Ben al di là delle semplificazioni non certo brillanti e limitate ai titoli di coda della permanenza nell’Unione europea, l’uscita del Regno unito non ci invita solo a riflettere sulla dimensione storica e culturale del peso britannico in Europa. Deve favorire una discussione approfondita sui diritti di cittadinanza e sul modello di tutela delle libertà che proietta l’avventura europea sui suoi vicini. E per vicini, non possiamo intendere solo gli Scozzesi, che già si preparano a riguadagnare la casa comune europea, ma anche diversi altri popoli che vivono alle porte dell’Europa e sono pesantemente oppressi. Generalmente, se pensiamo alle conseguenze di questo improvviso cambio di regime di cittadinanza che interessa milioni di persone, ci riferiamo solo a degli accordi presi per i cittadini dell’UE che continuano a vivere nel Regno Unito, o per i cittadini britannici che vivono nell’UE. È una lettura parziale: in gioco ci sono il significato, il valore e l’inviolabilità della cittadinanza europea in quanto tale, chi può decidere di toglierla ad altri e a quali condizioni?
E così, dopo 47 anni, i britannici – o meglio detto gli inglesi e i gallesi, visto che scozzesi e nordirlandesi votarono “Remain” nel referendum del 2016 – non sono più membri dell’Unione europea. Ne sentirete la mancanza? A giudicare dal moderato livello di simpatia che molti di noi provano per gli inglesi, direi certamente di no. Anch’io, a dire il vero, ho alcuni amici inglesi, ma ben pochi rispetto al numero di amici che mi sono fatto in Europa. Mi viene in mente quel passaggio del Vangelo di Matteo (10: 11-14) che dice: “In qualunque città o villaggio entriate, domandate chi là sia degno e rimanetevi finché non sarete partiti. Entrando nella casa, rivolgetele il saluto. Se quella casa ne è degna, la vostra pace scenda su di essa; ma se non ne è degna, la vostra pace ritorni a voi. Se qualcuno poi non vi accoglie e non dà ascolto alle vostre parole, uscite da quella casa o da quella città e scuotete la polvere dei vostri piedi.[1]”. Se non vi accolgono e non ricevono la vostra parola, lasciateli al vostro destino.
Qualche cittadino britannico, leggendo quei versetti, potrebbe pensare esattamente il contrario: “Gli Europei non hanno mai rispettato la volontà britannica, anzi hanno beneficiato dei nostri fondi senza che il Regno Unito ne traesse vantaggio, quindi lasciamo gli Europei al loro destino, non abbiamo bisogno di loro”. I sostenitori della Brexit hanno proclamato questo per anni. È però questa una tesi tutt’altro che provata. Basta che andiate su un motore di ricerca e troverete numerosi studi al riguardo.
Rispetto allo sviluppo economico, ad esempio, molti economisti sostengono che ciò che conta di più non sono i fondi trasferiti tra Bruxelles e Londra, e neppure i posti di lavoro creati o distrutti. La questione centrale è invece come l’ingresso in Europa abbia cambiato la forma dell’economia britannica – la sua competitività e l’apertura ad altri mercati – e il suo impatto su migliaia di aziende. Secondo l’università di Stanford, il mercato unico europeo ha aumentato la concorrenza, costringendo le imprese britanniche a modernizzarsi investendo nell’innovazione”[2]. La Gran Bretagna raggiunse la Comunità Economica Europea nel 1973 come la nazione malata d’Europa. Alla fine degli anni ’60, Francia, Germania Ovest e Italia – i tre membri fondatori più vicini al Regno Unito per dimensioni – producevano più di quanto non facesse quest’ultimo, e il divario cresceva di anno in anno.
