L’ascolto è in primo luogo un disporsi verso l’altro. Ma il nostro modo di parlare, e quindi di pensare, cambia in base alle persone che ascoltiamo, all’attenzione, alla sincerità e all’interesse reale con cui accogliamo le parole. Di certo, l’ascolto, nelle sue molteplici forme, può creare e trasformare le relazioni. Paulo Freire, Augusto Boal e Danilo Dolci hanno praticato e reinventato il dialogo (e l’ascolto) nell’educazione, racconta in questo splendido saggio Paolo Vittoria: il loro obiettivo non era proporre il dialogo come conciliazione ma il dialogo come coscienza sociale. Il pensiero critico e le loro esperienze sono oggi quanto mai importanti per ribellarsi al dominio della comunicazione verticale senza dialogo, alla frenesia che impedisce di pensare un mondo diverso. Nel tempo dell’educazione tecnicista, basata sull’individualismo e sull’ansia competitiva, il mercato ha bisogno della quantità e dell’immediatismo, le persone no, hanno bisogno di lentezza e di vivere l’esperienza. Insomma, l’ascolto ha bisogno di tempo, il mercato no. “La grande e affascinante rivoluzione comunicativa che stiamo vivendo apre potenzialmente le possibilità di comunicazione, di relazioni, di contatti, dal digitale al materiale. Tuttavia – scrive Paolo Vittoria -, bisogna riconoscere che non tutta la comunicazione è dialogo… L’ansia del consumare prodotti, ma anche immagini, emozioni, sensazioni, parole ad un ritmo innaturale, può negare o reprimere il tempo vitale del dialogo…”. Questo saggio fa parte di Dialogo, luogo dell’utopia (edito da Quintadicopertina e curato da P. Vittoria; il titolo originale del saggio è Dialogo, ascoltando) e raccoglie anche esperienze per imparare l’arte del dialogo, proposte a studenti universitari, ma valide per altre piccole comunità: i gruppi di ricerca-azione con movimenti sociali, i circoli di lettura comunitaria, gli incontri di teatro dell’oppresso. Per una volta proponiamo un testo piuttosto lungo, ma in fondo anche la lettura e la ribellione, come l’ascolto, hanno bisogno di tempo
di Paolo Vittoria
Creare l’ascolto
Il dialogo crea l’ascolto, così come l’ascolto crea le condizioni per l’esistenza del dialogo. La parola stessa, senza l’ascolto, non avrebbe ragione di esistere. Cosa vuol dire ascoltarsi? Porgere attentamente l’orecchio, stare a udire con attenzione. Sembra una definizione ovvia, ma nell’ovvietà sorge una parola su cui potremmo soffermarci: la parola “attenzione”. Nel bagaglio delle memorie scolastiche, questa parola appare come una sorta di richiamo all’ordine. Nella dispersione di parole volatili, che non si incontrano quasi mai tra chi parla e chi le riceve, l’insegnante richiamava alla disciplina utilizzando la parola attenzione: “fate attenzione”, era il suo appello accorato e quasi disperato. Ovviamente di attenzione ce n’era poca e, evidentemente, scarsa era la disposizione all’ascolto da parte di noi studenti. Sorge un’altra parola su cui possiamo soffermarci brevemente che è la parola “disposizione”. L’ascolto è un disporsi verso l’altro, volgersi, dispiegarsi, distendersi. Cercarlo.
Perché ci sia disposizione all’ascolto dovrà esserci un interesse ad ascoltare, ad ascoltarsi. Inter-essere: essere tra, dentro, essere parte e nel mezzo. Spesso è proprio il dialogo che crea interesse e l’ascolto vuol dire prender parte al dialogo, essere parte, essere tra, dentro le parole dell’altro. Tuttavia come ascoltiamo? Cosa ascoltiamo? Qualcuno ascolta le parole che emette la televisione, qualcun’altro ascolterà le parole della radio, c’è chi ascolta la musica, c’è chi ascolta una voce al telefono, chi ascolta un’altra persona che parla, ma non sente niente. Si tratta dello stesso ascolto? Cosa ci resta delle parole? Fino a che punto l’ascolto si fa esperienza? Con quali sensi noi ascoltiamo? Ci ascoltiamo? Oppure ci facciamo ascoltare? Con quale intensità chi legge queste parole, le sta ascoltando davvero? Nel “farsi ascoltare” i bambini della prima infanzia sono dei maestri. Mettono in atto delle strategie che creano le condizioni per cui li dobbiamo assolutamente ascoltare: il pianto, il tatto, lo sguardo, la richiesta. Eppure non parlano ancora. Si fanno ascoltare e anche bene, ma senza parole. Questo significa che il dialogo non sempre si costruisce con le parole, dipende dalla disposizione all’ascolto verso l’altro. A volte è anche un gioco di potere.
Lev Vigotskij distingueva il linguaggio dal pensiero, considerando il linguaggio come linguaggio esteriore e il pensiero come linguaggio interiore (Vigotskij, 2008). Pone una questione fondamentale. Possiamo dedurre che l’ascolto è già linguaggio interiore. In fondo, quando pensiamo, ascoltiamo il nostro linguaggio interiore e quando ascoltiamo l’altro ripensiamo quello che ci dice. Quanto più ampliamo la sensibilità dell’ascolto dell’altro, tanto è più probabile che saremo capaci di ascoltarci internamente, nel linguaggio interiore – nel pensiero.
