Il suo disarmante sorriso lo regalò a chi sa ancora sorridere, le sue molte lacrime a chi sa piangere ancora. È la vita stessa che difende la memoria di chi ha scelto di consacrare l’intera esistenza alla lotta per poter soffrire ed essere felice, da uguale, con e per gli altri. Diciassette anni dopo la sua morte, mentre il mondo si unisce, suo malgrado, travolto da un virus che non conosce confini, l’istigazione alla rivolta di Dino Frisullo, la stessa per cui nel 1998 fu rinchiuso nel carcere speciale di Diyarbakir, è più viva che mai. Malgrado le apparenze. Certo, lo stato di salute dei movimenti cui Dino decise di consacrare ogni sua più piccola energia, vista dal piccolo e logoro angolo del mondo in cui riposa il suo corpo, non è affatto esaltante. In primo luogo, naturalmente, l’antirazzismo, che insieme a pochissimi altri contribuì a far germogliare in Italia, come racconta qui, molto da vicino, Annamaria Rivera. E poi la pace, la solidarietà internazionale, le libertà di pensiero critico, di parola, di movimento e di azione contro le disuguaglianze e le oppressioni di ogni genere e classe. Eppure – come Dino ha scritto nella sua poesia testamento (è in coda all’articolo), destinando ogni sua fibra a nutrire “un albero grande in piena nuda terra” perché “il mondo con me respiri ancora”, – quel respiro profondo alimenta la speranza tenace di milioni di persone. Dai centri di salute autogestiti del Rojava alle moltitudini che sfidano il gelo del filo spinato europeo sulle rotte balcaniche e tra i flutti del Mediterraneo, è ogni giorno che il sogno di Dino rivive e si afferma: un mondo di gente ostinata, indomabile, che resiste perfino alle torture nei lager libici ma respira ancora e strenuamente valica i confini della proprietà della terra
Il 18 dicembre scorso l’Associazione SenzaConfine, fondata nel 1989 da Dino Frisullo, insieme con l’egualmente rimpianto Eugenio Melandri, ex-missionario saveriano e a suo tempo europarlamentare per Democrazia Proletaria, ha voluto dedicare uno dei suoi seminari di formazione per il Servizio Civile, al ruolo di Dino rispetto al movimento antirazzista italiano. Ne riporto la mia relazione introduttiva, integrata e ampliata.
Per essere quanto più sintetica possibile, mi soffermerò solo su alcuni tratti della personalità politica di Dino e su alcuni passaggi importanti della storia del movimento antirazzista in Italia, in particolare sulla Rete Antirazzista nazionale.
Molto si è scritto della figura politica di Dino, del suo impegno militante senza limiti e freni, totale e assoluto, generoso quasi fino all’autodistruzione: una “folle staffetta mozzafiato”, così Dino parlava di sé nella sua poesia-testamento. Poco, invece, si è detto delle qualità personali che ingentilivano quell’impegno, sottraendolo alla durezza e al settarismo: la mitezza e la tolleranza, ma anche il profondo amore “per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia e per ogni roccia, pianta, finestra, stella, che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino”, com’egli scriveva nella medesima poesia; ma anche − potremmo aggiungere − per le albe e i tramonti, e per ogni cucciolo, umano e non umano, in cui egli s’imbattesse.
Conviene aggiungere che a rendere la sua figura politica alquanto peculiare v’era, fra l’altro, l’attitudine di Dino a non dissipare, anzi a coltivare il patrimonio di cultura e conoscenza che buoni studi e una famiglia colta gli avevano lasciato in eredità; e a esercitare la scrittura in tutte le sue forme, con un’ammirevole capacità di passare, con la medesima padronanza, dal registro del volantino a quello della poesia, dal racconto letterario all’articolo politico.
Uno dei tanti, grandi meriti di Dino fu l’aver colto perfettamente che il senso della “grande storia” può essere colto attraverso le “piccole storie” (solo in apparenza tali) di dominazione, oppressione, discriminazione, umiliazione di una popolazione, di una minoranza, di un gruppo di migranti o rifugiati/e, ma anche nell’infelicità e nei drammi di ciascuno/a dei suoi membri, di ogni migrante, di ogni oppresso/a, di ogni umiliato/a: la vicenda “minore” (si fa per dire) di un profugo o di una profuga, mort* annegat* o soffocat* nella stiva di una nave, può dirci del mondo attuale più di un freddo saggio di geopolitica. Conferire senso e valore politico generale a queste “storie minori”, solo in apparenza tali, equivale, insomma, a cogliere il significato più profondo del presente, dei processi di globalizzazione e di sfruttamento, del neocolonialismo e del razzismo.
