Naturae, portato in scena da Armando Punzo e dagli attori della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra, è un inno alla vita, un grido contro la guerra, un frutto del bisogno di omaggiare la Terra e gli ecosistemi. Ma è anche una strada da percorrere al più presto per moltiplicare le alternative alla violenza del carcere e un invito a ricominciare a sognare insieme
Stare immobili nella concentrazione sentendo una corsa interiore che scompiglia i pori del corpo e della mente, lo sguardo fisso sull’ipnosi del palco animato di umani, simboli, colori e geometrie. Forse è questo l’effetto puro dell’arte: un’estasi della partecipazione. E a teatro, Armando Punzo e gli attori della Compagnia della Fortezza del carcere di Volterra rendono lo spettatore «un corpo fluido capace di espandersi, all’esterno e all’interno… perdere i contorni…», come sussurra il drammaturgo nell’accompagnamento audio allo spettacolo, mentre sul palco la meraviglia si dipana in un climax che nella conclusione diviene un inno alla vita e alla diversità.
Ho visto Naturae al Piccolo di Milano giorni fa, e ancora mi attraversano le emozioni provate in un intreccio di temi tra arte, infanzia e carcere. Per scrivere su quest’opera di Punzo (Leone d’oro alla carriera alla Biennale Teatro 2023), mi appello alla poetessa Wislawa Szymborska: «Do tanto valore a questa breve frase: “Non lo so”. È solo una frasetta, ma vola su ali possenti. Espande le nostre vite, abbracciando gli spazi dentro di noi e le distese esteriori in cui il nostro piccolo pianeta fluttua sospeso» (da La prima frase è sempre la più difficile, Terre di Mezzo). Sia Szymborska sia Punzo parlano di “espansione”: a teatro con la Fortezza, lo spettatore ha la sensazione di diffondersi.
Che cosa io possa spiegare di Naturae, non lo so. È anche questo il dono dello spettacolo: spingere alla riflessione tramite il veicolo delle emozioni, per chiosare: «Chissà se è ciò che volevano dire». In fondo, che importa. Sollecitati dalla visione, dall’ascolto delle frasi lontane e chirurgiche di Punzo e della musica dal vivo di Andreino Salvadori, durante lo spettacolo il coinvolgimento emotivo e l’espansione del proprio essere sono tali da instillare una presunzione: io sono non solo pubblico, ma anche partecipe di quest’opera. Essa è lì sul palco, ma con la sua narrazione multi-sensoriale e non tradizionale mi attira a sé, mi accoglie e mi rende parte. Lo spettatore in poltroncina diviene come le cubiche gabbie bianche sul palco: basta che qualcuno le faccia muovere perché smettano di fermarsi. E il movimento invisibile tra attori e pubblico crea la magia dell’opera.
Naturae è un atto politico di affermazione dell’homo felix: dobbiamo guadagnarcelo – spiega Punzo – per evolvere dalla fase dell’homo sapiens. Si comprende presto che per raggiungere l’homo felix bisogna tornare ai sensi e alla sapienza dell’infanzia. Il palco è coperto di candore, con un tappeto di sale che Punzo lancia qui e là sugli attori e sulla scena. Che cos’è? Il valore delle cose preziose che dona vita (il sale un tempo indispensabile per conservare)? Chissà. E poi irrompe l’audio della vaga voce di Punzo, tagliente, dolce, mentre sul palco si affollano sempre più attori, artefatti simbolici e colori: «Occhi come scalpelli per cercare l’aria, l’acqua, il sospiro»; «le origini del sentire, si dice, che fu per amore»; «tutto quello che sta per nascere ora: questo è il mio mondo»; «voglio sentirla urlare in me questa vita»; «ancora non sei, e tutto puoi ancora essere»; «nel mondo, fuori dal mondo, ci è dato di sognare» (un’eco di Danilo Dolci?).
