Le piante viaggiano grazie al vento, agli animali, all’uomo. Per questo l’eccesso di calcoli e di regole e la sicurezza a ogni costo non possono essere al centro dell’ecologia. Lo dimostrano le storie dell’acacia-gigante, del fico-d’India, del cardo-asinino (foto) e di altre piante vagabonde
Scrittore di saggi e romanzi, architetto paesaggista ma anche agronomo e giardiniere, il francese Gilles Clément insegna all’École nationale du paysage di Versailles. Paesaggista tra i più noti e discussi d’Europa, è il teorizzatore di concetti come giardino planetario, giardino in movimento e soprattutto di terzo paesaggio (i luoghi abbandonati dall’uomo, e proprio per questo utili per la conservazione della biodiversità). «Elogio delle vagabonde» – di cui Derive Approdi ha appena pubblicato la seconda edizione (147 pagine, 15 euro) – è il suo ultimo libro: un testo di botanica e letteratura, con il quale l’autore racconta la storia dell’acacia gigante, del fico d’India, del cardo asinino e di altre «erbacce» Al centro del libro resta la difesa della «mescolanza planetaria», alimentatata dagli spostamenti umani, quelli occasionali e imprevisti (vagabondi) si rivelano a sorpresa più adatti per la protezione della diversità. «Esseri mobili, a nostra immagine, le vagabonde inventano soluzioni di esistenza».
Di seguito, l’introduzione del libro e l’indice completo.
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Le piante viaggiano. Soprattutto le erbe.
Si spostano in silenzio, in balìa dei venti. Niente è possibile contro il vento.
Se mietessimo le nuvole, resteremmo sorpresi di raccogliere imponderabili semi mischiati di loess, le polveri fertili. Già in cielo si disegnano paesaggi imprevedibili.
Il caso organizza i dettagli, per la diffusione delle specie ricorre a ogni possibile vettore. Non c’è nulla che non sia adatto al trasporto: dalle correnti marine alle suole delle scarpe. Ma la gran parte del viaggio spetta agli animali. La natura prende in prestito gli uccelli consumatori di bacche, le formiche giardiniere, le docili pecore, sovversive, il cui vello racchiude campi e campi di sementi. E poi l’uomo. Animale tormentato in continuo movimento, libero scambiatore della diversità.
L’evoluzione ha il suo tornaconto. La società no. Il minimo progetto di gestione cozza contro il calendario delle previsioni. Come ordinare, gerarchizzare, imporre, quando a ogni angolo spuntano possibilità? Come conservare il paesaggio, gestirne il dispendio se si trasforma col passare degli uragani? Quale schema tecnocratico applicare agli straripamenti della natura, alla sua violenza?
Al cospetto dei venti e degli uccelli rimane il problema dei divieti. La natura creativa condanna il legislatore a rivedere i testi, a cercare parole rassicuranti.
E se la assicurassimo contro la vita?
Un simile progetto – la sicurezza a qualunque costo – trova alleati inattesi: i radicali dell’ecologia, i difensori della nostalgia. Nulla deve cambiare, ne va del nostro passato, dicono gli uni; nulla deve cambiare, ne va della diversità, dicono gli altri. Maledetto vagabondaggio!
Il discorso va oltre. Diventa politico, mette insieme gli animi sulla necessità di sradicare le specie venute da altri luoghi. Cosa diventeremo se gli stranieri occupano le nostre terre? È questione di sopravvivenza.
La scienza corre alla riscossa: l’ecologia, ostaggio dei suoi integralisti, serva da argomento. È qui che nasce l’impostura: i calcoli statistici, la levata dei censimenti portano a un genocidio tranquillo, planetario e legale. E al contempo si configura un’impostura di più larga scala: far passare per patrimonio il minimo carattere identitario – un sito, un paesaggio, un ecosistema –, così da poterne spazzare via ciò che non sta lì a ribadirlo.
In nome della diversità – tesoro da preservare per inconfessabili calcoli: non c’è forse da guadagnarci qualche soldino, qualche brevetto da registrare? – le energie si mobilitano contro l’intollerabile processo dell’evoluzione.
Per cominciare, ce la prendiamo con gli esseri che con quel luogo non hanno niente a che fare. Soprattutto se lì sono felici. Anzitutto eliminare, poi si vedrà. Regolare, registrare, fissare le norme di un paesaggio, le quote di esistenza. Definire nemici, pestilenze o minacce gli esseri che osano valicare questi limiti. Istruire un processo, definire un protocollo d’azione: dichiarare guerra.
Questo libro si oppone a un atteggiamento ciecamente conservatore. Vede nella molteplicità degli incontri e nella diversità degli esseri altrettante ricchezze apportate al territorio.
Io osservo la vita nella sua dinamica. Col suo normale tasso di amoralità. Non giudico, ma prendo le parti di quelle energie suscettibili di inventare situazioni nuove. Probabilmente a scapito del numero. Diversità di configurazioni contro diversità degli esseri. Una cosa non vieta l’altra.
Elogio delle vagabonde si limita al giardino: al pianeta visto come tale. Al giardiniere, passeggero della Terra, mediatore privilegiato di matrimoni inattesi, attore diretto e indiretto del vagabondaggio, a sua volta vagabondo.
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INDICE
L’avventura delle vagabonde 5
Prefazione all’edizione italiana, Andrea Di Salvo
Introduzione 17
Parte 1. Alcune vagabonde
La panace di Mantegazzi 21
Verbasco e tasso barbasso 25
Le enotere 29
Il cardo asinino 32
Il ginestrone 35
Il finocchio 38
Il toccacielo 42
Il fico d’India 46
Il cocco 50
Il gittaione comune 54
L’ambrosia 56
La salicaria 59
Il lupino 63
L’acacia gigante 66
Le porracchie di Montevideo 70
L’erba della pampa 74
L’albero delle farfalle 77
Il poligono del Giappone 81
Il papavero da oppio o sonnifero 83
La lantana 87
La cosmea 90
La caulerpa 92
Le nigelle 96
Parte 2. Il pianeta, un paese senza bandiera
I residui 102
La «secondarizzazione», stato di natura trasformata 104
La mescolanza planetaria (brassage) 105
Il continente teorico 107
La risposta dell’habitat 109
Il paesaggio oggetto 110
Ambiente: natura oggetto 113
La dinamica del vivente 114
Il giardino planetario 116
Elogio delle vagabonde 119
Bibliografia 121
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