La crisi che stiamo vivendo precipita sulla nostra vita di ogni giorno, annichilendo le nostre socialità. Da dove nasce la resistenza? “Abbiamo la realtà dei nostri corpi, delle nostre relazioni, dei nostri modi di coabitare il mondo – scrive Maura Benegiamo – Se per Foucault il potere si esprime là dove incontra resistenza e per Deleuze resistere è liberare la vita dalle prigioni dell’uomo, Donna Haraway ci invita piuttosto a pensare le forme complesse della solidarietà tra umani e non umani in cui organizzare la società”
“Teorico è ciò che ancora si limita soltanto alla mia testa, pratico ciò che appare nelle teste di molti” (Feuerbachi)
Una situazione disperata che ci riempie di speranza. Parafrasando ciò che Marx scriveva in una sua lettera del 1843 indirizzata al filosofo tedesco Arnold Rugeii, mi sembra di poter così riassumere una parte delle riflessioni che stanno emergendo negli ultimi tempi e che mettono al centro dell’attuale pandemia le reti di solidarietà e cura che stanno proliferando, presentandole quale veicolo prefigurativo di una società al di là del capitalismo e al contempo come denuncia dell’impossibilità del buen vivir nel capitalismoiii
Queste analisi prendono piede dall’urgenza di pensare assieme il mondo di domani e alla luce della preoccupazione che la crisi che stiamo vivendo ci stia transitando verso la concreta attuazione di distopie finora solo immaginate. L’esaurirsi delle libertà personali, in nome della difesa di una vita resa oramai invivibile, sembra infatti profilarsi quale unico piano d’azione su cui è pensabile la gestione non solo dell’attuale pandemia, ma della società in generale nel momento in cui l’inevitabilità della crisi sembra divenire senso comune.
Come la storia più recente ha mostrato, non è sufficiente proclamare la fine della crisi affinché le misure emergenziali vengano ritirate; esse hanno piuttosto tendenza a rimanere. Assieme a queste, e a loro sostegno, sono le strutture discorsive e le pratiche di assoggettamento che si intimizzano nei corpi, producendoci in quanto soggetti. Seguendo e ampliando il ragionamento che Naomi Kleiniv fa sulla relazione tra shock e capitalismo, potremmo dire che è nelle crisi che il capitalismo ha trovato le migliori condizioni per affermare nuove e più funzionali relazioni storiche tra sapere e potere. Quello che il degradarsi improvviso del nostro vivere quotidiano ci aiuta a mettere a fuoco è quindi un terreno che Foucault ha spesso lasciato sullo sfondo della sua analisi: ovvero i processi – intimamente conflittuali – attraverso cui nascono le episteme (o i campi epistemologici) e le forme materiali del potere su cui esse si innestano.
Definire lo shock, capire la biopolitica
Qual è la particolare relazione tra potere e sapere che vediamo all’opera nell’attuale pandemia?
Luigi Pellizzoni in un recente intervento pubblicato sul sito Le parole e le cosev evidenzia come questa relazione si definisca oggi su di un piano che più che essere epistemico è propriamente ontologico. Quello che è in gioco sono le modalità attraverso cui è sempre più il capitalismo che, in alleanza strategica con il sapere tecno-scientifico, definisce cos’è la natura o, in senso più lato, il vivente. Pellizzoni richiama ad esempio i conflitti sulla regolazione delle biotecnologie. Sulla base dell’idea che le tecniche di editing genetico non facciano altro che imitare (se non più precisamente e meglio) i processi di selezione che avvengono in natura, l’industria agroalimentare sostiene che non sia corretto denominare come organismi geneticamente modificati le piante così prodotte. Non c’è differenza, si afferma, tra ciò che l’uomo fa e ciò che la natura fa. Poco importa se la ratio della natura nel selezionare i pomodori non è per forza la ratio del mercato, o meglio, non lo è mai. Un’operazione simile è quella che possiamo osservare nel contesto dell’attuale pandemia, dove il rischio e la sua incidenza stanno subendo un processo di naturalizzazione che assume come data la totale contingenza e sperimentalità dell’esistenza. Poco importa se il sorgere di questo virus e il suo diffondersi possono essere ricondotti all’azione invasiva del capitalismo sugli ecosistemi e alla distruzione delle forme di sicurezza sociale. Definendo la vita come intrinsecamente imprevedibile e rischiosa (del resto anche i dinosauri si sarebbero estinti per un improvviso meteorite), il capitalismo sostiene che non vi sia alcuna differenza tra una crisi naturale e una crisi provocata dal nostro sistema sociale. Non è nemmeno possibile definire realmente quale dei due fattori sia effettivamente la causa.
