Su Corviale si è detto e scritto tutto o quasi e il suo opposto. Poco approfonditi restano i conflitti tra gli architetti ad inizio progetto, il mancato sostegno dall’amministrazione nei primi anni anni dopo l’edificazione – quando bisognava accompagnare una fragile comunità nella creazione di servizi, nell’organizzare le aree distribuite su ben sessanta ettari, nel promuovere le attività culturali, a cominciare dal teatro, e quelle solidali di condominio -, l’idea di un luogo che fosse anche un argine per lasciare libera la campagna, infine le conseguenze della diffusione dell’etichetta di soviet. Una conversazione di Pas Liguori, fotografo, con Maurizio Montani Fargna, collaboratore di Mario Fiorentino, architetto romano leader del progetto iniziale di Corviale, di cui il 5 giugno ricorre il centenario della nascita
di Pasquale Liguori*
Cento anni fa, il 5 giugno del 1918, nasceva Mario Fiorentino, illustre architetto romano leader del progetto che portò alla realizzazione del nuovo Corviale.
Occupandomi soprattutto dal punto di vista fotografico dei fenomeni di trasformazione urbana, è chiaro che Corviale rientri nel mio campo di interesse, costituendo un capitolo di notevole spessore. L’occasione di questo centenario fornisce lo spunto, anche commemorativo, per qualche riflessione sulla scorta di esperienze personali compiute.
L’argomento è diffusamente affrontato in letteratura umanistica e tecnica. Ma anche, con alterna qualità, da tutti i media, dal cinema, dalla fotografia, dalla musica, dalle numerose iniziative di turismo urbano fino ad arrivare alla più capillare curiosità dei singoli. Iniziative talvolta non del tutto immuni da una certa invasività a danno dell’intimità degli stessi abitanti del Corviale, luogo già vessato da un consistente stigma sociale. Ed è proprio questo uno dei maggiori ingredienti alla base della decisione di un mio graduale, meditato avvicinamento finalizzato alla conoscenza di Corviale e del contesto circostante, seguendo un percorso piuttosto autonomo di ricerche e approfondimenti.
Per anni, percorrendo la via Portuense, ho preferito immergermi nella magnetica attrazione che esercita quella maestosa compostezza, interrogandomi sulle basi politiche e sociali del progetto Corviale e cercando di relazionare l’indiscutibile effetto paesaggistico alla filosofia che ha ispirato gli autori di quell’edificio.
Ammiro le grandi opere di edilizia popolare realizzate in Europa nel periodo che va dagli anni Cinquanta agli Ottanta. A questo dedico il lavoro fotografico ImpAsse Roma-Berlino in mostra al Rathaus di Marzahn/Berlino per un mese a partire dal 31 agosto e, successivamente, a Roma nella prima parte del 2019.
A molti amici incontrati durante questo viaggio va la mia riconoscenza per l’aiuto e i consigli ricevuti, specie quelli miranti a eludere approcci facilmente sfocianti in racconti permeati di clichés del disagio e inflazionate retoriche su modelli abitativi osservati in superficie. Spero di aver assorbito le utili indicazioni e di interpretarle riuscendo a tradurle in una view urbana contemporanea e di opportunità.
Certamente, a Corviale e Marzahn, vale a dire le diversissime aree urbane delle due capitali considerate in “ImpAsse”, si osservano controverse parabole evolutive nel solco di ambizioni arenatesi nella degenerazione e, però, ancora in tempo per poter disincagliarsi approdando a nuovi scenari urbani rispettosi dell’ambiente e delle esigenze delle persone.
Su Corviale si è detto e scritto tutto e il suo opposto. Mi sono messo sulle tracce preziose di chi ha lavorato in prima persona, al fianco di Mario Fiorentino.
L’architetto Maurizio Montani Fargna [MMF], classe 1941, vive adesso in Toscana ed è stato tra i principali artefici del progetto Corviale. Con lui è sorta la possibilità di una serie di genuine chiacchierate che, seppur analitiche, risultano spesso intrise di ricordi emozionati ed emozionanti e che ho infine scelto di riportare qui in forma di conversazione.
Montani Fargna ha lavorato “gomito a gomito” con Fiorentino nella realizzazione di Corviale restando orgoglioso sostenitore del progetto. Non è stato semplice avviare la discussione (che segue qui di seguito e si apre con un suo intervento), che ho subito cercare di stimolare con la giusta causa della ricorrenza della nascita dell’architetto Fiorentino scomparso poi nel 1982.
