Un’analisi ad ampio raggio delle cause e concause di quella che può essere considerata la “policrisi” che attraversa il piccolo paese andino, non certo uso a situazioni quali quella vissuta in passato in Colombia o attualmente in Messico. Una policrisi che risulta evidente analizzando in filigrana gli eventi degli ultimi sei mesi, scrive Francesco Martone, che conosce in profondità le vicende ecuadoriane e che parte dai riflessi condizionati, quelli che il medico russo all’inizio del Novecento mise in evidenza con il suo discutibile esperimento sui cani, per guardare, al di là delle semplificazioni mediatiche sulla violenza e degli stereotipi sull’America Latina. L’Ecuador è un paese piccolo e bellissimo, sfiancato dall’impoverimento, dalla marginalizzazione, dall’indebolimento virale degli apparati dello Stato che oggi, con lo stato d’eccezione, vive l’aggravarsi di una delle declinazioni più incendiarie della guerra che dilaga qui e in molte altre regioni del pianeta. L’ombra inquietante degli Stati Uniti, maestri indiscussi dello sfruttamento a fini geopolitici della “guerra alle droghe” naturalmente incombe. La storica confederazione delle nazionalità indigene, a tutti nota come Conaie, esprime intanto solidarietà con le vittime del conflitto, esorta le comunità ad organizzare guardie indigene per la protezione dei loro territori (finora quasi per nulla toccati dalla violenza dei narcos) e intima al governo di non utilizzare il pretesto della guerra per imporre misure antipopolari. Nei giorni scorsi, con le sue organizzazioni amazzoniche, è scesa in piazza per protestare contro la costruzione di una delle due supercarceri modello Bukele nella provincia del Pastaza. Le organizzazioni per i diritti umani che puntano il dito sull’inappropriatezza del ricorso allo strumento militare, ed alle possibili gravi ricadute sui diritti umani
Esperimento di Pavlov: “Associando per un certo numero di volte la presentazione di carne ad un cane con un suono di campanello, alla fine il solo suono del campanello determinerà la salivazione nel cane. “
C’è molto di neuropolitica nel dipanarsi degli eventi più recenti in Ecuador, con la loro drammaticità e con le risposte draconiane decise dal presidente Daniel Noboa. C’è la neuropolitica del terrore, c’è neuropolitica nell’ansia da prestazione di un neoeletto che si trova a dover fare i conti con una situazione, già chiara fin dall’inizio, che rischia di pregiudicarne l’eventuale elezione futura. E c’è molta psicopolitica in un paese che non riesce a scrollarsi di dosso l’odio viscerale verso gli anni della “Revolucion Ciudadana” da una parte o dell’amore incondizionato per il suo padre Rafael Correa dall’altra.
E che inevitabilmente ricade “come il cane di Pavlov”, in scelte politiche che favoriscono le elite economiche del paese, nella convinzione di scegliere il meno peggio. E c’è un paese sfiancato dall’impoverimento, dalla marginalizzazione, dall’indebolimento virale degli apparati dello stato. E dall’altra parte, di nuovo, oltreoceano, si assiste ad una sorta di riflesso pavloviano secondo il quale oggi in Ecuador si starebbe vivendo una guerra civile, o un golpe. Un inferno insomma. Riflesso pavloviano che potrebbe nascondere una sorta di “orientalismo” latente che permea tuttora la lettura oltreoceano dei fatti di questo continente.
Sarà pertanto necessario usare il classico rasoio di Occam, per provare a sfrondare i fatti, le notizie, le interpretazioni e cercare di andare alla grana delle cose.