Insomma, a caratterizzare Dino era anche, forse soprattutto, la capacità d’immedesimarsi nell’altro/a assumendo lo sguardo della persona palestinese, curda, migrante, profuga, rom…
Così il suo impegno politico assoluto si è sempre intrecciato con la pietas ed è per questo che egli è stato tanto spietato con te stesso, fino alla dissipazione.
Per Dino l’impegno militante era inseparabile dalla sfera esistenziale, la razionalità si sposava con il sentimento e così il linguaggio poetico spesso prendeva il posto del prosaico linguaggio della politica: tante volte, di fronte a eventi drammatici (una strage di profughi, un sopruso poliziesco, un crimine razzista), in luogo del comunicato o del volantino che ci aspettavamo ci accadeva di ricevere da Dino una poesia o un racconto.
Io ho avuto la fortuna di conoscere Dino fin dagli anni ’70, quando entrambi vivevamo a Bari, entrambi impegnati nella Nuova Sinistra, sia pure in gruppi diversi: lui in Avanguardia operaia, poi divenuta Democrazia proletaria. E a Bari egli fu anche tra i fondatori dell’associazione Italia-Palestina.
Così io potei constatare da vicino fino a qual punto il suo impegno politico (che era anche solidarietà attiva) fosse tutt’uno con la sua sfera esistenziale e con l’intransigenza etica. Ricordo quando, ancora a Bari, egli fece di tutto per farsi licenziare dalla Biblioteca Nazionale − un posto di lavoro ambitissimo − per il fatto che esso sottraeva troppo tempo al suo impegno politico.
Ma, per soffermarci sul tema centrale, conviene anzitutto ricordare che in Italia un movimento antirazzista in senso proprio si delinea dopo l’assassinio, a Villa Literno, in provincia di Caserta, del bracciante sudafricano Jerry Essan Masslo, ucciso il 20 agosto 1989: in realtà un profugo che, pur fuggito dal Sudafrica dell’apartheid, per la legislazione dell’epoca non aveva diritto all’asilo. Il suo omicidio suscitò grande emozione e indignazione, sicché il 7 ottobre successivo ebbe luogo a Roma una grande manifestazione nazionale antirazzista, cui parteciparono almeno 200mila persone. Il che portò alla riforma della legislazione sull’asilo, fino allora riservato ai cittadini dei Paesi dell’Est.
Il 1989 fu anche l’anno della nascita dell’Associazione SenzaConfine, grazie all’impegno dello stesso Dino e del già citato Eugenio Melandri. D’allora in poi l’impegno antirazzista di Dino fu senza limiti. E SenzaConfine si rinnovò profondamente allorché, nel 1992, entrò in contatto con l’esperienza dell’ex-Pantanella, la fabbrica che fu occupata e autogestita per un anno da migliaia di persone immigrate, fino a duemilacinquecento, sembra.
E fu lui il primo a denunciare e a documentare rigorosamente la vicenda del naufragio di Portopalo, accaduto la notte di Natale del 1996 e per molto tempo denegato, in cui persero la vita ben 283 migranti. Fu lo stesso Dino, insieme a molt* di noi, a svelare e additare le gravi responsabilità italiane nell’affondamento della nave Katër i Radës, proveniente dall’Albania, il cui speronamento, il 28 marzo del 1997, da parte di una corvetta della Marina Militare italiana, provocò 108 vittime.
Inoltre, fu anche grazie a Dino se riuscimmo a creare la Rete Antirazzista nazionale, che, per quanto di breve durata (1995-1998), resterà l’unica esperienza, in Italia, di coordinamento fra un gran numero di associazioni di dimensione regionale, provinciale, cittadina, in svariate parti d’Italia.