È allora su questo sfondo che diviene più opportuno collocare le trasformazioni in corso, che tendono a essere colte nel segno di una intensificazione biopolitica, ovvero di quel governo dei corpi e delle popolazioni secondo i principi del mercato. Per capire in che senso la tesi biopolitica possa ancora farci da guida mi sembra utile rintracciarne la genesi nella nozione di biopotere, concetto quest’ultimo che precede e apre le riflessioni foucoltiane sulla governamentalitàvi. Sintetizzando molto, il biopotere è così definito da Foucault perché sussume la vita nel suo campo di azione, non nell’arbitrarietà della condanna a morte che caratterizzava l’espressione della potenza sovrana, ma con obiettivo di custodia e potenziamento. Si rivolge ovvero a quelle scienze – statistiche, demografiche e economiche – e alle tecniche – di riproduzione, prevenzione, risanamento – che si interessano al prolungamento e al miglioramento delle condizioni di vita. È su questo lato positivo e produttivo del potere che verrà a inserirsi la governamentalità quale ratio di governo in grado di porre l’elemento del potere nel suo rapporto costituivo con la libertà dei soggetti. Essa si differenzia dalla ratio giuridica poiché non costringe ma, facendo presa sui corpi individuali e sull’insieme della popolazione, regola e normalizza. Rispetto a ciò la biopolitica marca un ulteriore passaggio, essa è la funzionalizzazione della conoscenza sulla vita secondo la logica dell’economia politica, in accordo al rinnovato principio che ciò che funziona per la crescita funziona per la vita, e viceversa. Tuttavia è solo con la svolta ontologica di cui sopra che la natura stessa viene a ridefinirsi quale spazio di intervento su cui si giustifica il potere.
Melinda Coopervii ha mostrato bene come sia stato proprio l’incontro tra finanziarizzazione e crisi ecologica ad avere creato il sostrato favorevole a una ridefinizione delle relazioni tra capitalismo, rischio e vita mentre il settore biotecnologico si orientava verso forme sempre più speculative di sperimentazione sul vivente al fine di provare l’assoluta mobilità dei limiti del sistema. In questo contesto la sfida è quella dell’isomorfismo totale tra ratio del capitalismo e ratio della natura che si mescolano al punto che il capitalismo diviene la natura stessa e la natura è intesa come intrinsecamente capitalistica.
Da dove nasce la resistenza?
Ciò che il virus ci aiuta a mettere in luce è quindi la forma particolare assunta dall’ecologia politica – ovvero la modalità in cui l’organizzazione capitalista della natura informa le relazioni tra le persone, con gli altri esseri viventi e con noi stessi – nel contesto del capitalismo attuale. Da un lato, con Foucault, affinché il rischio possa essere gestito ognuno deve stare al suo posto, portando all’estremo quel processo di individualizzazione che Foucault metteva a fuoco nella sua descrizione della società disciplinare e nel modello di gestione delle epidemie di peste. A ciascuno il suo corpo, a ciascuno la sua malattia e la sua morteviii. Dall’altro, oltre Foucault, vi è l’indifferenza pretesa tra capitalismo e mondo, la naturalizzazione dell’uno nell’altro che ci chiede di accettare come dato di fatto il rischio e la sua gestione autoritaria, quale forma di difesa della società. Poiché il primo – il rischio – è naturale e la seconda – la società – attraversata dalle leggi di natura.