La grammatica dell’ascolto
L’ascolto, dunque, intrecciato al linguaggio e al pensiero, ha una propria grammatica composta di organizzazione del pensiero, struttura logica, legami sequenziali, armonie, melodie e fantasie. Possiamo definirla come “grammatica dell’ascolto”. Cos’è la grammatica? Certamente dipende dalla logica, ma la logica è relativa al significato, all’espressione, all’emozione che si vuol trasmettere. La grammatica, insomma, dipende, da quello che si vuol dire, ma anche da come lo si vuole dire, dall’intenzionalità. Tuttavia, io posso aver certezza di quello che sto dicendo, ma non certo di quello che stanno ascoltando. Di quello che sto scrivendo, ma non di quello che si sta leggendo. Il dialogo può risolvere questo dilemma interpretativo? A volte. Diviene, quindi, uno strumento ermeneutico.
La grammatica del discorso non sempre coincide con la grammatica dell’ascolto. Per questo, molto spesso si cade nell’equivoco, anche se l’equivoco non sempre è casuale. Il dialogo è una porta che apre i canali comunicativi ed espressivi tra il discorso e l’ascolto: una chiave comunicativa. Mette in gioco le rispettive grammatiche, creando una grammatica comune che si interseca, si fonde, si reinventa nell’incontro. La terra di mezzo è l’esperienza, il vivere, praticare l’ascolto. Ascolto creativo.
Torniamo al tema della grammatica dell’ascolto. Se siamo sovrappensiero qualcuno potrà chiederci in modo, magari irritato, “Ma mi stai ascoltando”? Come a dire, “ma mi rispetti?”, “mi tieni in considerazione?”. Probabilmente non è che non stiamo ascoltando, ma il nostro ascolto è distratto da altri pensieri, la grammatica dell’ascolto non è concentrata sulle parole, le sue immagini, l’esperienza. La propria memoria. L’ascolto ha una propria grammatica e può essere, quindi, soggetto del nostro discorso interiore ed influenzare il discorso dell’altro.
Per esempio, il mio modo di parlare, e quindi di pensare, cambia in base alla persona che mi sta ascoltando, all’attenzione, alla sincerità e l’interesse reale con cui segue, accompagna, accoglie le parole. Così come il modo in cui io ascolto, può cambiare il carattere delle parole di chi parla e questa interazione è reciproca ed è fondamentale nel contesto dell’insegnamento-apprendimento.
Ci formiamo nelle relazioni, cambiamo con le relazioni, e l’ascolto, nelle sue molteplici forme, può creare, inventare, reinventare, trasformare le relazioni stesse e con esse l’ambiente sociale in cui esse si sviluppano: la realtà. Il dialogo, l’ascolto quindi, oltre ad essere interpretativo, può essere trasformativo: praxis.
Il dialogo riconciliatore?
Spesso si crea un’accezione del dialogo come elemento di riconciliazione, anche di mediazione, creandone una morale dell’accordo, del patto a tutti i costi. Vero in parte, ma non sempre il dialogo è riconciliatore e non lo è forzatamente. Il dialogo può mettere in evidenza contraddizioni, lacerazioni, divergenze, punti di vista diversi, differenze, autonomia, separazioni e contrastanti concezioni politiche e culturali: anche il conflitto. Può unire, ma anche distinguere, visto che le relazioni sono complesse e i sentimenti spesso contraddittori: il dialogo non nega il conflitto tra elementi, spazi teorici che fanno parte delle relazioni sociali, in particolare nel campo dell’educazione. Può, quindi, creare delle regole, dei confini, superarli, rispettarli, allargarli, trasformarli, anche negarli. Il dialogo ha certamente dei limiti, così come le relazioni. È mutabile, come sono le relazioni.
Nei miei studi sull’educazione popolare mi sono imbattuto in educatori, autori, intellettuali che hanno praticato e reinventato il dialogo nell’educazione e il cui obiettivo non era tanto la conciliazione, ma la coscienza sociale. Mi riferisco a Paulo Freire, ad Augusto Boal, a Danilo Dolci. Persone che hanno preso posizione nella vita e nell’esperienza, ma che non si sono mai sottratte al dialogo.
Paulo Freire, ad esempio, considerava il dialogo una “necessità ontologica dell’essere umano”, una necessità evidentemente esistenziale, quindi un diritto da rispettare. La sua concezione e pratica di alfabetizzazione con i lavoratori e contadini aveva un’ispirazione interazionista che valorizzava il linguaggio delle comunità: per questo utilizzava parole significative (parole generatrici) su cui fondare l’esperienza di alfabetizzazione (Freire, 2002). Parole semplici, comuni, parte della vita quotidiana come acqua, terra, pozzo, scarpa, siccità ed altre. Ebbene, quando nel 1964 in Brasile ci fu la traumatica presa di potere da parte dei militari e la drammatica transizione dalla democrazia alla dittatura,
Paulo Freire fu accusato di essere sovversivo e costretto a un lungo esilio proprio perché utilizzava le parole generatrici. Il dialogo è sovversivo: sovverte la rassegnazione.
Augusto Boal, dal suo canto, si mostrava preoccupato per l’assenza di dialogo. Si chiedeva se il dialogo fosse davvero tale o una somma di monologhi e difendeva la creazione del Teatro dell’Oppresso come spazio creativo in cui ripensare varie forme di dialogo non solo nell’ambito logico-formale, ma in quello sensoriale, corporale, basato sul linguaggio non verbale, sull’estetica, sulle emozioni organizzatrici del pensiero (Boal, 2005). Sia Boal che Freire hanno operato in contesti in cui erano particolarmente forti l’oppressione, l’esclusione sociale e questo si ripercuote nelle forme comunicative, espressive e corporali. L’oppressione non è aperta al dialogo. Crea sottomissione.
