Se ogni iniziativa di “educazione alla pace” non utilizza metodi didattici e processi di relazione personale coerenti con i fini che si dichiara di voler raggiungere, il fallimento è inevitabile. Educare con la pace significa, quindi, proporre una formazione non solo teorica ma attenta anche alle implicazioni relazionali. Una formazione che non ignora la questione del potere nella relazione educativa, nei rapporti uomo-donna, nei rapporti sociali
È un interrogativo che mi pongo da tempo: perché innumerevoli corsi e laboratori e rassegne letterarie teatrali cinematografiche e mostre di disegni di piccoli e grandi e canzoni e ogni altra specie di attività che si è chiamata di “educazione alla pace” non hanno prodotto un senso comune diffuso di opposizione alla guerra? Se dovessimo badare alla quantità – e in questo caso l’elenco sarebbe pari a quelli telefonici che si usavano un tempo – di “percorsi”, “cantieri”, “cammini” e così via che si sono dedicati alla “educazione alla pace”, le reazioni nelle scuole e nelle famiglie all’enfasi bellicistica sempre più insistente dovrebbero essere state quelle di una generale e sonora pernacchia collettiva. Invece – come benissimo documentato nel prezioso libro di Antonio Mazzeo La scuola va alla guerra1 sono ormai diffusi in modo preoccupante (e nemmeno attribuibili alle decisioni dell’attuale governo di destra, dato che molte decisioni in merito, purtroppo, sono state prese anche da governi precedenti, a volte sedicenti di centro-sinistra) casi di visite di scuole (anche dell’infanzia) a caserme e basi militari, di PCTO (i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento, che hanno sostituito l’alternanza scuola-lavoro) attivati fianco a fianco con le forze armate, di incontri e conferenze per studenti nei quali giovani soldati e soldatesse raccontano quanto sia affascinante la vita nell’esercito (o in altre armi) e così via.
Perché a questo sempre più evidente processo di militarizzazione della scuola italiana (che, al colmo del paradosso, a volte coinvolge istituti intitolati a don Lorenzo Milani!) e allo stillicidio quotidiano di notizie su una guerra imminente alla quale dobbiamo prepararci, non c’è una risposta generalizzata di rifiuto, di obiezione di coscienza, di “preferirei di no” al modo dello scrivano Bartleby di Melville o di “mi no firmo”, come Franco Basaglia quando decise di cominciare a sottoporre a critica radicale l’allora vigente sistema di detenzione manicomiale per i malati di mente?
Non ho una risposta certa. Ho un’ipotesi, che credo sia necessario approfondire e sviluppare in diversi sentieri educativi.
Credo che il problema sia nel rapporto fini-mezzi. Credo, cioè, che se ogni iniziativa di “educazione alla pace” – cioè di moto a luogo verso un orizzonte più o meno definito, più o meno ideale, più o meno realizzabile – non utilizza metodi didattici e processi di relazione personale coerenti con i fini che si dichiara di voler raggiungere, il fallimento sia quasi inevitabile.
Anni fa mi capitò di assistere a una zuffa tra genitori che rivendicavano il posto in prima fila per i propri pargoli in una rappresentazione teatrale tratta da La gabbianella e il gatto di Luis Sepulveda. Una simpatica storia di accoglienza e valorizzazione delle diversità era diventata, a causa dell’ossessione competitiva dei padri, occasione per una disputa ai limiti della violenza. È evidente che bambini e bambine – che imparano sempre molto di più dagli esempi reali che sono sotto i loro occhi e molto di meno dalle prediche moralistiche che noi adulti siamo soliti fare – si portarono a casa l’idea che ciò che conta è esser davanti a tutti, anche a scapito di chi resta indietro. È solo un esempio. Ma se continuiamo ad operare in modo tale che la distanza tra l’apparenza degli appelli, spesso rituali in modo stantio, alla “legalità”, alla “cittadinanza”, all’”affettività”, alla “pace” e chi più ne ha più ne metta e la sostanza dei comportamenti concreti (competitività, arrivismo, piaggeria nei confronti del potere, ipocrisia, iato consapevole tra il richiamo a ‘regole’ che debbono valere sempre per gli altri e furbizia individuale per aggirarle a proprio vantaggio2) sia sempre maggiore, è evidente che non possiamo che aspettarci i tristi risultati socio-politici ai quali stiamo assistendo.