[MMF] A che titolo dovrei parlare? Sono ad esempio al corrente del fatto che vi sia un progetto, una rimasticazione di Corviale composto di una piazza che rimanderebbe al monumento ai martiri delle Fosse Ardeatine. L’Italia è un Paese strano si fanno restauri su opere il cui autore è vivente e non informato. Alla fine, tutti mettono il cappello su una cosa che neanche li riguarda e io che sarei l’autore, perché Mario Fiorentino non c’è più, nemmeno sono stato interpellato: tra un po’ succede che dirò che Corviale non so cosa sia…
[PL] In altre parole, mi sta dicendo che avrebbe voluto cimentarsi ed esser coinvolto in nuovi sopralluoghi e vedute prospettiche tra Valle dei Casali e Tenuta dei Massimi, prendendo in mano matite e fogli?
Scherza? Per mia educazione, mai mi permetterei di interferire nel lavoro altrui o di comprometterlo. Ma almeno essere informato su questi sviluppi… Peraltro, in epoca successiva alla morte di Fiorentino, sono quello che vent’anni fa ha condotto gli interventi fondamentali di completamento: ho eseguito il progetto e diretto i lavori dei servizi e, come vede, sono una persona viva e vegeta. Sembra quasi che debba sentirmi come quel tipo che sbircia attraverso la fessura di una serratura. Sono desolato: la polemica è solo in questo!
Capisco bene. La prego però di parlarmi più in dettaglio del suo ruolo nel progetto.
Di Corviale parlano tutti. Le chiacchiere passano, le opere restano. È la ragione per cui sono a disposizione.
Della struttura mi ha sempre colpito la sua maestosa compostezza e affascinato il pensiero alla base del progetto di una simile architettura. È evidente che l’opera ambiziosa, con radici culturali così forti e definite, sia stata gestita male fino a un progressivo declino. Eppure, soprattutto come fotografo, avverto un nobile intento originario nella concezione di quelle forme, di quelle geometrie, di quei rapporti tra spazi e contesto.
Il mio ricordo è straordinariamente poetico. L’architettura per me è poesia, unita a una visione politica e sociale. Nell’interpretazione delle periferie urbane, la politica gioca un ruolo molto importante. E questo per due motivi essenziali. Il primo è la scelta del dove ubicare, come e perché. Il secondo, di cui pressoché nessuno parla, è che la politica debba considerare l’architettura a sfondo sociale come elemento prioritario di un programma politico. Ma, aggiungo, deve sostenerla intensamente per almeno i primi dieci anni successivi all’edificazione, preservando l’idea progettuale e favorendo il dialogo con gli abitanti che non hanno avuto voce in capitolo. In caso contrario, avviene che o l’opera degradi con palese mancanza di rispetto per gli abitanti stessi oppure, come nel caso de l’Unité d’Habitation a Marsiglia di Le Corbusier, che non sia più abitata dalle persone che hanno bisogno di una casa e diventi invece luogo di residenza di intellettuali, artisti, della borghesia chic.
L’edilizia sociale presuppone un potere politico continuativamente sensibile a questo argomento. Inutile a dirsi, questo è mancato a Corviale…
Come dicevo, all’epoca, Corviale nasceva come risposta poetica, nient’affatto polemica. Si fondava su una visione basata su due aspetti fondamentali: in primo luogo, dare dignità urbana a chi socialmente sfavorito. In secondo luogo, offrire una soluzione concreta a un problema che in quegli anni martoriava il suolo della Capitale e che con l’etichetta politica di “abusivismo per necessità” ha distrutto la bellissima campagna romana. L’abuso ha determinato una periferia che grida vendetta rispetto alla bellezza della città e alla stessa campagna descritta mirabilmente dai pittori fiamminghi che arrivavano a Roma e ci lasciavano le magnifiche immagini dell’Appia, delle rovine romane. Oggi, Roma è irriconoscibile.
https://comune-info.net/2014/07/il-suono-dei-tulipani/
È vero, ma preferirei tornare ai passi iniziali compiuti dal progetto. Vuole ricordare?
Vi fu il coinvolgimento di venti progettisti, nominati dalla pubblica amministrazione. Tra questi, cinque erano architetti molto più adulti di età e designati come coordinatori: Mario Fiorentino, Federico Gorio, Michele Valori, Giulio Sterbini, Piero Maria Lugli.