Tra il 1958, quando fu istituita la CEE, e l’ingresso della Gran Bretagna nel 1973, il prodotto interno lordo pro capite aumentò del 95 % in questi tre paesi rispetto al 50 % della Gran Bretagna. Dopo l’ingresso nella CEE, la Gran Bretagna iniziò lentamente a recuperare. Il pil pro capite crebbe più rapidamente di quello degli altri tre paesi nei 40 anni successivi. Nel 2013, per la prima volta dal 1965, la Gran Bretagna divenne più prospera della media delle altre tre grandi economie europee. Come se la sarebbe cavata la Gran Bretagna se non avesse aderito alla CEE? Secondo l’università di Brunel, la migliore approssimazione alla performance economica della Gran Bretagna fuori dall’Europa sarebbe una combinazione di Nuova Zelanda e Argentina, nazioni che sono certamente più indietro rispetto a Stati Uniti e Europa continentale[3].
Sentiremo la mancanza degli inglesi? Battute a parte, è difficile, dopo un matrimonio di mezzo secolo, stimare le conseguenze sugli scambi commerciali, prevedere se ce ne avvantaggeremo. E ancora più difficile sarà abituarci all’idea che che non siano parte di noi e che quella parentesi europea sia stata un’eccezione. Possiamo dimenticare la storia e la cultura? Verona e la vicenda d’amore tra Giulietta e Romeo non rappresenterebbero quello che sappiamo se Shakespeare non avesse scritto The Most Excellent and Lamentable Tragedy of Romeo and Juliet.
Lo spirito libertario che troviamo in Giuseppe Verdi e nel Romanticismo italiano sarebbe rimasto poca cosa se il poeta e avventuriero Lord Byron non avesse fatto dell’Italia la sua seconda dimora, incontrando letterati, amando donne e frequentando la Carboneria.
Anche la storia del té ci lega. Se le prime notizie sul té arrivarono in Europa grazie agli arabi, se fu a Venezia che per la prima volta in Occidente venne menzionato il tè in un trattato (“Delle Navigationi et Viaggi 1550-1559” del magistrato veneziano Giovanni Battista Ramusio)[4], se furono portoghesi ed olandesi a commerciarlo, fu l’introduzione di questa bevanda esotica nella corte londinese a farne la principale bevanda calda di piacere moderna accanto al caffè.
E furono i filosofi inglesi Thomas Hobbes e John Locke a fondare – da presupposti diversi – le basi del principio di auto-governo, e della necessità di un governo sovrano, legittimato dai suoi cittadini, che operi a difesa dei loro interessi e dei loro diritti. Né dobbiamo dimenticare che non é vero che il Regno unito sia stato sempre indifferente alla costruzione europea. La ricostruzione dell’Europa dopo la seconda guerra mondiale ha origine principalmente in Inghilterra. È l’Inghilterra che ebbe l’iniziativa del Trattato di Dunkerque (1947), del Trattato di Bruxelles (1948), e del Trattato di Washington, che crea la NATO nel 1949. La Gran Bretagna fu uno dei costruttori dell’Europa del dopoguerra, dando un contributo decisivo alla stabilità e alla sicurezza, pre-condizioni per l’integrazione economica. Senza la NATO, in effetti, le comunità europee non sarebbero esistite[5].
La questione dell’uscita di uno Stato intero come il Regno unito dall’Unione europea deve aprire una riflessione sui diritti di cittadinanza e sul modello di tutela delle libertà che proietta l’avventura europea sui nostri vicini. E per vicini, non possiamo intendere solo gli Scozzesi, che già si preparano a riguadagnare la casa comune europea, ma anche di altri popoli alle porte dell’Europa e ancora sotto il giogo dell’oppressione.
Rispetto ai diritti di cittadinanza, vi è un aspetto che merita di essere sottolineato, e che è stato fatto proprio dagli amici di European Alternatives, una rete europea di attivisti per la cittadinanza e la democrazia. Se pensiamo alle conseguenze di questo improvviso cambio di regime di cittadinanza che interessa milioni di persone, ci riferiamo solo a degli accordi presi per i cittadini dell’UE che continuano a vivere nel Regno Unito, o per i cittadini britannici che vivono nell’UE. In realtà, questa lettura è parziale. In gioco vi è piuttosto il significato, il valore e l’inviolabilità della cittadinanza europea in quanto tale, di chi può decidere di toglierla ad altri e a quali condizioni.