Ne eravamo portavoce Dino, io e Udo Enwereuzor (che sarebbe stato poi sostituito da Andrea Morniroli). Inizialmente alla Rete aderirono perfino grandi organizzazioni quali la Cgil e l’Arci, le quali, prevedibilmente, se ne allontanarono allorché il “governo amico” (il Prodi-uno) si apprestava a varare la famigerata legge, detta Turco-Napolitano (la n. 40 del 6 marzo 1998) che, tra l’altro, con i CPTA (nominati, con un assurdo eufemismo, Centri di permanenza temporanea e assistenza), istituiva, per la prima volta in Italia, la detenzione amministrativa per persone immigrate “non regolari”: quale strumentoordinario, non convalidato dall’autorità giudiziaria, dunque, in aperta violazione della Costituzione.
Sin dalla loro apertura i CPT avrebbero ucciso i loro “ospiti”. A partire dalla notte di Natale del 1999, ne morirono sette in tre giorni, tutti cittadini tunisini: uno, Mohamed Ben Said nel CPT di Ponte Galeria, dove non avrebbe dovuto essere internato; gli altri arsi vivi nel corso di un incendio nel CPT “Serraino Vulpitta”, a Trapani.
Già due anni prima, nel 1997, la Rete antirazzista, prevedendo che la Turco-Napolitano non sarebbe stata quella meraviglia di cui si favoleggiava, elaborò tre proposte di legge d’iniziativa popolare, il cui contenuto ancor oggi appare assai avanzato. Ne elenco sinteticamente i punti essenziali: il trasferimento ai Comuni delle competenze in materia di soggiorno; il riconoscimento del diritto di voto a tutti/e i/le cittadini/e stranieri/e residenti in Italia da almeno cinque anni; la riforma del regime giuridico relativo alla cittadinanza italiana.
Quest’ultima era così concepita: “È cittadino italiano per nascita chi è nato nel territorio italiano, anche se figlio di genitori ignoti, apolidi o stranieri, senza distinzione tra comunitari ed extracomunitari”; “Può acquisire la cittadinanza italiana l’apolide o lo straniero, comunitario o extracomunitario, che risieda ininterrottamente da 5 anni nel territorio italiano”; “Chi ottiene la cittadinanza italiana può conservare quella d’origine'”.
Inutile dirlo: anche grazie alla defezione degli amici/che del “governo amico” (Arci e Cgil, ma anche Rifondazione comunista fu alquanto tiepida) non riuscimmo a raccogliere le firme necessarie; e dunque a impedire il varo di una legge che avrebbe aperto la strada alle aberrazioni della Bossi-Fini.
Dino, intanto, fra i molti impegni politici, aveva sposato anche la causa della liberazione del popolo curdo. A tal punto che quando, tra il 1996 e il 1997, cominciarono ad arrivare sulle coste del Sud d’Italia barconi pieni di profughi curdi, due di essi riportavano sulle fiancate il suo cognome, sia pure scritto in modo impreciso.
Sicché, da membro e fondatore di Azad e di SenzaConfine, nel 1998 fu arrestato in Turchia allorché si apprestava a festeggiare con i curdi la festa nazionale del Newroz: cosa che era loro fermamente proibita.
Nelle pagine dedicate al proprio coinvolgimento nelle vicende curde, Dino parla di se stesso in terza persona, usando un tono distaccato, uno stile neutro e oggettivo: “Dino Frisullo è rinchiuso nel carcere speciale di Diyarbakir. Dopo quattro giorni d’isolamento, l’italiano ottiene d’essere trasferito nell’unica grande cella dei detenuti ‘comuni’, comunque tutti kurdi. Ma nonostante due settimane di sciopero della fame non gli sarà consentito di entrare nelle celle che da vent’anni seppelliscono vivi i detenuti politici”.
Incredibilmente (o indegnamente, sarebbe più giusto dire), nel 1998, giusto mentre Dino era recluso nel carcere speciale di Diyarbakir, con l’imputazione di “istigazione alla rivolta per motivi linguistici, religiosi o etnici”, alcun* della Rete Antirazzista pensarono bene di convocarne un’assemblea nazionale: stranamente a Lecco, nel profondo Nord leghista. E lì l’assemblea decise a maggioranza lo scioglimento dell’unico coordinamento antirazzista ampio e unitario che vi sia mai stato in Italia. Il quale aveva praticato un antirazzismo colto, radicale e militante, che riuscì a unificare il massimo di ciò che poteva essere unito, che anticipò di molti anni temi che solo oggi qualcuno scopre come fossero novità assoluta: i migranti quali soggetti esemplari del nostro tempo e la cittadinanza transnazionale, solo per fare un paio di esempi.