Boal, come Freire, durante la dittatura militare fu costretto all’esilio dopo ripetute torture e minacce. Il dialogo è troppo aperto per l’autoritarismo. Danilo Dolci, come approfondito nel saggio di Antonio Vigilante, praticava la maieutica reciproca come esperienza fondamentale per il passaggio da una società burocratica, autoritaria e alienata ad una comunità basata sulla reciprocità delle relazioni. L’arte di far nascere idee, vive nella reciprocità stessa del dialogo, ne è uno strumento necessario. Se c’è una forma di comunicazione ne basata sul dominio dell’immagine e della parola, la maieutica reciproca dà il potere a quelli che il potere non ce l’hanno (Dolci, 1996). Il dialogo dà il potere a quelli che il potere non ce l’hanno. Il potere si contrappone al dominio, il dialogo si pone come dispositivo di potere. Valorizza le forme espressive di narrazione, del linguaggio, le espressioni popolari, così come visto in Conversazioni Contadine, ad esempio (Dolci, 2014). Anche Dolci fu osteggiato, dovette affrontare la diffidenza e l’isolamento delle istituzioni e l’indifferenza delle grandi “scuole” teoriche pedagogiche o politiche: perché il dialogo crea potere e non dominio.
Il dialogo, uno strano soggetto rivoluzionario
Vale la pena chiedersi, dunque, perché il dialogo dava e dà così fastidio al potere costituito. Perché questi educatori, intellettuali, drammaturghi che praticavano il dialogo come parte delle loro concezioni del teatro, dell’educazione popolare, dello sviluppo di comunità siano stati spesso perseguitati, torturati, incarcerati, o esiliati. Perché nelle loro teorie e pratiche educative, il dialogo trovasse uno spazio cosi consistente dal punto di vista della conoscenza, dell’apprendimento, dell’organizzazione sociale tanto da essere considerato come parte di una teoria rivoluzionaria. Cosa avrebbe, dunque, il dialogo di rivoluzionario? Ritorniamo per un momento a Paulo Freire. Nella Pedagogia degli Oppressi, Freire contrappone il dialogo alla “cultura del silenzio” e considera il dialogo stesso come superamento del silenzio. Il silenzio, a cui si riferisce Freire, è un silenzio di rassegnazione, di accettazione passiva della realtà; un silenzio imposto da strutture di potere che si approfittano dell’analfabetismo, della bassa scolarizzazione. Non il silenzio creativo dell’ascolto, ma il silenzio della dipendenza: una sorta di “omertà”.
Il dialogo rompe la “cultura del silenzio”, della dipendenza, apre possibilità per ampliare la coscienza critica, in particolare negli ambiti sociali ai margini, con gruppi e classi sociali che ne sono storicamente escluse e oppresse. In questo senso, il dialogo non è incompatibile con la coscienza della classe sociale. Diventa scomodo, perché il dialogo in realtà non è neutrale. Non è necessariamente conciliatore. Il dialogo è una possibilità di presa di coscienza sociale. Anche uno strumento di potere, collettivo. Diviene insostenibile per le classi dominati quando è praticato tra le classi oppresse.
Molto spesso ascoltiamo la cultura del silenzio a scuola, quando insegnanti e studenti non danno spazio al dialogo, non considerano sufficientemente l’importanza dell’ascolto. O meglio, considerano l’ascolto in modo univoco, solo nel momento della spiegazione piuttosto che nella sua reciprocità. Semplicemente come obbedienza alle parole imposte e nella scarsa coscienza delle sue potenzialità comunicative. La “cultura del silenzio” è la scarsa coscienza dell’ascolto. Probabilmente in un contesto scolastico in cui si pratica ampiamente il dialogo, gli studenti avranno più coscienza dell’appartenenza alla classe studentesca rompendo molte barriere, anche ideologiche ed essendo più partecipi e coscienti delle proprie azioni.
Sulla “cultura del silenzio”
Il silenzio può essere un valore fondamentale di rispetto e ascolto dell’altro, o ascolto reciproco. In realtà, l’espressione “cultura del silenzio” utilizzata polemicamente da Paulo Freire, risuona come “interdizione del dialogo” e della parola, consegnandosi, invece, alla parola “autoritaria”, o anche “televisiva”, uniformata, standardizzata, e aprendosi poco a parole relazionate all’esperienza, al vissuto, al pensiero critico. L’autoritarismo, ad esempio, si basa sull’incutere la paura della parola, della cultura, del dialogo. Vuole determinare il silenzio, nel senso di accettazione, adattamento, rassegnazione. Consideriamo, quindi, due accezioni diverse del silenzio: quella dell’ascolto (creativa, partecipe, viva) e quella della rassegnazione (passiva, dipendente, spenta).
Esse possono scaturire da due proposte, esperienze, concezioni educative, completamente diverse ed opposte: quella dell’addestramento o quella dell’educazione critica. Per meglio dire, educare per addestrare o educarsi gli uni con gli altri al pensiero critico. Gli animali al circo sono addestrati, ma gli uomini e le donne si educano. La differenza tra essere soggetti dell’educazione ed oggetti dell’addestramento vive probabilmente nello spazio dedicato al dialogo, per l’ampiezza della capacità riflessiva e creativa, per la coscienza che ci relaziona alla realtà sociale e che ci rende soggetti della nostra vita, liberi di progettare, creare, inventare, sbagliare. Ridurre l’uomo e la donna, specialmente ragazzi, bambini e adolescenti in formazione, ad un’azione di addestramento è un atto gravissimo. Non ci si riconosce come soggetti e costruttori della storia, non riconosciamo i nostri aspetti creativi, inventivi, culturali. Non si incentiva la responsabilità, l’autonomia intellettuale. Non si creano occasioni di espressione delle idee e delle differenze. Ci si tiene fuori dalla storia. Come spettatori annoiati.
