in occupazione: nonostante il dato sia segretato, si stima che ci sia ad oggi un 18,23-20 per cento di disoccupazione in Tunisia, che per le donne arriva al 25,6 per cento, e al 35 per i diplomati e/o laureati. Più colpite, inoltre, le regioni contadine dell’interno, perché le prime liberalizzazioni hanno toccato i prodpotti agricoli e in particolare le eccedenze del mercato italiano, spagnolo e greco, hanno potuto essere scaricate qui con il risultato che nelle aree rurali, la disoccupazione oscilla tra il 30 e il 51 per cento, che si registra ad esempio Tatouine.
Di fronte a questa gragnola di dati, la rappresentante dell’Unione europea non ha battuto ciglio: «In Europa abbiamo una terribile crisi, è vero – ha spiegato a noi astanti inorriditi – abbiamo poca crescita, è importante non solo esportare i nostri problemi, ma cercare di lavorare meglio con gli altri partners, con i loro mercati. I nostri partners del Sud capiscono bene che non stiamo soltanto perseguendo un’agenda di aggressione ai loro mercati, ma un complemento economico a un legame politico profondo. C’è chi può chiamarle delocalizzazioni, noi le chiamiamo partecipazione alla catena del valore. Stiamo dando loro un appiglio per entrare nel mercato comune e, attraverso questo, adottare in nostro modello di sviluppo europeo».
In rete per rompere la logica mercantilistica
E qui, come avrete capito, casca l’asino, in effetti. «Non è solo business as usual – ha commentato il responsabile del dipartimento internazionale della Cgil Leopoldo Tartaglia –ma si vuole addirittura esportare un modello di sviluppo che ci ha portato alla crisi. Ricordo quando la Tunisia veviva citata come esempio di sviluppo, per la sua crescita tra il 3 e il 5 per centi annui del Pil, ma esso non si è tradotto in benessere sociale, in buona occupazione, tanto che la gente ha fatto la rivoluzione! E’ chiaro che fino a che questo accordi verranno negoziati in segreto, con i testi considerati segreto commerciale fino a mesi dopo la loro approvazione definitiva, ogni nostro tentativo di dare un contributo positivo fallirà. L’unica cosa che possiamo fare è stare in rete, come succede oggi, fare intelligence, trovare le maglie che non tengono e, insieme ai nostri alleati nel Sud, scegliere insieme in che direzione andare, senza continuare a perseverare in un sistema che ci ha portato alla crisi strutturale nella quale ci troviamo». E che le cose andranno esattamente così ce lo ha confermato Bruno Ciccaglione, coordinatore della rete di ong che lavora in Europa sulla giustizia nel commercio, Seattle to Brussels: «Lla Commissione europea ha già svolto delle valutazioni d’impatto sull’area di libero scambio euro mediterranea. Si valuta che, se verrà creata, ci sarà una perdita di posti di lavoro del 3 per cento circa in Giordania, dell’8 per cento in Marocco, Tunisia ed Egitto, con relativa pressione sui salari e un’aggravarsi del tasso di povertà. Nei settori alimentare, tessile, pelle e calzature, la perdita di produzione si prevede arriverà fino al 90 per cento. Per non parlare della perdita di potere di acquisto delle fasce sociali più povere. Eppure queste valutazioni passano ignorate e i consigli degli esperti superati dalla sete di business delle corporations e dei potentati europei».
E’ per opporsi a questo e alle decine di attacchi che i padroni del commercio, in Europa e nei Paesi emergenti, stando sferrando anche ai mercati più poveri, prima che il sistema collassi, nasce in Italia l’osservatorio Trade Game. L’obiettivo è fare rete tra Paesi coinvolti e fare pressione perché l’opinione pubblica e i decisori politici siano consapevoli delle trattative in corso e delle loro implicazioni. Per noi, il commercio internazionale deve vedere tutti i soggetti, istituzionali e sociali, sullo stesso piano, e muoversi nell’ottica del pieno rispetto di tutti i diritti, delle prospettive di benessere condiviso e di difesa della buona occupazione in tutti i Paesi, salvaguardando i beni comuni e i diritti umani e sociali da ogni logica mercantilistica. Nei negoziati dell’Organizzazione mondiale del commercio, come negli altri mille rivoli delle liberalizzazioni e del profitto.
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