Ai popoli indigeni dell’America latina è chiaro da tempo che lo sviluppo sta significando la loro scomparsa. Per questo organizzano in molti modi diversi la propria resistenza. Le macerie del mondo occidentale, che tanti fingono di non vedere, ci dicono che abbiamo molto da imparare da quella resistenza, che dovremmo prima di tutto fare esercizio di ascolto, che la domanda giusta non è dove sta andando l’America latina ma dove stiamo andando noi. Questo testo è stato preparato per l’incontro “Dove sta andando il subcontinente latinoamericano?”, promosso durante la Festa “La Rossa” a Perignano di Lari (Pisa) il 15 agosto 2024
Premessa
Confesso un disagio di fronte al lemma di questo dibattito: l’uomo occidentale, pilota del mondo, che si interroga preoccupato su dove stanno andando gli altri mondi. Uno degli attuali pensatori indigeni più interessanti, Ailton Krenak, del popolo Krenak vivente nell’Amazzonia brasiliana, in un suo piccolo libro, pubblicato anche in Italia, dal titolo significativo Idee per rimandare la fine del mondo1, scrive:
Gli indigeni stanno resistendo da cinquecento anni, quello che mi preoccupa sono i bianchi, come faranno a sfuggire a tutto questo? (il collasso in corso)….
E poco pi oltre aggiunge:
L’umanità si sta distaccando in modo così assoluto da questo organismo che è la terra. Gli unici nuclei che ancora ritengono di doversi aggrappare a questa terra sono quelli che sono stati semidimenticati ai margini del pianeta, sulle rive dei fiumi, ai margini degli oceani, in Africa, in Asia o in America Latina. Sono caiçaras, indios, quilombolas, aborigeni – una sub-umanità….
Vengo al tema. Mi è stato chiesto di parlare del mondo indigeno latino-americano che chiamerò amerindio perché di latino, nel pensiero indigeno meno contaminato, c’è poco e anzi, dopo secoli di silenzio sta rimpossessandosi del proprio pensiero originario, vista la crisi intellettuale e morale che imperversa nel mondo “occidentale” e “occidentalizzato”, cioè quello industrializzato (potrei dire capitalista ma preferisco riferirmi a questo aspetto). Un discorso complesso che mi appresto a fare con queste note, che vi prego di considerare come tali, basate su una esperienza diretta di questo mondo.
Essa risale agli anni Ottanta del secolo scorso e in particolare al periodo 1996-2009, in cui ho seguito da vicino le vicende di alcune realtà amerindie, in particolare quella dell’insurrezione zapatista in Messico ma anche quella delle lotte sociali dei movimenti indigeni andini e, in misura minore, di quelli amazzonici brasiliani, presenziando anche a molti loro vertici subcontinentali (cumbres). Userò il plurale “mondi indigeni” (vedi nota 1 in calce) perché, nonostante lo sterminio plurisecolare, le etnie tuttora esistenti sono alcune centinaia, con proprie lingue e proprie usanze. Nel solo Messico sono circa cinquanta, anche se alcune contano ormai poche decine di persone, altre, viceversa, sono in espansione numerica. E sono una quarantina in Perù e via dicendo. Il grado di preservazione della cultura originaria da parte di ciascuna di esse varia a seconda della situazione specifica e delle vicende storiche. Le statistiche ufficiali (Nazioni Unite) parlano di 450 milioni di indigeni presenti oggi, cioè un 6 per cento circa della popolazione mondiale. Per l’America latina si parla di 40 milioni di persone, cioè di un 10 per cento della popolazione totale del subcontinente. Altre statistiche parlano, per questo paese, di un 15-20 per cento. Ogni anno le Nazioni Unite celebrano la Giornata mondiale dei popoli indigeni, dedicata quest’anno ai “popoli indigeni in isolamento volontario e in primo contatto”. Si tratta di circa duecento gruppi che vivono in isolamento in base alla raccolta e alla caccia in foreste remote ricche di risorse naturali (Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, India, Indonesia, Papúa Nueva Guinea, Perú e Venezuela). Quella dell’isolamento è una scelta che corrisponde a una strategia di preservazione della propria autonomia, della propria lingua e del proprio modo di vita.