Forse sarebbe il caso di apportare al nostro fare educativo una modifica che non è solo linguistica: passare dalla “educazione alla pace” all’“educazione con la pace”. Non più un moto a luogo, verso un luogo che rischia sempre di essere nel paese-del-mai, ma un agire secondo i princìpi della nonviolenza – quindi la coerenza tra i fini dichiarati e i mezzi utilizzati per raggiungerli, la non-menzogna, la non-collaborazione con chi usa mezzi violenti – stando dentro il “paese dell’educazione”. In pratica, sempre per fare qualche esempio, significa, in ambito scolastico, pensare a una didattica che non sia più solo quella trasmissiva e a una valutazione che non sia lo strumento di potere col quale assoggettare – educando così alla sottomissione – gli alunni e le alunne. E significa, in ambito più generale e di rapporto istruzione-educazione, operare non avendo come primo (e spesso unico) comandamento la visibilità della propria persona-gruppo-associazione-cooperativa etc. (e magari la conseguente affermazione nell’accesso e nella vittoria a bandi di ogni tipo), ma un interesse generale più ampio e una via politica che porti al bene comune, non (almeno non solo) al comune che dispensa finanziamenti per ristrette cerchie di operatori.
I riferimenti non ci mancherebbero. Per citarne solo alcuni, rimanendo in Italia, Aldo Capitini, Danilo Dolci, Alexander Langer (e la sua proposta di istituzione di Corpi Civili di Pace Europei che nessuno sembra aver raccolto con convinzione) e don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, don Tonino Bello. Ma anche seguendo la strada aperta fin dal primo congresso a Calais nel 1921 dalla Lega Internazionale per l’Educazione Nuova – c’erano Adolphe Ferrière, Jean Piaget, Maria Montessori, Alexander Neill, Celestin Freinet e molte e molti altri -, che si riunì a pochi anni dalla fine della Prima guerra mondiale proprio a partire dalla necessità di immaginare un’educazione che non portasse a soluzioni belliche terribili come fu la Grande Guerra. Non ci riuscirono, com’è noto, ma molte delle idee e delle pratiche che furono elaborate in quello e nei successivi congressi sono ancora più che valide (quella ispirazione è stata raccolta dalla rete internazionale Convergence(s) – www.convergences-educnouv.org – alla quale per l’Italia partecipano il MCE, i CEMEA e il Polo Europeo della Conoscenza, che quest’anno organizza il suo appuntamento biennale dal 30 ottobre al 2 novembre a Nantes).
O, ancora, il prezioso lavoro che è compiuto nell’organizzazione dell’Eirenefest-Festival del libro per la pace e la nonviolenza – www.eirenefest.it – , che anche quest’anno si svolgerà a Roma dal 31 maggio al 2 giugno.
Educare con la pace significherebbe, quindi, prima di tutto una formazione non solo teorica, ma attenta anche alle implicazioni relazionali, di quante e quanti volessero intraprendere questa strada. Una formazione che non deve ignorare – come troppo spesso mi pare venga fatto, in nome di un’a-conflittualità di facciata che sfocia in illusione irenistica persino pericolosa e nasconde sotto il tappeto la polvere dell’aggressività che ciascuno di noi si porta dentro – la “questione del potere”: nella relazione educativa, nei rapporti uomo-donna, nei rapporti sociali etc. (il potere esiste e la pulsione ad usarlo è intrinseca all’essere umano, negare questa evidenza può avere effetti disastrosi).
Pensiamoci, insieme, prima che sia troppo tardi.
1 Antonio Mazzeo: LA SCUOLA VA ALLA GUERRA. Inchiesta sulla militarizzazione dell’istruzione in Italia. Manifestolibri. Roma, 2024
2 A questo proposito ritengo che rimanga insuperabile come descrizione di tutto il peggio possibile l’episodio L’EDUCAZIONE SENTIMENTALE, interpretato da Ugo Tognazzi, che apre I MOSTRI (Italia, 1963) di Dino Risi.
Fiorella Palomba dice
La moltitudine di persone che hanno scritto, lottato, lavorato per la PACE e per l’educazione alla PACE che l’autore cita ci fa sperare nonostante tutto: Franco Basaglia, Aldo Capitini, Danilo Dolci, Alexander Langer, don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, don Tonino Bello, Adolphe Ferrière, Jean Piaget, Maria Montessori, Alexander Neill, Celestin Freinet, Luis Sepulveda.
Nell’articolo si fa riferimento alla martoriata SIRIA. Io ricordo il viaggio con mia sorella nel 1991, in piena guerra del golfo: due pazze in solitaria in un luogo magnifico che non esiste più.
PALMIRA, la sposa del deserto, è sempre nel mio cuore. 🌸