La grana delle cose è così detta. L’Ecuador vive ormai da qualche anno una situazione conclamata di insicurezza determinata dalla penetrazione di ben 22 bande di narcotrafficanti (colombiane, o affiliate ai cartelli messicani di Jalisco – Nueva generación e Sinaloa, coadiuvate da bande albanesi presenti sulla costa del paese, il che fa supporre anche connessioni con la “ndrangheta calabrese) soprattutto nelle regioni della costa. L’indice di omicidi è tra i più alti dell’America Latina. Regioni come Esmeraldas – a stragrande maggioranza di popolazione afro, da sempre marginalizzata ed impoverita (figli e figlie della “colonialidad del poder” direbbe il grande e compianto Anibal Qijàno) o Guayas, in una maniera o l’altra, sono terreno fertile o strategicamente rilevante per le rotte della cocaina. L’una per la grande disponibilità di “manodopera” a basso costo, “gatilleros” li chiamano, ragazzi di periferia abbandonati a sé stessi, vittime di un destino storico che li mette ai margini, che per un pugno di dollari impugnano una pistola e semplicemente tirano il grilletto.
O vanno ad estorcere tangenti, “vaccinazioni”, ai commercianti o alle famiglie. L’altra per l’importante porto di Guayaquil, territorio da controllare per esportare droga negli Stati Uniti ed in Europa, spesso all’interno di container di banane, come accaduto in un recente ingente sequestro al porto di Gioia Tauro. La penetrazione delle bande di narcos in Ecuador subisce un’accelerazione paradossale con il processo di pace in Colombia quando zone di frontiera “controllate” dalle FARC vengono abbandonate e lasciate preda di nuove formazioni paramilitari o delle gang che producono coca.
L’Ecuador si trova così tra due regioni di produzione quali la Colombia ed il Perù, con frontiere porose, piccoli e grandi porti dai quali far partire i carichi, un tessuto sociale squassato da anni ed anni di politiche neoliberali, un’ economia centrata quasi esclusivamente su un modello estrattivista che lascia ampi strati di popolazione impoverita (e che in fin dei conti è la faccia “buona” di quello delle narcoeconomie), una società attraversata da enormi diseguaglianze, anzitutto nelle aree urbane, mercato informale del lavoro, corruzione dilagante negli apparati dello stato. Una economia dollarizzata che rende più facile il riciclaggio del denaro anche grazie alla diffusa attività di estrazione illegale di oro. Quale migliore combinazione per le narcomafie per farne il luogo di trasformazione e spedizione delle loro merci? Esiste secondo alcuni analisti, in particolare Pablo Davalos, una forte correlazione tra l’applicazione della “shock doctrine” neoliberista del FMI, e le sue conseguenze sociali, politiche ed economiche, ed il dilagare della criminalità organizzata.
Una correlazione che impone una analisi ad ampio raggio delle cause e concause di quella che può essere considerata una “policrisi” che attraversa il piccolo paese andino, non certo uso a situazioni quali quella vissuta in passato in Colombia o attualmente in Messico. Una policrisi che risulta evidente analizzando in filigrana gli eventi degli ultimi sei mesi. Riavvolgiamo il nastro ad agosto dello scorso anno. Nelle carceri ormai da tempo infiammano le rivolte. Gli scontri tra bande, spesso favoriti dalla connivenza delle autorità penitenziarie (come si spiegherebbe altrimenti la presenza di armi ed esplosivi utilizzati nelle rivolte?) imperversano con brutalità inedita.
Il problema delle carceri nasce dal pan-penalismo diffuso negli apparati dello stato e da una visione essenzialmente punitiva e del castigo profondamente patriarcale, e che ha aumentato a dismisura la tipologia di delitti per i quali si va in galera (financo per guida senza patente). E dalla costruzione nel 2014 di tre carceri di massima sicurezza nelle quali vengono rinchiusi i narcos, creando le condizioni per la loro trasformazione in centri di comando e teatri di guerre interne. La campagna elettorale per le presidenziali, convocata anzitempo a seguito della decisione dell’allora presidente Lasso di sciogliere con il meccanismo della “muerte cruzada” il parlamento ed andare al voto per evitare una procedura di impeachment per corruzione, è di fatto dominata dal tema della sicurezza.