All’inizio ho stentato a comprendere il vero significato delle esperienze che stavo facendo poiché le leggevo con gli strumenti culturali propri dell’”uomo bianco”, tecnicamente e culturalmente più “progredito” rispetto a loro, in una traiettoria che anch’essi avrebbero seguito per diventare ”civilizzati”. Ero animato da buone intenzioni “umanitarie” su cui col tempo mi sarei ricreduto mettendomi in posizione di ascolto, come suggerito da Carlos Montemayor. Questo grande pensatore latino-americano (questo sì latino e americano) estimatore dei popoli indigeni, che ho avuto la fortuna di conoscere e frequentare prima della sua prematura scomparsa2, nel suo libro Los pueblos indios de México hoy, scrisse (vado a memoria): “I popoli indigeni sono stati silenziati per secoli. Oggi parlano. Ascoltiamoli”.
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La trappola dello sviluppo
La grande trappola, in cui a partire dagli anni Cinquanta caddero in buona parte gli stessi mondi indigeni – nonché la chiesa cattolica progressista di Paolo VI che pubblicò un’enciclica nota, la Populorum Progressio – santificando questa “credenza occidentale” (Rist)3, è stata quella dello sviluppo. Oggi stiamo facendo i conti con le promesse mancate di questa “credenza”. Ai popoli indigeni è ormai apparso chiaro che sviluppo sta significando la loro scomparsa, per cui stanno organizzando la propria resistenza.
Riporto in calce, per chi vuole riflettere ulteriormente su questa trappola, un estratto del discorso con cui Harry Truman, celebrando nel 1949 la sua rielezione a presidente degli Stati Uniti, lanciò questa “credenza” di successo che sussiste tutt’oggi nell’inconscio di quasi tutti noi (nota 2).
In realtà il discorso sul risveglio delle culture indigene è più complesso, ma in una chiacchierata di venti minuti occorre semplificare il racconto a alcuni fatti principali. Esso è cominciato già da un secolo circa e ha avuto una accelerazione in occasione dei festeggiamenti organizzati per il 500mo anniversario di quella che viene chiamata “scoperta” dell’America da parte di Cristobal Colon. La ricerca storica in realtà oggi ci dice che già nei tempi antichi si navigava dall’Europa a queste terre e si tornava, come dimostrano certe pitture murali romane emerse a Pompei nelle quali sono raffigurate tavole imbandite in cui facevano bella mostra frutta tropicali quali gli ananas mentre in rappresentazioni indigene precedenti al 1492 si vedono uomini bianchi barbuti (gli indigeni amerindi non hanno barba) con elmo e corazza.4
La sinistra e l’America Latina
Dovendo stare nei tempi faccio un salto necessario però per noi presenti alla “festa rossa”. L’America latina ha avuto un posto importante nell’immaginario e nella presenza degli ultimi cinquant’anni della “sinistra” europea (sinistra in senso lato), quella “latina” in particolare (Spagna, Italia, Francia, Portogallo), ma anche belga e tedesca, a causa della speranza che la sua base, meno partitizzata, aveva di veder realizzate là quelle conquiste sociali che non si era riusciti a realizzare qui da noi. Oggi questo interesse è assai meno vivo, salvo alcune eccezioni, a un lato per le delusioni avute e dall’altro per le mutazioni genetiche delle sinistre occidentali. L’attuale pensiero di sinistra è culturalmente troppo debole per andare al di là di un ragionamento di semplice umanitarismo egualitarista oggi dominante nelle menti. Tutti uguali, però uguali a noi.
Ailton nello stesso testo dice:
Non siamo assolutamente uguali, ed è bellissimo sapere che ognuno di noi che è qui è diverso dall’altro, come le costellazioni. Il fatto che possiamo condividere questo spazio, che stiamo viaggiando insieme non significa che siamo identici. Significa invece che siamo in grado di attrarci l’un l’altro attraverso le nostre differenze, che dovrebbero guidare il nostro copione di vita. Avere la diversità, non quella di un’umanità con lo stesso protocollo. Perché questo fino ad ora è stato solo un modo per omogeneizzare e toglierci la gioia di essere vivi.
In un libro che sto curando e che sarà pubblicando a giorni (Speranza forza sociale) riporto una conversazione fra il pensatore messicano Gustavo Esteva – in realtà autore morale del libro la cui morte due anni or sono ha aperto un vuoto incolmabile nei miei riferimenti socioculturali sull’America latina – e il lituano Teodor Shanin, in cui questo individua l’errore di base delle sinistre: aver perseguito lo sviluppo anziché la giustizia sociale, tema sul quale occorrerebbe fare una riflessione che invece manca.