Quindi Fiorentino non era in solitudine. Ma veniva un po’ isolato…
I cinque non riuscivano a trovare un accordo nel dare configurazione progettuale al planivolumetrico realizzato dal Comune su quell’area di sessanta ettari. Si parlava di un intervento con un’edilizia composta come somma di più quartierini. Parlo di “quartierino” perché non avrebbe avuto valenza nel disegno di una città pensare di occupare sessanta ettari ripetendo piccoli progetti assemblati assieme.
Insomma, mi pare di capire che si partì subito in salita. Come fece ad affermarsi in un clima simile il progetto ambizioso che avrebbe portato al nuovo Corviale?
Va detto che le idee sostenute da Mario Fiorentino vennero profondamente contrastate: dire che alcuni remassero contro, è dir poco. Successivamente al dibattito, aperto a tutti i venti progettisti, Fiorentino scelse poi l’affiancamento di tre persone: il sottoscritto, l’architetto Romano De Simoni e l’ingegner Elio Piroddi. Scelta che garantiva un approccio multiculturale con Piroddi che, tra noi, era il più tiepido sul progetto. Ecco perché nella fase di elaborazione di tutto il progetto e di direzione lavori eravamo, in sostanza, Fiorentino, De Simoni e io stesso.
Prende dunque concretezza l’idea che determinava un’opera completamente industrializzata per abbreviare i tempi della realizzazione e per fare un esperimento di prefabbricazione pesante. Peraltro, il cantiere “a secco” costituiva una sperimentazione da affrontare nel campo dell’edilizia sociale dove i costi e i tempi di edificazione sono critici. Di fatto, è il tema strutturale e storico di sfondo che affronto in “ImpAsse” nel parallelo tra Corviale e l’area di Marzahn a Berlino Est eretta tra il 1976 e il 1989, anno della caduta del muro. Ci sono esempi di questo approccio “industriale” in altre parti di Europa che hanno avuto esito favorevole rispetto a Corviale?
Questa domanda è troppo complessa. Bisognerebbe intendersi bene sul tipo di esiti. Quello che le posso riferire in merito alla prefabbricazione pesante è che parliamo di un’esperienza molto diffusa in Russia dove però si sviluppavano qualità e storie sociali diverse, oltre a una politica diversa. Politica da molti criticata ma che forse è, a livello operativo e non qualitativo, sicuramente avanzata. Perché c’è un assetto politico forte, decisivo, perché per fare l’architettura sociale ci vuole una politica che sappia decidere. Democraticamente dibattere, ma poi decidere.
In sostanza, il problema del Corviale si concentra nell’assenza di una sponsorship politica.
Oggi vanno di moda le global archistar che eseguono cose su commissione, con un segno distintivo, rappresentando sostanzialmente un brand. Desidero precisarle, a questo punto, per sensibilità mia personale, che un architetto/artista deve detenere una visione poetica ed essere conscio del proprio ruolo politico e sociale. Il nostro interlocutore amministrativo principale nella fase progettuale è stato l’ingegner Pietrangeli Papini direttore dell’IACP ente committente. Amava questo progetto, ne capiva la novità e la potenzialità e anche, mi lasci dire, la delicatezza. È chiaro che quando lasciò il suo incarico, ci venne a mancare un importante sostegno.
Cominciarono quindi a montare le polemiche circa una visione diciamo meno razionalista dello sviluppo della città. In quel momento, emergeva l’idea che il modo migliore per dare risposta abitativa alle periferie era quella della casetta unifamiliare, con giardino, il piccolo intervento, in definitiva.
L’idea del Corviale cercava di accorpare le cubature per liberare il territorio e delegarlo quindi a risorsa verde: Roma, d’altro canto, è una città che ha la più grande quantità di aree verdi in rapporto all’abitato. Tuttavia, si cominciavano a insinuare punti di vista per cui Corviale detenesse un simbolico e ossessivo connotato politico. Ricordo che si cominciò a parlare di soviet, di termitaio. Il dibattito si spingeva oltre gli aspetti qualitativi e urbanistico/architettonici: c’era di mezzo una visione politica che faceva dell’intervento troppo massivo un elemento di dubbia socialità.
È chiaro che se viene a mancare il supporto a un progetto così complesso, così denso di abitanti e che, al tempo stesso, lascia molto spazio alla gestione organizzativa, il progetto stesso va incontro a serie difficoltà.