A ridosso dell’apertura delle urne, il colpo ad effetto che determinerà l’esito elettorale. Prima l’assassinio del candidato presidente Fernando Villavicencio , un paladino della lotta alla corruzione, ucciso a Quito in occasione di un evento di campagna e subito dopo del sindaco di Manta, altra città portuale, territorio in mano alle bande come altri nella costa. Nei giorni che seguono emerge nei sondaggi la figura, fino ad allora sottotono, del candidato della costa, espressione di oligarchie locali e nazionali, le stesse che avevano sostenuto a suo tempo Lasso. Un giovane sconosciuto ai più Daniel Noboa, figlio di “Alvarito” grande tycoon dell’industria bananiera , candidato permanente alla presidenza, e nipote di Isabel grande impresaria del settore immobiliare di Guayaquil. Nel ballottaggio Noboa vince contro la candidata della Revolucion Ciudadana, Luisa Gonzales, e subito fa della sicurezza il suo cavallo di battaglia. Si trova di fronte ad uno scenario assai complesso.
Un Congresso nel quale sulla carta non gode della maggioranza (anche se poi voterà a maggioranza i primi provvedimenti economici e lo stato di conflitto armato interno anche in virtù di un patto con importanti settori delle opposizioni), la stragrande maggioranza dei territori controllati dai partiti dell’opposizione (Revolucion Ciudadana e Pachakutik, partito di riferimento della potente CONAIE, Confederazione delle Organizzazioni Indigene dell’Ecuador). Sullo sfondo l’importante vittoria del referendum nazionale contro l’estrazione petrolifera nello Yasuni che prefigura l’esistenza di un movimento sociale ed ecologista ben più forte dei numeri elettorali.
Insomma, Noboa appare sin dall’inizio una sorta di anatra zoppa che si troverà a vivere una situazione , per ritornare alla neuropolitica di cui sopra, di una vera e propria sindrome da stress post-elettorale, stretto tra l’urgenza di dare segnali forti e ad effetto di contrasto alla criminalità organizzata e quella di rispondere nel breve tempo del suo mandato, agli interessi delle lobbies cui fa riferimento. Tertium non datur, anche se quel tertium è rappresentato dalla stragrande maggioranza del paese, già fiaccata dalla pandemia. Ed è proprio da quel “tertium”, “dal basso”, direbbe il sociologo uruguayano Raul Zibechi, che si dovrebbe partire per ricostruire una ipotesi plausibile di un paese capace di un altro futuro.
Quel tertium al quale andrebbero destinate le risorse del paese, giovani ed adolescenti lasciati soli ed in preda alle bande criminali, con padri e madri che emigrano per disperazione, attraversando a piedi l’istmo di Darien per provare ad arrivare negli Stati Uniti. Così prima ancora del suo insediamento, Noboa si trova a fare alcuni reimpasti di pre-governo, lancia un piano per la sicurezza, “Fenice”, poi decide di togliersi di mezzo la vicepresidente incomoda, grande simpatizzante di Vox, spedendola in Israele con l’incarico di “inviata speciale” per la pace. E si mette al lavoro. Passano poche settimane ed esplode lo scandalo “Metastasis”, prova di quanto i narcos siano riusciti a penetrare il settore giudiziario, stretto tra corruzione e minacce.
Nel frattempo, il presidente inizia ad impostare il suo programma economico presentando leggi che mirano principalmente a flessibilizzare il mercato del lavoro, creare zone di libero commercio, esentasse, che coincidono con i grandi possedimenti e piantagioni dei tycoon dell’agribusiness, annunciando la rimozione dei sussidi al carburante, già detonante dell’ultima rivolta indigena dello scorso anno, repressa brutalmente dal governo Lasso. Una “ley economica” che avrebbe creato grande resistenza nel paese, e che risponde, assieme alle altre, alla necessità di assicurarsi il sostegno del Fondo Monetario Internazionale. In parallelo, vengono ridotti i fondi alle autorità locali, viene addirittura chiuso il dipartimento per la sicurezza alle sue dipendenze.
Si annuncia una “amnistia” fiscale per i redditi più alti. I casi di corruzione degli apparati di sicurezza si susseguono. Noboa prepara un pacchetto di proposte legislative e di emendamento alla Costituzione che permettano alla polizia ed all’esercito di avere mano libera e di godere di totale immunità, cosa che di fatto già avviene grazie ai decreti emanati da Lasso, che più volte ricorse, invano, allo stato di emergenza.