Nonostante questo, Dino (con non pochi/e di noi della defunta Rete Antirazzista), tornato in Italia, avrebbe ripreso, con la pervicacia e la generosità di sempre, la sua militanza antirazzista. Il 25 aprile 2003 − poco prima della sua morte, che sarebbe sopraggiunta il 5 giugno del 2003 − da un letto d’ospedale scriveva un documento contro i CPT, soffermandosi in particolare sull’ignobile vicenda del Regina Pacis, diretto da don Cesare Lodeserto, lui e altri indagati dalla magistratura pugliese per malversazioni e lesioni. Tra gli altri orrori Dino ricorda
quando apprendemmo con orrore che nell’agosto 2001 dodici kurdi erano stati riconsegnati dal Regina Pacis, via Malpensa, ai loro torturatori turchi. Nella primavera successiva riuscimmo a fermare il rimpatrio di altri cento kurdi, ma non di sessanta srilankesi respinti nell’inferno della guerra civile. Ma quant’altre vite sono passate dai centri di Lecce, Foggia, Bari e Brindisi per essere aggregate in un charter o su un traghetto e rispedite indietro, in violazione di leggi e convenzioni e spesso nel totale disprezzo del diritto alla vita?
Ricordo che, nel corso del tempo, almeno fino al 2005, Lodeserto è stato condannato, perfino arrestato, per violenza privata e lesioni aggravate, sequestro di persona e abuso dei mezzi di correzione nei confronti di persone immigrate, recluse in CPT pugliesi.
Oggi, di fronte allo stillicidio quotidiano di esodi che hanno come epilogo la morte in mare di centinaia di profughi/e o il forzato ritorno alle tragedie e alle persecuzioni da cui hanno tentato la fuga, ci sorprendiamo a pensare: certo, il frenetico attivismo di Dino non riuscirebbe, da solo, ad aver ragione della nostra debolezza politica e della rozza e feroce arroganza degli imprenditori politici del razzismo.
Eppure quanto ci mancano e quanto ci sarebbero preziosi, proprio in questo momento, i suoi dieci comunicati al giorno e i suoi tanti articoli che arrivavano in ogni redazione e in ogni angolo d’Italia, la sua inflessibile e irritante caparbietà cui nessuno riusciva a sfuggire, il suo ostinato lavoro da vecchia talpa che scova, porta alla luce e denuncia ingiustizie e crimini contro i dannati della terra, la sua capacità di opporre dati, cifre, fatti alle pataccate degli specialisti della xenofobia. Insomma, ciò che può dire chi ha frequentato Dino e con lui ha vissuto fertili stagioni di lotta è che la sua assenza brilla, definitiva e spietata, come un terribile sole senza tramonto, per parafrasare una poesia di Jorge Luis Borges.
“Se morissi adesso o fra due giorni o un anno, ecco il mio testamento, il testamento di un comunista.
Avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso.
Lascio tutto il mio disprezzo a chi mi ha usato.
Lascio tutto il mio odio a chi mi ha dato un mondo senza gioia, da attraversare a denti e pugni stretti.
Lascio la nostalgia per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia ed ogni roccia, pianta, finestra, stella, che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino
Lascio fiumi di dolcezza alle donne che ho amato.
Lascio fiumi di parole dette e scritte spesso con rabbia, raramente con saggezza, in malafede mai, un mare di parole che già evapora al vento rovente del tempo.
Lascio a chi vorrà raccoglierlo, il testimone del mio entusiasmo, nella folle staffetta mozzafiato -volgendomi indietro dopo vent’anni non so più se ho corso da solo.
Lascio il mio sorriso a chi sa ancora sorridere
E le mie lacrime a chi sa piangere ancora.
Non è poco. In cambio, voglio essere sepolto senza cippi e lapidi fra le radici di un albero grande in piena nuda terra rossa e grassa perchè il mondo con me respiri ancora e si nutra con me di ogni mia fibra.
Con me (non vi sembri retorica) solo una bandiera rossa
E la nave del Ritorno intagliata con le unghie nella pietra di un prigioniero assetato di vita nel deserto del Neghev”.