Non dimentichiamo che al Corviale furono assegnate le case quando non erano ancora state asfaltate le strade e ancora non erano state costruite le scuole, l’asilo nido. Anche gli spazi pubblici quelli per la vita di relazione sociale, che non si possono avere nelle villette, vennero occupati abusivamente senza alcun intervento delle autorità con la forza pubblica per permettere di completare il progetto così com’era stato concepito.
Deceduto Mario Fiorentino, lei ebbe insieme all’architetto De Simoni l’incarico di concludere il progetto esecutivo del mercato, del centro sociale, di tutto quello che era la piazza, dei servizi interni.
Dire completare il progetto è riduttivo: lo facemmo finalmente realizzare. Abbiamo dovuto restaurare il progetto pensato vent’anni prima perché nel frattempo alcune cose non erano state costruite, altre erano state occupate. Pensi che i garage nel piano interrato, collegati funzionalmente a ogni appartamento, non sono stati utilizzati per molti anni perché non veniva garantito l’ordine pubblico: accaddero anche casi di violenza a donne aggredite nel parcheggio.
Era previsto che mamme e papà potessero accompagnare i bambini all’asilo in totale modalità pedonale senza uso di autovetture. Come ha vissuto il declino del progetto?
Con dolore. Parlo prima di tutto del mio cuore di architetto, ma anche con la maturità nel pensare che ogni progetto ha bisogno di poter essere assorbito culturalmente e praticamente. Se un’opera è incompiuta com’è stata Corviale, occupata e privata dell’elemento fondante qualitativo che era l’integrazione tra servizi e residenza, è chiaro che un assembramento residenziale di tante migliaia di metri cubi senza servizi si trasformasse in un dormitorio. L’accorpamento dei volumi è conseguenza dell’integrazione dei servizi altrimenti non ha senso. Diventa un palazzone.
https://comune-info.net/2016/12/abitare-territori-metropolitani/
Trasformandosi quindi nell’opposto di quello che avrebbe dovuto. E lì si è sviluppata una propaganda politica direi facile con la presunta umanità della villetta rispetto al colosso abitativo specie se privo di servizi. Tra l’altro, le confesso di non avere smisurata simpatia per il termine “serpentone”, né per la retorica collegata alla metrica avulsa del “chilometro”.
Sappia che un chilometro nella pianta di Roma è la “manica lunga” del Quirinale e quindi Corviale non è un edificio grande è un pezzo urbano di massima integrazione tra residenza e servizi. Nel riferimento urbanistico è un pezzo di città, non è una casa grande. Tuttavia, il valore aggiunto proviene dal riferimento della sua immagine poetica: cioè pensare che su quel crinale, attorniato dalla zona Portuense ancora agricola, veniva posto un segno molto visibile che venisse interpretato culturalmente ma anche politicamente come margine oltre il quale bisognava lasciare libera la campagna. Corviale è una risposta poetica. Rappresenta il bordo di una città che si era sviluppata e stava continuando a svilupparsi male. Tant’è vero che un architetto molto acuto, Manfredo Tafuri, pubblicò un articolo che ottenne anche la copertina di Domus in cui lo definì una “diga insicura”. Un’immagine che lascia il giudizio sospeso: la diga è un bordo rispetto al mare, insicura perché non v’era certezza che quel bordo sarebbe stato individuato dalla politica come un’efficace protezione a tutela del contesto circostante.
Secondo lei un recupero, una valorizzazione in chiave odierna di quell’idea iniziale, è ancora possibile? Quali approcci, quali politiche sarebbero efficaci nel recuperare quell’idea?
Ognuno di noi, specie se fai il mestiere di architetto, deve vivere e costruire sui dubbi le proprie idee che continuano a evolversi. Un’idea in proposito è però immediata: bisogna avere rispetto per coloro che abitano un luogo da così tanti anni, ormai anche circa quarant’anni. Quando si parla di demolire un’opera di edilizia pubblica bisogna riferirsi a persone insediatesi in un pezzo di città e che hanno in quella città vissuto dando luogo a famiglie e storie. Andrebbe indetto un referendum reale, non politicizzato, dove alle persone che lì vivono gli si dice: “Guarda, dove tu abiti ti cancello la memoria della tua vita”. Questa è una materia di tipo sociale prima ancora che urbanistica e architettonica. Credo che le persone che osservano Corviale come oggetto che possa o meno piacere, alla stregua di come si possa osservare una fotografia di un quartiere e non il quartiere stesso, possano arrivare a pensare di rimuoverlo senza preoccuparsi delle radici. Ma su quel progetto, si sono innervate profonde radici. Ecco, io partirei da questo. Demolire che significa? Demolire è un assurdo.