L’ascolto nell’educazione addestrante si riduce a un sistema binario: sì o no. Obbedisco oppure no. L’ascolto nel dialogo e nell’educazione critica è molto di più di un sistema binario o decimale: è un’infinita possibilità. Come scritto anteriormente, l’ascolto ha una sua grammatica, un suo spazio di significazione, di immaginazione. L’ascolto è il primo ambito che abbiamo per creare un dialogo sociale. L’ascolto si unisce alla parola e la colora in modi diversi. Il dialogo è creatore. L’ascolto ne è parte. Probabilmente la creatività è uno degli aspetti che rende il dialogo particolarmente scomodo. Ci rende creativi, autonomi intellettualmente, ci mette in relazione, crea spazi per una coscienza critica, ci fa essere critici rispetto all’obbedienza o la disobbedienza. Supera il sistema binario, cartesiano.
Le forme dell’autoritarismo, a tutti i livelli, anche quelli del neoliberismo tecnocratico e competitivo, impongono un silenzio, la paura della parola, frutto di un sistema di dipendenza, di negazione, di addestramento che nega lo spazio espressivo, la coscienza critica. Il dialogo rompe il silenzio della rassegnazione, si rende quindi un processo capace anche di conflitto e di rottura con la rassegnazione stessa. Proprio per questo, il dialogo è molto difficile laddove ci sono rapporti di dominazione, o manipolazione ed è spesso considerato sovversivo e “pericoloso”. Lo è nella misura in cui il pensiero e le idee lo sono. Il dialogo non è solo contemplativo o riflessivo, ma una preparazione per la pratica riflessiva e trasformativa: per la praxis.
Dialogo, luogo dell’utopia
Non sempre il dialogo è possibile e ha bisogno della fiducia per trovare spazio. Per queste ragioni insegnanti, docenti, educatori, studenti, non troveranno naturalmente e facilmente le condizioni per l’ascolto o per il dialogo, ma dovranno cercarle ed anche crearle mediante esperienze sociali, incontrando barriere, conflitti, sistemi di difesa o negazioni. Per affrontare queste barriere, si rende necessario comprendere, dal punto di vista sociale e politico, l’importanza del dialogo. Non basta teorizzarlo, bisogna incentivarlo nella pratica, per conoscerlo negli aspetti più profondi. Teorizzare il dialogo e non sperimentarne la pratica creerebbe una contraddizione incolmabile. Lo spazio espressivo del dialogo si apre a diverse proposte e concezioni teoriche, filosofiche e pratiche, agendo nelle contraddizioni sociali e nella terra di mezzo che si crea tra la teoria e la pratica.
Perché non si ascolta?
Nel cercare lo spazio espressivo del dialogo, bisognerà capire le circostanze sociali, storiche, culturali, che restringono o negano del tutto la sua esistenza vitale nei luoghi formali dell’educazione, e creare, aprire, una riflessione insieme sulle concrete espressioni teoriche e pratiche che intravediamo o consideriamo possibili nell’ambito dialogico. Occupare l’utopia è abitare il non-luogo e renderlo luogo vivibile, abitabile. Vediamo, quindi, cosa lo rende invivibile fino ad ora.
1) La guerra dei numeri
Nel sistema del produttivismo determinato dal neoliberismo in voga nelle nostre scuole e università non siamo motivati ad un reale confronto di idee, ma vincolati ad un’arida competizione tra numeri, produzioni, indici, curriculum. Il punto è che i numeri nel sistema competitivo-produttivista imposto alle università servono a dimostrare: sono una prova – non sappiamo quanto veridica – di qualcosa di tecnico e asettico. In realtà, quello che è più preoccupante, non sono i numeri in sé, ma il fatto che essi siano spesso scollegati dalla realtà, così come l’immagine o la parola possono esserlo. Una necessità della stessa nostra esistenza è il dibattito, il confronto tra idee che dà spazio e crescita al dialogo. Ci rendono vivi. L’idea nasce in noi, la creiamo, la produciamo e la vediamo nascere. Le idee nascono e trascendono. Senza idee, appena sopravviviamo. Il dialogo le coltiva.
“La guerra dei numeri” in realtà ha un’ideologia ben chiara: il numero può essere uno strumento ideologico, così come le parole e l’immagini possono esserlo. Esistono parole che ci vengono più o meno imposte nel campo educativo, come “competenze”, “abilità”, “successo”, “insuccesso”, “produzione”, “competizione” nonché inglesismi decontestualizzati dalla lingua inglese, come “drop-out”, “life skills”, “match” ed altre ancora. Questo vocabolario non è stato creato casualmente, ma risulta essere uno strumento ideologico proveniente da un sistema che, facendo gli interessi della strategia neoliberale, ha bisogno di creare un “dispositivo” – in questo caso credo che la parola sia adeguata – utile alla sua realizzazione: un’educazione tecnicista, basata sull’individualismo e sull’ansia competitiva. Il mercato ne ha bisogno. Ha bisogno della quantità e dell’immediatismo. L’essere umano no: ha bisogno del tempo e di vivere l’esperienza! Il mercato entra in conflitto con l’essere umano e noi ne paghiamo le conseguenze a livello culturale, anche nelle università e nelle scuole. Il dialogo non trova spazio in questo sistema. L’ascolto non serve al mercato. Nella guerra dei numeri voluta dal produttivismo neo-liberale, il dialogo non è ben visto. Ha poco spazio. L’ascolto si riduce sempre di più. L’ascolto ha bisogno di tempo. Il mercato non ci da tregua.