Niente di nuovo quindi. Tenta poi la carta del plebiscito popolare a pochi mesi dalla nuova scadenza elettorale. Ai primi 11 quesiti referendari annunciati ne aggiunge poi altri, inserendo anche temi che solo in parte hanno a che fare con il tema della sicurezza. Tra questi la apertura dei casinò, o agevolazioni per gli investimenti diretti esteri. Provvedimenti che vengono definiti da un importante costituzionalista, già membro della Corte Costituzionale, Ramiro Avila Santamaria, anticostituzionali o infondati.
La parola ora sta alla Corte. Esce poi la notizia, clamorosa, della fuga dal carcere di Guayaquil, di uno dei capi della banda dei Choneros, alias “Fito”, presumibilmente avvenuta già a Natale, ed in un altro capo dei “Lobos” implicato a quanto pare nell’omicidio di Villavicencio. Un duro colpo alla credibilità del governo al quale Noboa risponde con la ennesima dichiarazione dello stato di emergenza, con conseguente coprifuoco dalle 23 alle 5 del mattino, la decisione di far coadiuvare la polizia dall’esercito in operazioni di ordine pubblico, la restrizione del diritto di riunione e dell’inviolabilità del domicilio.
La risposta dei narcos è immediata: nuove rivolte nelle carceri, attacchi ad alcune stazioni di polizia, e il “blitz”, i cui dettagli devono ancora essere del tutto chiariti, di un commando che irrompe in una trasmissione in diretta di una televisione di Guayaquil. Un colpo al cuore del suo elettorato principale di riferimento, Fatto sta che ad una manciata di ore dal blitz arriva bell’e pronto un nuovo decreto nel quale il Presidente – per la prima volta nella storia del paese – dichiara lo stato di conflitto armato interno, mettendo la partita in mano all’esercito, e riconoscendo alle 22 bande lo status di parti “belligeranti”.
La partita si sposta così da una questione di ordine pubblico a una di vera e propria guerra, disciplinata dal diritto internazionale bellico, la Convenzione di Ginevra per intendersi. All’annuncio del provvedimento il paese entra nel panico. Vengono sospese le classi che resteranno in virtuale per alcuni giorni, si ordina l’evacuazione degli edifici pubblici, si predispone l’invio di contingenti di soldati a presidiare gli obiettivi sensibili. Il Presidente si rinchiude nel palazzo di Carondelet con le alte cariche dello stato per decidere il da farsi. Dopo qualche ora si presentano di fronte alle telecamere i militari in alta uniforme che spiegano la situazione al paese e danno la linea. Un golpe? Ecco che parte il primo riflesso pavloviano. Ed invece no, il decreto 111 che dichiara lo stato di “conflitto armato interno” viene approvato a stragrande maggioranza dal Congresso, anche dai partiti di opposizione di sinistra che fin da subito avevano dato disponibilità all’unità nazionale.
Ovvia la preoccupazione di non apparire come coloro che alzano le mani di fronte al crimine organizzato, ghiotta occasione per i partiti avversari nelle prossime elezioni di metà 2025. Una guerra civile? Neanche, visto che non ci si trova di fronte a organizzazioni strutturate in forma paramilitare, né di fronte ad un conflitto armato su scala nazionale, ma sono ad operazioni di ordine pubblico “in mimetica” in territori ben definiti.
La dichiarazione di guerra è nei fatti un colpo mediatico ad effetto per creare le condizioni per un governo “di unità nazionale” e di “guerra”, nel quale si sta delineando una chiara distribuzione dei compiti. Da una parte i militari, che da ora in poi prendono il comando delle operazioni di ordine pubblico, con la polizia a loro servizio (cosa che crea non poche frizioni) e che così possono riaffermare il loro ruolo, e la loro credibilità di fronte al popolo. Va detto che la presenza dei militari nelle strade è – almeno nella capitale Quito – assai sporadica, l’effetto appare essere per lo più simbolico.