Maria Paola Patuelli dice
Mai ricordo è stato più intenso, più convincente. Che perdita, non avere conosciuto Dino. Aveva l’energia di eroi di tempi passati. Eroi omerici, la prima generazione delle comunità cristiane, naturalmente comuniste, vangelo preso alla lettera. I valdesi senza macchia e
senza paura, alcuni rivoluzionai a vita, fra Settecento e Ottocento. Anche nel Novecento, chi ha avuto la fortuna di morire giovane, come il Che. Se lo avessi conosciuto, avrei cercato di essere una delle donne da lui amate.
Mario Adessi dice
Grazie Dino per averti conosciuto e aver lottato al fianco tuo contro la militarizzazione dellaMurgia. Io cristiano alla ricerca del vero Comunismo ho conosciuto un Santo Comunista un Francesco a piedi nudi povero e poeta mi vivi dentro quando mi accascio sotto il peso deglianni e penso ai nostri olivi che crescono secoli sena tentennare ciao dino ci rivedremmo
Adel Jabbar dice
Grazie Dino per averti incontrato e avere conosciuto il tuo generoso impegno e il tuo immenso desiderio di un altro mondo possibile!
Pilar Saravia dice
Ringrazio la vita che mi ha fatto incontrarti e fare un pezzo di strada per i diritti e la regolarizzazione dei migranti a Roma.
Pina Vitiello dice
Le grandi idee nutrite da un grande cuore sono semi fecondi che germogliano anche quando e dove non ci aspetteremmo. I semi gettati da Dino nutriti dal suo amore e da quello di tanti compagni e compagne camminano per il mondo portati da tanti cuori e tante mani e gambe. Anche io sono cresciuta così, sulla stessa strada che continuo a percorrere con amore. Grazie per questo splendido ricordo di un grande compagno imprescindibile che porto nel cuore e nella lotta.
Leonardo De Franceschi dice
Grazie infinite Annamaria, per questo ricordo sentito, e quindi caldo, ma come di consueto lucido e circostanziato, di Dino Frisullo, fondatore con te della mitica, prima e irripetibile, Rete Antirazzista nazionale (1995-98), promotrice nel 1997 di tre visionari quesiti referendari, lasciati colpevolmente cadere dalla sinistra e dall’associazionismo.
Fatte tutte le differenze del caso, rileggendo la storia di Frisullo, non posso non pensare agli elementi di comunanza, in primis l’idea di solidarietà internazionalista e la vicinanza col popolo kurdo, con la vicenda di persecuzione giudiziaria di cui è vittima Eddi Marcucci, a cui proprio in questi giorni è stata confermata la sorveglianza speciale, monito di una giustizia feroce contro chi sa superare la dicotomia noi/altri e rovesciarla in impegno per una rivoluzione possible.
Sandro Targetti dice
Ho conosciuto Dino, dai tempi di DP, ero con Lui a Dyarbakir nel ’98. Facevo il capotreno: quante volte lo incontravo di notte sui treni….non dormiva mai, non si riposava mai!
Grazie Dino! Non ti ho dimenticato. Vivi nelle lotte che oggi sia pur con fatica cerchiamo di portare avanti.
Nicola Amenduni dice
Ciao Sandro. Ti riscopro dopo tanti anni grazie a Dino si direbbe
Nicola Amenduni (ferroviere allora come te)
Bawer Shengali dice
È difficile stabilire da dove cominciare se si parla di Dino. Insomma stavo in carcere di Amed (Diyarbakir) era un giornalista italiano arrestato durante la festa di Newroz. Dopo anni l’ho incontrato a Roma durante una manifestazione nel 2001. Nei anni seguenti grazie al mio impegno con associazione Ararat abbiamo lavorato insieme, ho tanti ricordi ma voglio raccontare uno. Avevo un italiano scarsissimo, era l’unica persona che potevo domandare. Eravamo soli, “ma Dino cosa significa tenero” la risposta di Dino “ma è una donna” ?
Lo avevo detto una bugia, ma adesso vorrei dirlo la verità. Si Dino era una donna che e diventata la mamma di mio figlio Azad
Per me eri un Dino e resterai sempre un Dino
Francesco Masala dice
Alessio Lega canta Frizullo
https://www.youtube.com/watch?v=HF7D0KAWzIU
Mauro Ieva dice
Averlo conosciuto ed essere stato un amico murgiano, accompagnandoci da pacifista che era sul tema della smilitarizzazione . Lui era un compagno Vero “maldestro e ostinato” come tutti quelli che sanno fare rivoluzione. Grazie.