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Per rispondere allora alla domanda “dove sta andando l’America Latina e in particolare la sua parte amerindia”, ricorro a quanto mi ha insegnato un altro amico latinoamericano, il vescovo messicano Samuel Ruiz (1924-2011), grande benemerito del mondo indigeno maya del Chiapas e mediatore importante nel conflitto fra i governi messicani e gli “zapatisti” (meriti che non ne faranno mai un santo e neppure un beato della chiesa). Mi riferisco a due suoi pensieri che riassumo così: “Se la vostra analisi della situazione sociale e politica del mondo è vecchia di due anni, gettatela. Non serve più!” (questo vent’anni fa, oggi credo che accorcerebbe questa durata a pochi mesi). “Nelle vostre analisi non fermatevi sui singoli eventi ma vagliateli all’interno dei processi di fondo in cui essi accadono…”. Guardando i processi e al futuro lontano del mondo indigeno, lungi dal vedere la sua fine, egli preconizzava una sua lente e lunga riemersione e affermazione nella realtà del mondo latinoamericano. Una riflessione questa da leggere anche alla luce dell’avvitamento turbolento su se stessa della civiltà occidentale alle prese con una fallimentare globalizzazione e il suo sogno del cyber.
Opportuno ma ad oggi ignorato il suggerimento dato una quindicina di anni or sono da un pensatore bianco neozelandese, Scott Eastham, nel suo saggio Visioni del mondo in collisione. La sfida dell’ingegneria genetica:
Forse, prima di lasciare alla scienza moderna l’ultima parola sull’evoluzione dell’homo sapiens, abbiamo bisogno di ascoltare altre culture e di sperimentare alcuni degli altri modi di essere umani….
Cito anche il filosofo spagnolo Jorge Riechmann che nel titolo di un suo libro pone la domanda: Lo smartphone ha sconfitto il movimento ecologista? e nel testo, tra l’altro, scrive:
L’antico sciamano asiatico o la tessitrice egiziana (di quarantamila anni or sono) appartengono alla mia tribù: ma un futuro ‘uomo bionico’, dotato di capacità extra-umane, probabilmente non apparterrà ad essa. Vogliamo davvero rompere questa unità della ‘grande famiglia’ umana mantenuta nel corso di oltre 100.000 anni?.
Un dialogo fra due padroni oggi del mondo
Mi avvio con un altro salto a terminare, raccontando un dialogo intercorso l’anno passato nel corso di un incontro ad alto livello politico a Dubai, incentrato sul progetto di un governo mondiale del pianeta Terra previsto per il 2071 (ne sapevate nulla?), fra Klaus Schwab, il patron (ma recente dimissionario) dell’annuale incontro dei ricchi del pianeta e loro commessi politici a Davos, e Elon Musk, il recente perdente del primo posto nella classifica degli uomini più ricchi del mondo, patron della multinazionale Neuronlink (“connessione dei neuroni”) che, nello sconcerto silenzioso delle autorità mondiali pare stia impiantando dei chip nei cervelli di alcuni volontari per dare loro intellegenze sovraumane grazie all’Intelligenza Artificiale. Alla perorazione di Schwab per l’unità e l’uniformazione del mondo di fronte ai tanti rischi storici che abbiamo di fronte, Musk ha replicato:
Penso che dobbiamo essere un po’ cauti nell’essere troppo una sola civiltà, perché se siamo troppo una singola civiltà, allora l’intera casa potrebbe crollare. […] Sembra un po’ strano, ma vogliamo avere una certa dose di diversità di civiltà, in modo che se qualcosa va storto in qualche parte della civiltà, l’intera cosa non collassi e l’umanità continui ad andare avanti…
E il dubbio è forte nella mente dei grandi tecnofilantropi che danno il passo al mondo (Zuckerman, Musk, Besos e così via) se si stanno costruendo in Nuova Zelanda e isole del Borneo costosissimi bunker giardino in cemento armato con tanto di orto con coltivazioni di sopravvivenza.
Se Ailton e i suoi amici indigeni hanno qualche buona idea per rinviare la fine del mondo forse è saggio ascoltarli e porli seriamente la domanda: dove stiamo andando noi?
Note
1 Il titolo esatto è: Idee per rimandare la fine del mondo. L’identità esemplare di un piccolo popolo per il futuro delle società umane. In realtà Ailton non scrive libri ma di tanto in tanto accetta di essere intervistato o di tenere conferenze (anche fuori dal paese) e dalle registrazioni di queste vengono tratti dei piccoli libri.
2 (1947/2010).
3 G. Rist, Lo sviluppo. Storia di una credenza occidentale, Bollati e Boringhieri, 1997.
4 Gli amanti dei grandi misteri storici conoscono certamente la mappa del mondo dell’ammiraglio della marina ottomana Piri Reis disegnata nel 1513 on Oceano Atlantico e coste adiacenti dettagliatissime.
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