2) L’immediatismo frammentario
Nell’educazione mercantilista e tecnicista, atta ad alienare e frammentare le nostre azioni e a restringere il campo per la progettazione e la realizzazione autentica di ricerche, azioni, idee, esiste un’altra forma di negazione del dialogo che è quella determinata dall’immediatismo frammentario: fondata sull’ansia del consumare prodotti, ma anche immagini, emozioni, sensazioni, parole ad un ritmo innaturale, può negare o reprimere il tempo vitale del dialogo. Così si vive nella comunicazione frenetica tra parole, immagini che non necessariamente hanno legame discorsivo, narrativo, dialogico. In un’apparenza che a volte è scollegata dalla propria essenza perché non si ha il tempo né lo spazio necessario per elaborarla.
Si produce il rischio di una nuova forma di alienazione occultata, in realtà, anche da un utilizzo irriflessivo del potere comunicativo delle reti sociali, che dovrebbero invece facilitare le relazioni, le conoscenze e i contatti molteplici. Il rischio esiste ed è quello della scissione delle relazioni tra il virtuale e il reale: rappresenta un pericolo concreto per il dialogo anche perché può produrre una scissione interiore che è quella tra la parola, l’immagine virtuale e il suo significato reale e vissuto. La grande e affascinante rivoluzione comunicativa che stiamo vivendo apre potenzialmente le possibilità di comunicazione, di relazioni, di contatti, dal digitale al materiale. Tuttavia, bisogna riconoscere che non tutta la comunicazione è dialogo.
Sulle reti sociali viviamo un intenso e continuo scambio di informazioni che non si riposa mai, non ha pause. Anche i movimenti civili e politici hanno tratto dalle nuove forme di comunicazione e dalle reti sociali un potenziamento delle possibilità comunicative e organizzative.
Nel linguaggio umano, ci sono possibilità che non ritroviamo in nessun’altra specie: leggere e scrivere, il simbolismo grafico, espressioni che nessun altro essere biologico può creare. Scrivendo, leggendo, dipingendo, possiamo rappresentare le nostre emozioni, le nostre condizioni. La profondità del dialogo si delinea anche mediante la possibilità di scrivere, descrivere e rappresentare una narrativa comune. La comunicazione può essere autentica e riflessiva, ma anche dispersiva o persa nel produttivismo e nell’immediatismo della massificazione. Il dialogo non coincide con la comunicazione, ma è una delle forme della comunicazione. Il dialogo prevede una situazione narrativa, un contesto costruttivo, ma ha bisogno di un tempo narrativo e riflessivo proprio e di una relazione viva con la vita reale. Il dialogo ha bisogno del tempo e della pazienza. Quello che la logica del mercato non ha.
3) Produttivismo contro “il tempo delle lumache”
Il fascino della narrativa può percorrere gli spazi che il dialogo e l’ascolto aprono. Dalla bozza, al progetto letterario, poetico, scientifico, abbiamo bisogno di espressione del pensiero per andare oltre il frammento, per la dinamica della narrativa, i luoghi della memoria, per l’immaginazione che è ampliamento del pensiero.
L’immediatismo e il produttivismo negano spazio al dialogo, perché limitano l’immaginazione, il progetto, la sua durata nel tempo. Interferiscono nella naturale propensione di vivere il dialogo, che è anzitutto ascolto del tempo nel tempo della parola. Nell’immediatismo, le idee, le relazioni e le loro descrizioni rischiano di spegnersi e perdersi nella frammentarietà.
Una distinzione va fatta: quando parliamo di dialogo come mezzo di conoscenza – dialogo maieutico, dialogo sociale, dialogo filosofico, dialogo teatrale – dovremmo muoverci in un tempo che rispetta il tempo del pensiero, dell’ascolto e della parola. Il dialogo è una pratica necessaria allo sviluppo della conoscenza che rispetta l’esperienza, il sapere, il linguaggio di ogni partecipante nelle plurime forme comunicative e le infinite possibilità espressive che esistono tra il verbale e non verbale. Anche nei conflitti.
Non basta dire che il dialogo si forma nella comunicazione tra due soggetti mediati da un tema di discussione. Diviene importante comprendere che la comunicazione è dialogo se crea una narrativa comune.
Trovo interessante al riguardo, la distinzione che fa Bauman tra reti sociali e comunità:
La differenza tra la comunità e la rete è che tu appartieni alla comunità, ma la rete appartiene a te. È possibile aggiungere ed eliminare gli amici, controllare le persone con cui ti relazioni. Questo fa sì che gli individui si sentano un po’ meglio, perché la solitudine è una grave minaccia in questi tempi di individualismo. Ma nelle reti, è così facile aggiungere e cancellare gli amici che le abilità sociali non sono necessarie. Esse si sviluppano per strada o al lavoro, nell’incontro con persone con le quali si ha bisogno di avere un’interazione ragionevole. In questo caso bisogna affrontare le difficoltà, ed impegnarsi in un dialogo. […] il vero dialogo non è parlare con persone che la pensano come te. I social network non insegnano il dialogo, perché è molto facile evitare polemiche […] molte persone li usano non per unire, non per ampliare i propri orizzonti, ma piuttosto per chiudersi in quello che io chiamo zona di conforto, dove l’unico suono è sentire l’eco della propria voce, dove l’unica cosa che si vede è il riflesso della propria faccia. Le reti sono molto utili, offrono servizi molto piacevoli, ma sono una trappola.
