Non è certo una novità che molti esponenti politici e intellettuali che si dicono progressisti o di sinistra siano reticenti nella condanna delle repressioni compiute dalla propria parte politica. Accade oggi, in América Latina, con le strumentali differenze che si invocano tra gli omicidi di Berta Cáceres o Marielle Franco e quello di Samir Flores, ucciso per la sua lotta contro i megaprogetti nel Messico di López Obrador. Il caso più scandoloso resta però quello del Nicaragua di Daniel Ortega e Rosario Murillo. Un governo “anti-imperialista” aggrappato a un potere personale e dispotico, che non esita a praticare la tortura contro gli oppositori e ha rinchiuso nelle carceri più persone di quante ce ne fossero ai tempi della dittatura di Somoza, prima della rivoluzione sandinista tradita da Ortega. La bussola che è stata persa, rileva Raúl Zibechi, è quella dell’etica, che non si recupera facendo discorsi ma re-imparando ad ascoltare e accettando le decisioni collettive di popoli che, in cinque secoli, mai hanno potuto essere incasellate dentro ambiti istituzionali. Il resto è vuoto sproloquio
Gli omicidi della brasiliana Marielle Franco (marzo 2018) e dell’honduregna Berta Cáceres (marzo 2016) sono stati crimini politici. Ne convengono movimenti, partiti di sinistra e intellettuali progressisti. Erano entrambe donne de abajo (del basso) e del colore della terra, femministe che resistevano al patriarcato e al capitalismo. Con ragione piena quei crimini sono stati attribuiti all’alleanza tra imprese multinazionali, governi e milizie paramilitari, che in ogni paese assume forme diverse che però favoriscono sempre l’uno per cento più potente della popolazione.
La vita della contadino náhuatl Samir Flores aveva molte similitudini con quelle di Berta e Marielle: era nato in basso e si era opposto al capitalismo neoliberista che nella sua terra (Amilcingo, Stato messicano di Morelos) si concretizza in grandi opere di infrastruttura, così come in Honduras, dove Berta aveva fatto resistenza a un progetto idroelettrico per lo “sviluppo” del paese. Tre persone che hanno vissuto e sono morte a testa alta, difendendo la dignità dei loro popoli diventati un ostacolo per l’accumulazione di capitale.
Essendo i contesti dei crimini tanto simili, bisogna capire perché accademici e professionisti, che si dicono progressisti, stabiliscono differenze e chiedono che non venga politicizzato l’assassinio di Samir, che considerano invece una questione di polizia. Si tratta di tre crimini di Stato, come quelli di Ayotzinapa, per i quali abbiamo sempre indicato la responsabilità dei governi di turno.
La sola cosa che giustificherebbe un trattamento differente è che in Brasile e in Honduras ci sono governi di destra, accusati di complicità con i crimini. In Messico, invece, il discorso progressista dell’attuale governo (non le sue azioni) lo scagionerebbe da ogni responsabilità. A mio modo di vedere, siamo di fronte a un argomento meschino e povero. È evidente che i discorsi e le parole non possono modificare i fatti e, soprattutto, non ha senso applicare parametri differenti a situazioni simili. Se Ayotzinapa porta la responsabilità del governo di Peña Nieto, se Marielle e Berta quella dei rispettivi governi, non c’è modo di eludere la responsabilità per l’assassinio di Samir.
Percorrendo quel cammino si arriva a uno sproposito da cui sarebbe difficile far ritorno, al limite dell’aberrazione. La cosa più sconcertante delle sinistre del continente si chiama, per ora, Nicaragua. Daniel Ortega non perde l’occasione di menzionare il suo presunto “antimperialismo”, mentre il suo governo, secondo un recente rapporto di Amnesty International, continua a instaurare “un clima di terrore, dove ogni tentativo di esercitare la libertà d’espressione e il diritto a riunirsi pacificamente è punito con la repressione”.
La comandante sandinista Mónica Baltodano denuncia le penose condizioni carcerarie dei detenuti, ammalati a causa del consumo di acque putrescenti e le condizioni sanitarie deplorevoli. Secondo Baltodano, non ci sono mai state tante persone imprigionate in Nicaragua. Sono detenute in condizioni peggiori di quelle che subivano i prigionieri di Somoza, come lei stessa può testimoniare per esperienza diretta.
In Nicaragua si torturano i detenuti con i metodi bestiali delle dittature. Buona parte della sinistra, tuttavia, continua a sostenere il regime neo-somozista di Ortega, compresi alcuni intellettuali. In questo periodo incerto di decadenza dell’Impero e delle sinistre, le parole non valgono niente o, parafrasando il poeta, certe voci valgono meno, “molto meno dell’urina dei cani”.
Che le parole mascherino realtà che si pretende occultare, perché risulta scomodo accettarle, ormai è diventato la norma.
Il progressismo è, in primo luogo, una costruzione del discorso. Solo del discorso, perché non produce cambiamenti strutturali. La chiave di ogni vera trasformazione non è altro che il potere popolare, le decisioni che prendono quelli che stanno in basso, non le politiche di quelli che stanno in alto, per quanto “rivoluzionarie” esse si dicano. Questo punto è tanto decisivo, che potrebbe perfino definirsi una rivoluzione non per la presa del potere, ma per l’organizzazione di massa di quelli in basso, nel modo in cui essi la decidano.
In secondo luogo, il centro del conflitto del progressismo è diretto contro i popoli e non contro il capitale e le destre, come invece pretendono di farci credere gli intellettuali progressisti. Questo punto è nodale ed è quello che permette di stabilire differenze tra i progressismi (accondiscendenti con i rapporti di forza ereditati e limitati nel gestire l’esistente) e altri processi che, bene o male, pretendono di superare almeno lo stato attuale delle cose.
I nemici che attacca il progressismo sono il popolo mapuche (al quale è stata applicata la legge antiterrorismo), i movimenti del giugno del 2013 in Brasile, e i popoli originari, in generale e ora quelli del Messico in particolare, per citare i più evidenti.
La bussola che è stata persa è l’etica. Che non si recupera con discorsi ma ascoltando i popoli, accettando le loro decisioni collettive che, mai in cinque secoli, hanno potuto essere incasellate dentro ambiti istituzionali. Il resto è vuoto sproloquio che pretende solo di proteggere quelli in alto e di annichilire i popoli.
Fonte: La Jornada
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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