Nel rispetto dell’edificio e delle radici umane che lo animano, quali sono gli interventi di qualità e appropriati che dovrebbe sviluppare l’amministrazione?
La prima iniziativa è il colloquio diretto con gli abitanti. Naturalmente, vi è bisogno di una voce amministrativa autorevole attenta a potenziare i servizi, organizzare le aree distribuite su ben sessanta ettari, sostenere il teatro, promuovere le attività culturali, spingere in avanti quelle di solidarietà, di condominio. Aiutare, in fin dei conti, il formarsi di una socialità organizzata che faccia capire anche la bellezza di stare insieme: uno lascia il territorio della campagna e va nella città per avere più relazioni con gli altri. La città sta fallendo su questo aspetto. E invece andrebbe incoraggiato il coagularsi di forme organizzate socialmente e democraticamente. Lei pensi quanto sarebbe attuale oggi. Quell’edificio si difenderebbe da solo perché all’interno avrebbe uno spirito sicuro, sereno. Quindi, quella diga può diventare sicura se gli abitanti si organizzano.
Tornando a Mario Fiorentino, si è diffuso qualcosa di leggendario anche intorno alla sua morte. Mi ha raccontato di aver visto l’architetto Fiorentino fino all’ultimo giorno. Può dir qualcosa in merito all’ipotetico suicidio del professore indotto dal disastro Corviale?
Questo è un altro dolore perché si è parlato a sproposito di questa morte per ragioni più politiche che artistiche. Mario Fiorentino, prima di tutto era un gran signore, una persona colta, un amante dell’arte moderna in generale, frequentava gli artisti. Apparteneva a una generazione di architetti provenienti dall’accademia dell’arte dove la formazione, la scuola erano molto diverse da quelle odierne. È arrivato all’università nella parte terminale della sua vita divenendo professore, ma prima di tutto è stato un professionista, allievo di Mario Ridolfi, con tutta l’esperienza dell’edilizia economica e popolare romana. Ho avuto la fortuna di frequentarlo a lungo, con le matite in mano, guardandoci e ragionando per poi sviluppare. Voglio specificare che dopo Corviale, mi volle anche nel progetto riguardante il piano regolatore di Addis Abeba.
Sono stato con lui fino alle 20 della sera, prima che morisse. Era la vigilia di Natale ed eravamo a Palazzo Doria dove aveva sede l’ex studio Asse per il progetto dell’asse attrezzato previsto dal piano regolatore di Roma. Stavamo definendo proprio gli ultimi esecutivi di progetto e si parlava molto del futuro. Ci salutammo e tornammo presso le rispettive famiglie. È stato un evento naturale.
Ricordo i suoi stati d’ansia, il fatto che fosse soggetto ad aritmie. Non era certo un atleta: nei sopralluoghi dopo lunghe camminate sull’altopiano di Addis Abeba, sviluppava un gran fiatone dovuto anche all’altitudine.
Mario Fiorentino era l’esempio di uomo che ama la vita. Aveva un animo assolutamente giovanile, stava bene non soltanto socialmente. Insomma, un uomo di successo, perché avrebbe dovuto rinunciare alla vita? Per Corviale? Totalmente da escludere.
Le ha mai espresso la sua delusione per la piega che prese Corviale?
Più che delusione, sgomento per un Paese che non riusciva a gestire nulla. L’Italia è questa, lo vede anche adesso.
Lei ha deciso di stabilire una certa distanza, anche fisica, da Roma. Perché?
Non mi sono “ritirato”, frequento tante persone e sviluppo le mie idee, tuttavia sembra che oggi le persone siano apprezzate solo se “fanno sistema”. “Fare sistema” non capisco cosa voglia dire, forse creare un gruppo d’interesse all’interno del quale operare? Ecco, non sono nato per subire e preferisco “cambiar canale”, vado da un’altra parte perché per me non è possibile vivere in quella maniera. A me piace esprimere il mio parere, disinteressato. In tal senso, il pensiero che abbiamo condiviso con Fiorentino, il nostro sogno, aveva tutta la carica dell’utopia e della speranza. Perché l’utopia è sempre accompagnata dalla speranza, altrimenti, se così non fosse, quello sì, sarebbe un suicidio.
* Fotografo per passione, ha aderito alla campagna Facciamo Comune insieme.
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