“Il vero dialogo non è parlare con persone che la pensano come te”. Qual è, dunque, l’elemento che caratterizza il dialogo? La differenza tra i soggetti dialoganti, ma anche il movimento e il desiderio di apprendere. Il movimento e la differenza tra i luoghi del pensiero che non sono statici, ma itineranti; probabilmente Bauman esagera quando considera le reti sociali come una trappola? Possiamo dire che esse possano esserlo in base all’uso che ne facciamo. Il dialogo autentico poi si sviluppa come strumento dello sviluppo comunitario, nel lavoro dell’educazione popolare, nella lotta in difesa degli umili, in grado di ridiscutere il potere e di creare coscienza critica, nel modificare l’esperienza sociale in uno spazio di conoscenza co-operativo, nel superare pericolose dicotomie tra l’educatore e l’educando. Nelle reti sociali, quindi, ma soprattutto nella vita reale.
Occupare, abitare il luogo della parola non riguarda soltanto l’insegnante, ma gli studenti, la cultura, le opinioni, le idee, le letture soggettive, l’ascoltare, il creare nel movimento delle differenze. Il dialogo è possibile, bisogna crearne le condizioni narrative. Rispettare “il tempo delle lumache”.
Esperienze, pratiche e proposte dialogiche sono possibili. Possibile è sperimentare l’utopia del dialogo nelle nostre attività, all’università, nelle scuole e nei contesti sociali. Nella coscienza dei limiti e degli ostacoli che incontriamo in una società individualista, produttivista, spesso autoritaria e in contraddizione con questo tipo di sistema, esistono le condizioni per creare dialogo anche a partire dall’università. Seguono alcuni esempi di esperienze pratiche che abbiamo creato e stiamo creando nell’Università di Rio de Janeiro.
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Il luogo delle possibilità. Pratiche ed esperienze
Dialogo come praxis: il Forum con i Movimenti Sociali
A partire dal processo storico dei movimenti sociali in materia di educazione popolare e di pedagogia critica, come parte del gruppo COLEMARX presso l’Università Federale di Rio de Janeiro (UFRJ), abbiamo creato un gruppo di ricerca-azione in materia di educazione popolare e Movimenti Sociali che sta promuovendo, insieme ad altri gruppi e movimenti, il Forum permanente dei Movimenti Sociali, Educazione Popolare e Università (Leher, Vittoria, 2015). Il Forum, che ha iniziato le sua attività nel 2014, mette in relazione l’Università con movimenti sociali politicamente impegnati nei contesti rurali e urbani di Rio de Janeiro: è, dunque, composto da lavoratori, contadini, popolazioni indigene, studenti, giovani delle periferie, gruppi che lavorano nel campo dell’alfabetizzazione e della cultura popolare. Uno degli obiettivi del Forum è quello di creare le condizioni per cui l’università possa rinnovare e ri-progettare il suo ruolo di ricerca e di azione educativa, mettendosi in ascolto con i movimenti sociali e aprendo spazi per un dialogo critico con e tra i gruppi e i movimenti che compongono il Forum. Mediante seminari, riunioni aperte, attività culturali, politiche ed artistiche, il Forum ha creato le condizioni per un’articolazione tra università e movimenti sociali, ampliando lo spazio del dialogo al di fuori dell’università e dentro l’università stessa. L’educazione popolare si estende nel rapporto tra cultura, classi popolari, movimenti sociali, scuola pubblica e università in modo organico e sistematico cercando l’autonomia rispetto alle pressioni del mercato globale. Questo significa mettere in discussione la storia di questi rapporti, attraverso dibattiti, esperienze e progetti di ricerca, forum, sessioni plenarie, riunioni, attività culturali. Il dialogo e l’ascolto sono condizioni necessarie alla costruzione di questo processo che è basato sull’incontro, sulla diversità e sulla pluralità.
La struttura organizzativa del Forum si è formata intorno a temi sorti dai primi incontri, come “educazione popolare nel contesto rurale”, “educazione popolare nel contesto urbano”, “educazione popolare e scuola pubblica”, “alfabetizzazione e cultura popolare”, “educazione indigena”, “organizzazione e criminalizzazione dei movimenti politici”.
Basato sul principio della partecipazione collettiva, dell’educazione popolare, della resistenza contro l’educazione neoliberista, il Forum pretende di andare oltre l’individualismo, la competitività, l’egoismo, portando con sé l’esperienza di analisi e dibattito sulle politiche pubbliche con gli studenti, i ricercatori, i professori, le scuole, gli studenti, gli insegnanti, gli educatori. Proponendo teorie, esperienze, azioni culturali e politiche, ricerche basate sul dialogo tra soggetti e movimenti diversi. Il Forum è guidato da una filosofia basata su una visione attiva, dinamica, e soprattutto dialogica dell’esercizio della praxis educativa tra culture diverse e plurali, che consente lo scambio di visioni e di altri modi di sentire e di agire sulle relazioni educative, sociali, politiche, ambientali: senza nascondere il disaccordo, le contraddizioni, a volte il conflitto. Per esempio, durante il seminario di dicembre del 2015, sono spesso emerse opinioni diverse rispetto a questioni centrali, come il ruolo dello Stato, ma anche percezioni diverse del tempo e della disciplina organizzativa.
La questione di fondo è considerare questa diversità una ricchezza, un’esperienza di conoscenza che rispetta l‘autonomia e l’autodeterminazione dei movimenti sociali e delle singole persone, che non accetta la disuguaglianza e l’esclusione delle periferie delle popolazioni marginalizzate come un fatto immodificabile, perché la stessa cultura può modificarlo. Ricerca in modo permanente le possibilità di trasformazione in un processo collettivo e dialogico. Il dialogo e l’ascolto divengono pratica sociale: praxis.