Nella prefazione all’edizione italiana de La società dello spettacoloix Guy Debord scriveva che l’Italia del rifiuto del lavoro e delle lotte operaie degli anni Settanta riassumeva le contraddizioni del mondo intero. Essa era inoltre il magistrale laboratorio in cui, dietro la spettacolarizzazione del terrorismo, si preparava l’effettiva transizione verso le forme che le democrazie occidentali avrebbero assunto nelle società del consumo postfordista. In quel contesto lo spettacolo si presentava come “l’affermazione onnipresente della scelta già fatta nella produzione”; non la rappresentazione dell’ordine materiale esistente, quanto la sua oggettivazione nelle forme delle relazioni sociali nel momento in cui la merce diveniva una forza autonoma in grado di permeare il discorso che la società – e gli individui – tengono su sé stessi.
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Oggi stiamo forse assistendo a qualcosa di molto simile, seppur dentro coordinate totalmente differenti. Dietro alla messa in scena dell’ansia, in un momento in cui, mai così all’unisono, il potere ci ripete con le stesse parole lo stesso discorso sui medesimi temi, l’Italia è di nuovo un laboratorio politico europeo. Così come nella transizione individuata da Debord, il capitalismo sposta ancora una volta sul terreno della vita quotidiana la lotta che si definisce sul terreno della produzione, sottomettendo la vita stessa alla precarietà della produzione del valore. Lo fa oggi promuovendo l’annichilimento delle nostre socialità siamo condannati a osservare la primavera da una finestra e a uscire di casa nell’isolamento del distanziamento sociale.
Il dibattito sull’ecologia politica ha ampiamente mostrato come il capitalismo non sia rivolto solo all’espropriazione dell’attività produttiva, ma come, e soprattutto, a essere espropriata sia l’intera autonomia della riproduzione che diviene il sostrato per l’esercizio del potere. Come scriveva il filosofo situazionista francese: ignorare la questione politica posta oggi dalla miseria della nostra vita quotidiana significa occultare la profondità delle rivendicazioni relative alla ricchezza possibile di questa vitax. Di contro abbiamo la realtà dei nostri corpi, delle nostre relazioni, dei nostri modi di coabitare il mondo. Se per Foucault il potere si esprime là dove incontra resistenza e per Deleuze resistere è liberare la vita dalle prigioni dell’uomo, Donna Harawayxi ci invita piuttosto a pensare le forme complesse della solidarietà tra umani e non umani in cui organizzare la società di domani. Scrive:
“Dinanzi all’eccesso di sofferenza inarrestabile e storicamente specifico che deriva dall’instaurazione di legami tra specie compagne, non mi interessano la riconciliazione o la reintegrazione, ma molto di più le possibilità – più modeste – di un recupero parziale che ci permetta di andare avanti assieme”.
Questi temi saranno approfonditi dall’autrice, ricercatrice presso il Collège d’Études Mondialesc di Parigi, nel corso del primo seminario del ciclo Pandemia: sintomi di una crisi ecologica globale (fb), in programma mercoledì 8 aprile alle ore 18 (promosso dal Gruppo di studio di ecologia politica).
Note
i K. Marx, A. Ruge, Annali franco-tedeschi (1-2), Massari Editore, 2001.
ii Ibidem
iii Salvo Torre, Ci stringeremo le mani e serreremo i pugni, 24-03-2020, https://globalproject.info/it/in_movimento/ci-stringeremo-le-mani-e-serreremo-i-pugni/22660
iv Naomi Klein, Shock economy. L’ascesa del capitalismo dei disastri, Bur-Rizzoli, 2008.
v Luigi Pellizzoni, La sfida del Covid-19 alle scienze umane. Alcune piste di riflessione, Le parole e le cose, http://www.leparoleelecose.it/?p=38050
vi Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, 2009.
vii Melinda Cooper, La vita come plusvalore. Biotecnologie e capitale al tempo del neoliberismo, Ombre Corte, 2013 6
viii Michel Foucault, Sorvegliare e punire, trad. it. Einaudi, Torino, 1993, p. 216.
ix Guy Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, 2002.
x Guy Debord, Prospettive di modificazioni coscienti della vita quotidiana, in Situazionismo: Materiali per un’economia politica dell’immaginario, a cura di P. Stanziale, Massari, Viterbo, 2004, p. 87.
xi Donna J. Haraway, Chthulucene, Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero Editions, 2019, p. 24
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