Peppe dice
.. è in quella triste lista di quelli che ne sentiamo la mancanza.
ciao Dino, grazie annamaria
Patrizia Sterpetti dice
Grazie Annamaria innanzitutto. Io Dino lo ho conosciuto durante l’occupazione dell’università, nel 1990, a Roma, in occasione de “La Pantera”. Noi studentesse/i, di Antropologia e non, avevamo creato la “Commissione Interetnica” a Lettere e per tre mesi nelle aule si poterono riunire tanti immigrati neoarrivati, costituendosi in associazioni (AINAI, Bangladesh…). Dino me lo ricordo a Piazza S.Pietro nel dicembre del 1989 e una sera sulla scalinata del Rettorato nel ’90 a suggerirmi alcuni punti mentre intervenivo come portavoce della Commissione. Poi ci trovammo su posizioni diverse sulla Pantanella, perché lui difendeva a spada tratta quella esperienza, io ritenevo che penalizzasse la conoscenza reciproca tra le persone straniere e autoctone, perché eravamo in pochi/e a visitarle all’interno. Poi ci siamo rincontrati quando io ero entrata nella Wilpf e ci occupavamo di Albania. Mi ricordo che una volta volle dialogare con delle compagne albanesi invitandole nel suo quartier generale (per fare fotocopie e usare il pc) nell’ufficio di Rifondazione Comunista, con l’immancabile Nilde Guidotti, vicino alla Camera dei Deputati. Poi me lo ricordo a Piazza Farnese durante una manifestazione nel ’92 dove dopo avergli detto di smettere di fumare mi disse a bruciapelo: “E tu quando ti decidi a fare un figlietto?” E io gli risposi: “Mi manca la materia prima”. Alla Casa della Pace a Trastevere ho condiviso un incontro dedicato ad un progetto di studio e azione su il Nordafrica e il Vicino Oriente. Dino aveva capito – perché gli avevo passato dei materiali – che proprio dal ’91, dalla Pantanella, mi ero occupata instancabilmente di Marocco-repressione-emigrazione. Nel marzo del 2001 lo convinsi che dovevamo ricorrere alla Presidente della Commissione ministeriale per l’Integrazione Giovanna Zincone contro il rifiuto del Comune di Roma di concedere all’Associazione del Bangladesh i giardini di Piazza Vittorio per celebrare il loro capodanno. La denuncia con lettera firmata da più associazioni ebbe effetto e da allora Piazza Vittorio è stata concessa liberamente ad associazioni straniere. Ci siamo incontrati l’ultima volta alle 22 di sera, seduti a due computer attaccati, nel Palazzo dei Congressi all’EUR nel giugno 2002 durante il vertice mondiale sull’alimentazione. Fu contento perché gli passai tanto materiale preso dalla F.A.O. sul Bangladesh. L’ultima telefonata fu per chiedergli il numero di Simonetta Crisci, in febbraio, lo sentii un po’ titubante, imbarazzato, io non sapevo nulla del suo stato. Almeno due volte nel corso degli anni gli ho detto di smettere di fumare ma non ero nella sfera degli intimi per potermi permettere di più. Dopo la sua morte ho provato molta rabbia e riflettuto sulla cecità di una militanza che sa condividere senza vedere lo stato del vicino. La sorella si è accorta che aveva la febbre alta e lo ha portato a curarsi in Umbria. Dino non ha dormito, non ha mangiato e ha fumato per anni. E’ stato un gigante: colto, preparato, incisivo politicamente e umano. Manca. Lo ho scritto in un articolo sullo sgombero di Via Vannina a Roma nel 2017, se ci fosse stato lui…
Moreno Biagioni dice
Bello il ricordo di Dino fatto da Annamaria.
Ho vissuto con Dino, Annamaria ed altre /i la significativa esperienza della Rete Antirazzista, che ricordo ancora con nostalgia. Come ricordo la grande disponibilità di Dino a impegnarsi per ogni causa che riguardasse discriminazioni e ingiustizie (si attivò, fra l’altro, contro la segregazione e l’emarginazione dei campi Rom).