Leggere insieme: i circoli di lettura
Un’altra pratica dialogica che sperimentiamo è costituita dai circoli di lettura con gli studenti universitari. Come si compongono e a cosa servono i circoli di lettura? Una prima riflessione va fatta sulla lettura. Come si legge? Siamo abituati a leggere individualmente e in modo anche un po’ disperso. Con la crescita delle nuove tecnologie il tempo e il campo della lettura aumenta (lettura di messaggi, lettura di post, lettura del telefono cellulare, lettura di blog), ma questa diviene più dispersiva e meno organica.
Si fa più difficile e rara, ad esempio, la lettura di un libro o di una collezione di libri. La lettura diviene più frequente, ma meno organizzata, sistematica. Tuttavia, quello che ci interessa non è solo la lettura, ma piuttosto la riflessione sulla lettura. “Lettura della parola, lettura del mondo”, diceva Paulo Freire. Chiedere agli studenti: cosa ne pensi di quello che hai letto? Sei d’accordo con l’autore o l’autrice? Qual è la tua lettura? Cosa scriveresti al posto suo? Cosa ti interessa? Cosa non ti interessa? In cosa discordi? Sono domande che rendono esplicita la riflessione sulla lettura in modo non individuale ma collettivo, mediante quella che possiamo definire come pratica riflessiva e dialogica. Penso, inoltre, che il contesto della classe sia importante per dare spazio a questo tipo di esperienza. Tessendo la narrativa mediante l’incontro di letture soggettive.
Abbiamo lavorato con i circoli di lettura dividendo un testo (sia esso un articolo, un capitolo, anche un libro intero) in più parti. Ogni gruppo legge in circolo una parte del testo (o del libro), la discute, la mette in questione, scrive e compone annotazioni, ci riflette insieme, in dialogo. Si dedica una parte del lavoro a leggere il testo ed un’altra a riflettere sul testo individualmente e in gruppo: lettura della parola, lettura del mondo. Dopo la lettura in gruppi, la classe insieme, come comunità di lettura, ricompone il testo anteriormente diviso in parti: ogni gruppo espone a tutta la classe la parte del testo letta e condivide le riflessioni fatte, mettendole in circolo mediante il dialogo. Gli altri ascoltano e vengono a conoscenza delle parti che ancora non avevano letto. In questo modo si fa una ricostruzione completa del testo ed emergono riflessioni soggettive e di gruppo sulle diverse parti, relazionandole alle esperienza di vita, di lavoro, nel campo nell’educazione o anche in altri contesti. Dalla fase della lettura, si passa a quella narrativo-espositiva, per poi sbocciare nella riflessione critica.
Queste tre fasi (lettura, narrazione, discussione critica) creano le condizioni per il dialogo, l’ascolto, la condivisione dell’esperienza e la promozione di un lavoro anche continuativo, perché questo tipo di esperienza può durare per uno, due incontri, ma anche per un semestre intero, leggendo comunitariamente un libro o una serie di libri. La lettura assume un significato di “riscrittura” del testo: si crea una nuova narrativa, collettiva, organica, la si reinventa e si riscrive insieme in una pratica dialogica che crea orizzonti sempre più ampi. La domanda che, in una visione conservatrice della scuola, viene dal docente all’alunno, si risignifica in una tessitura comune, sociale, comunitaria, plurale, reciproca, promuovendo la curiosità e l’interesse in un clima di informalità senza il quale qualsiasi esperienza di lettura avrebbe poco senso.
Il dialogo estetico: il teatro e la polifonia
Un’altra esperienza significativa in cui il dialogo ha un ruolo centrale sono stati i laboratori di Teatro dell’Oppresso svolti presso l’Università di Napoli e di Rio de Janeiro (Strollo, Vittoria, 2013). Il teatro può contribuire alla creazione di una polifonia, intesa come l’elaborazione dialogica a partire dall’esplorazione delle esperienze e delle potenzialità della comunicazione verbale e non verbale. Bachtin considera la polifonia come una tensione tra relazioni dinamiche. Tese tra enunciazioni, tra centri diversi del discorso e dei suoi significati, che non sono subordinati l’uno con l’altro (Bachtin, Holquist, 1981). La parola è l’elemento che determina questo movimento, ma non solo, anche l’immagine e il suono possono esserlo.
Il “dialogo polifonico” trascende la parola, nell’infinita pluralità delle forme espressive, dei suoi silenzi e dei suoi gesti, dell’esperienza comunicativa nella sua profonda apertura, ma anche nelle sue tensioni. Linguaggi verbali e non verbali: espressioni del volto, del corpo, dei suoni, forme dialogiche ed espressive inedite si aprono e si incontrano tra pensiero sensibile e pensiero simbolico. Le emozioni non vengono dopo la ragione, ma cooperano nel creare una “melodia”, che non è altro se non la ridescrizione di una riflessione sociale, politica, profondamente umana. A questo contribuiscono il teatro, l’arte e l’immaginazione in senso ampio.