Altra cosa è nelle carceri dove i militari ora possono intervenire liberamente per reprimere le rivolte e liberare quel centinaio di ostaggi ancora in mano dei rivoltosi. O nelle retate o perquisizioni nei quartieri “caldi” delle città a forte presenza criminale. Tuttavia, nel simbolico si annida anche il rischio di una “securitizzazione” pervasiva dello spazio pubblico, con conseguente inibizione di ogni forma possibile di dissenso o conflitto sociale.
Noboa si è affrettato a dichiarare che anche coloro che non intervengono contro le bande, (per esteso si potrebbe interpretare anche chi si oppone alle sue politiche) potrebbero essere considerati “il nemico”. Eppoi, in quello spazio pubblico è evidente il rischio che le vere vittime della repressione finiscano per essere quelle classi marginali e marginalizzate, colpevoli solo di essere tali, o di avere la pelle scura, come quello di fenomeni come “i falsi positivi”, (vedasi la Colombia, dove i militari per dimostrare il successo delle loro operazioni, mostravano al pubblico cadaveri di povera gente in uniforme della guerriglia).
I militari si insediano così a presidio dello spazio pubblico di fatto determinando per default la direzione nella quale andrà il paese, mentre a quello privato ci pensa il presidente con nuovi decreti legge presentati invocando la necessità di reperire fondi per la guerra interna, dall’aumento dell’IVA al 15% la liberalizzazione del settore energetico, al politiche mirate ad attrarre capitali stranieri. Sullo sfondo due accordi di cooperazione nel settore militare e della sicurezza con gli Stati Uniti firmati mesi fa da Lasso ed ora entrati in vigore grazie al beneplacito della Corte Costituzionale e che prevedono la presenza seppur temporanea di militari sul territorio nazionale.
Hanno fretta a Washington, con lo spettro dell’isolazionismo dell’America First trumpiano che incombe. A breve dovrebbe poi entrare in vigore l’accordo di libero scambio con la Cina, per ora stoppato dal Congresso. E ciò che esiste e vive tra lo spazio pubblico e quello privato? Il “comune”? I movimenti? Le organizzazioni della società civile? Da lì partono le uniche manifestazioni di critica e dissenso.
La CONAIE dichiara solidarietà con le vittime del conflitto, esorta le comunità ad organizzare guardie indigene per la protezione dei loro territori (finora quasi per nulla toccati dalla violenza dei narcos) e intima al governo di non utilizzare il pretesto della guerra per imporre misure antipopolari. Nei giorni scorsi con le sue organizzazioni amazzoniche è scesa in piazza per protestare contro la costruzione di una delle due supercarceri modello Bukele nella provincia del Pastaza. Dall’altra le organizzazioni per i diritti umani che puntano il dito sull’inappropriatezza del ricorso allo strumento militare, ed alle possibili gravi ricadute sui diritti umani.
Vengono poi denunciati i rischi per i milioni di ecuadoriani ed ecuadoriane che lavorano nelle economie informali o con contratti a termine, e su come lo stato di eccezione può aumentare i casi di violenza intrafamiliare e di genere. Il resto è ancora in corso d’opera.
Il rischio di una sorta di stato di guerra permanente che caratterizzerà il paese ed il dibattito pubblico almeno fino alle prossime elezioni, e di autoritarismo strisciante, non certo a livello istituzionale, ma nello stato dei fatti, è dietro l’angolo.
Seppur i decreti di emergenza e di stato di conflitto armato interno abbiano una durata di due mesi, risulta assai improbabile che in quel lasso di tempo lo stato potrà dichiarare vittoria. Che quando si dichiara una guerra si deve aver chiaro anche quando la si vince. Cosa che al momento risulta assai vaga ed indefinita. Quando verranno espulsi tutti i criminali colombiani o venezuelani? Cosa assai difficile secondo la Costituzione che sancisce il diritto umano alla libera mobilità. Quando verranno messi tutti in galera? O “abbattuti” secondo il termine utilizzato dalla stampa mainstream?
Articolo pubblicato anche su DinamoPress
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