Scrive Niccolò Milanese, direttore di European Alternatives: “La rimozione della cittadinanza europea sarà indubbiamente contestata dai tribunali, anche se è improbabile che i tribunali da soli riescano a rovesciarla senza un certo grado di mobilitazione politica organizzata. Dovremo affrontare questioni difficili su come la cittadinanza europea possa funzionare se fosse dissociata dall’appartenenza a uno Stato: come possono essere bilanciati diritti e doveri di cittadinanza? Come si acquisisce la cittadinanza europea? L’Unione Europea non si sottrae a domande difficili o a pensieri ambiziosi quando si tratta di negoziati commerciali, perché dovrebbe farlo quando si tratta di diritti dei cittadini?”[6].
E dovremmo anche porre la questione dell’aspirazione di molti popoli ad essere europei perché l’Europa è percepita come la sola istituzione transnazionale che tutela le libertà e offre giustizia a chi si sente privato dei propri diritti fondamentali. Durante la guerra civile siriana, i rifugiati che si potevano permettere di andare lontano fuggivano dalla repressione diretti in Europa, non certo verso il Golfo Persico o la Federazione russa. L’Europa ha rappresentato per loro quel modello che aspiravano costruire sul loro territorio, e che un regime sanguinario ha loro impedito.
Mentre vi scrivo, Damasco e Mosca bombardano senza pietà villaggi e città della provincia di Idlib per riconquistarla, a prezzo di mettere in fuga milioni di persone[7]. La difesa di quei territori dai bombardamenti pare affidata alla sola capacità di reazione militare della Turchia; è di queste ultime ore la notizia di movimenti di mezzi militari turchi alla frontiera – conseguenza del fatto che l’Europa ha lasciato il popolo siriano alla mercé di regimi criminali e assassini. L’Europa, se vuole essere coerente con la propria storia, se vuole difendere la propria democrazia, non può lasciare i popoli che vivono alle proprie frontiere esterne in balia di dittature e regimi autoritari che vogliono indebolire l’Europa stessa per quello che rappresenta.
L’Europa deve intervenire quando la violenza oppressiva annienta nazioni intere, e deve offrire le condizioni perché un modello di cittadinanza transnazionale si estenda oltre la dimensione stuatuale e oltre le proprie frontiere esterne, contribuendo a tutelare gli spazi di libertà a cui aspirano i popoli del Vicinato. La distanza tra Cipro e la costa siriana è di poco più di 200 km, e come gli inglesi hanno influenzato la storia europea, così imperi e regni del continente europeo hanno contribuito nei secoli a fare della Siria quel paese multiculturale e multietnico che conoscevamo prima della guerra civile.
La gravità dei crimini perpetrati sul popolo siriano, di cui centinaia di migliaia di rifugiati già si trovano su territorio europeo, è tale per cui non possiamo pensare di riguadagnare alla cittadinanza europea le nazioni anglosassoni senza pensare di difendere il diritto a vivere in uno Stato di diritto dei nostri Vicini ad Oriente. È una questione difficile, ma va sollevata. L’Europa, per sopravvivere, deve tirar fuori le unghie non solo quando si tratta di difendere le proprie imprese, ma anche quando la barbarie dell’autoritarismo si scatena alle proprie frontiere.
Tunisi, 2 febbraio 2020.
[1] Bibbia CEI, 2008.
[2] Chris Giles, “What has the EU done for the UK?“, Financial Times, 31 marzo 2017.
[3] Idem.
[4] “Il tè e il Rinascimento italiano: La Storia del Tè in Italia”, sito Il mondo del Té, 20 maggio 2016.
[5] Propositi dell’Istituto portoghese delle relazioni internazionali, raccolti in L. Paulo Ferreira, “O cinismo de Sir Humphrey não explica o Brexit, mas tem piada”, Diário de Notícias, 31 gennaio 2020.
[6] N. Milanese, “More than words on a passport”, euroalter.com, 31 gennaio 2020.
[7] “UN chief ‘deeply concerned’ by military escalation in northwest Syria”, UN News, 1 febbraio 2020.
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