Si trascende la prospettiva logico-razionale per esplorare la comunicazione e, quindi, anche il dialogo, nelle sue forme infinite e indefinite. Pensiero simbolico e pensiero sensibile convivono senza gerarchie in una ricerca che nasce dalla solidarietà delle relazioni. Attraverso la predominanza del pensiero logico-razionale, i processi di degrado del pensiero sensibile, possiamo ritrovarci e renderci schiavi dei mezzi di comunicazione di massa che dominano mediante parole, immagini e suoni e che inculcano nei cervelli un’insidiosa forma di invasione e manipolazione. Varrebbe la pena chiedersi se e in che misura il sistema neoliberale sia interessato all’arte. Certamente l’arte non è valorizzata e, al suo posto, si trova una mentalità tecnocrata e produttivista. Ad essa necessariamente bisogna contrapporre un’estetica liberatrice e umana, creativa. È esattamente attraverso questi elementi (parole, immagini e suoni) che nasce l’estetica liberatrice del Teatro dell’Oppresso di Augusto Boal, di cui si occupa più dettagliatamente Alessandra Romano in un capitolo di questo libro. Un principio dell’estetica è riconoscere alla sensazione, alla percezione, l’importanza di essere un “dinamico orchestratore” della conoscenza, piuttosto che una semplice “appendice” della ragione. Lo spiega bene Augusto Boal nel suo ultimo libro A estetica do oprimido:
Discordo sul fatto che la sensazione pura sia oscura e confusa: in realtà, è ricca e complessa, quando è sentita così com’è. Essendo provocata dall’oggetto (cosa), può creare diversità di percezioni in differenti soggetti, o nello stesso soggetto in momenti differenti. […] Discordo con la parola «inferiore» utilizzata per designare la Conoscenza Sensibile, perché non si tratta di archivio morto, mero registro di informazioni sensoriali, ma il dinamico orchestratore tra nuove informazioni e quelle già ricevute e gerarchizzate, con le carenze e i desideri del soggetto, cioè tra pensiero e la sua conversione in atto […] Il Pensiero Sensibile e il Pensiero Simbolico coesistono in ciascun individuo, nella propria percezione del mondo, nutriti dalla Conoscenza, simbolica e sensibile. (Boal, 2008. pp 26-27)
Il teatro, dunque, mostra che, mediante l’estetica, esistono altri modi di vedere e leggere la realtà. Mostra che si possono immaginare forme di liberazione, e costruire un potere sociale di intervento nella realtà. Nelle sue tecniche diverse, il Teatro Forum, il Teatro Immagine, il Teatro Giornale, il Teatro Legislativo, il Teatro degli Oppressi offre possibilità per ripensare il dialogo come esperienza che va al di là della parola e che, proprio per questo, conferisce alla parola un significato diverso, in uno spazio comunicativo che varia dal gesto, all’espressione, al movimento. Abbiamo praticato in modo sperimentale il teatro di Boal nel corso di laboratori sociali con studenti volti a riflettere collettivamente su questioni sociali interne, come ad esempio il laboratorio di Teatro Forum su una relazione conflittuale tra una docente e i suoi studenti (Vittoria, 2013). Ne sono nate forme comunicative inedite, riflessioni autentiche, poco utilizzate nei luoghi dell’educazione formale. Così il dialogo diviene uno spazio estetico, sensibile, di movimento.
Riflessioni finali in difesa del dialogo: l’inter-essere
Backtin crea il concetto di polifonia e ad anche di immaginazione dialogica, criticando la centralità logico-verbale e suggerendo una de-centralizzazione in favore delle altre forme espressive che possono costituire il dialogo (Bachtin, Holquist, 1981). Martin Buber sottolinea l’importanza di imparare la filosofia del dialogo, pilastro principale per un’idea di comunità e di costruzione di un nuovo tipo di relazioni sociali. La definisce “dialogica” o del rapporto Io-Tu. L’uomo è, dunque, un essere di relazioni e capace di relazioni multiple, che possono, però, essere ridotte essenzialmente a due atteggiamenti esternati da due parole principio: io-tu e tu-io. Buber è interessato al mondo come correlato a questo tipo di relazioni. Il dialogo assume, quindi, un carattere più esistenziale (Buber, 2014).
In Bruner il dialogo assume caratteri narrativo-cognitivi (Bruner, J., 1997). Per Paulo Freire il dialogo è una necessità esistenziale e la base per un’educazione critica e di emancipazione delle classi oppresse (Freire, 2006). Augusto Boal reinventa il dialogo nel campo teatrale ampliando forme comunicative e di relazione nell’ambito non-verbale in difesa dei gruppi socialmente esclusi e oppressi (Boal, 2005). Danilo Dolci, nella sua riflessione sulla maieutica reciproca, ispira la creazione di idee e coscienza sociale nel contesto narrativo-popolare (Dolci, 2014). Queste esperienze ci dicono che la comunicazione non è sufficiente per il dialogo: non basta la parola. Bisogna creare le condizioni per la trasformazione sociale e praticarle. In questo processo il dialogo assume un significato più autentico.
Il dialogo vive tra “esseri di relazione”. Le relazioni sono complesse. In realtà il dialogo prepara il terreno per trasformare e trasformarci, insieme agli altri. Reciprocamente. Nell’egoismo, la competitività, l’individualismo e la sopraffazione è molto difficile che si realizzi. Quasi impossibile. Tuttavia è possibile superare queste condizioni perché il dialogo (a volte anche silenzioso) può muovere verso l’azione. Il dialogo è il tempo, la pazienza di saper aspettare per agire. È come tessere insieme. Essere tra le tessiture. Inter-essere. Il dialogo, pur potendo tessere uno spazio infinito, ha ancora poco respiro nei luoghi dell’educazione formale e nelle università. Tuttavia questo spazio, questo luogo esiste ed è possibile. È il luogo dell’utopia che lo stesso dialogo può occupare, ampliare, estendere, ridisegnare, reinventare, tessendo trame inedite del nostro pensiero e della nostra avventura.
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