L’infanzia è forse omaggiata dall’opera in quei sorrisi costanti su tanti volti degli attori, a partire da Punzo, che mentre il pubblico ancora riempie la sala, prima dell’inizio ufficiale dello spettacolo, è già lì sul palco, solo, nero su una scenografia bianca a giocare danze con una sfera rossa (il fuoco di materia nella Terra?) per poi scendere a incunearsi tra le poltroncine, a ricordarci la rottura novecentesca della tradizione teatrale.
Il sorriso crea un legame tra attore e spettatore. E il sorriso – dice la scienza – è la prima cosa che un neonato riconosce. Come a dire (chissà): homo sapiens, per divenire felix innalza il sorriso.
C’è anche spaesamento. Lo spettatore si chiede se i sorrisi non siano in realtà ghigni, quasi come quelli mostruosi di Black hole sun dei Soundgarden. Il dubbio esplode quando a sorridere è anche (forse) un’impersonificazione del diavolo, in quell’attore tutto dipinto di rosso: un personaggio che all’interno di una scena radiosa disturba, inquieta. Fino a quando Punzo lo abbraccia in passi di valzer.
Qui si innesta un altro messaggio? Distanziamoci dai nostri costrutti culturali, così come un bambino («Ancora non sei, e tutto puoi ancora essere») è più libero di un adulto. Non pensare al diavolo, oppure pensalo come la vita che senza male non è. La meraviglia del mondo non smette di essere tale per la presenza del male. Liberiamoci dal sorriso usato come inganno nella furbizia appresa, e allora anche un diavolo può diventare amico.
Ho fatto esperienza di questo pensiero, nel teatro, con un ceffone di commozione, quella di noi che non abbiamo io senza il sentimento del noi, e un qui senza un dovunque: a un tratto, nell’estasi della meraviglia per ciò che sul palco avveniva, mi sono chiesto com’è possibile che l’umanità sia capace di tanta bellezza e, al contempo, della guerra. Ho pensato all’infanzia omaggiata in scena e a quella fatta a pezzi a Gaza.
Poi, tra il palco bianco e sul capo di un attore ai cui piedi stava una tinozza, Punzo ha versato macchie di vernice rossa, che hanno bagnato il sale. Un altro ceffone: il battesimo del sangue come parte della vita?
Lo Yin e lo Yang, il bene e il male, uno nell’altro e l’altro nell’uno. È tutto nei costumi simmetrici e nella simbologia interculturale della scena; è tutto nelle emozioni che essa dona. L’homo sapiens quando bandirà la guerra?
Si osserva lo spettacolo vivendo l’arte con sensazioni d’infanzia, mentre i corpi scolpiti e tatuati degli attori rimandano alla loro condizione carceraria (e ai suoi stereotipi). Che cosa faranno questi attori, mentre noi torneremo a casa? Che cosa provano là sul palco, a vederci paganti per loro? Sperimentano una condizione di libertà, momentanea ma piena?
Un attore, meno giovane rispetto a tanti altri e senza un corpo scolpito, entra in scena, si siede al limite del palco e rimane lì, sempre fermo, per lunghissimo tempo. Il suo volto immutabile non reca sorriso, ma il solco della malinconia. Come può, lo spettatore, non riflettere sulla condizione carceraria, su questi mondi a parte di cui ci accorgiamo quando arrivano le cronache delle rivolte e dei suicidi? Il sogno di Punzo di un teatro stabile aperto al pubblico, nel carcere di Volterra, diventerà realtà con il progetto dell’architetto Mario Cucinella: è anche l’arte a dirci che pene alternative sono possibili, oltreché promosse dalla Costituzione.
La scena conclusiva di Naturae, con la folla di attori ed enormi kimono issati su bastoni, è un inno alle culture, alla convivenza umana, un messaggio di pace e di ricerca della felicità. Dall’alto cade sale su un attore che gioisce, quel sale ormai pestato all’infinito sul palco. Sale della terra, sale del cielo (chissà). E lo spettatore, nel vortice di emozioni e di pensieri, arriva anche a questo: per evolverci in felix, dobbiamo tornare ad omaggiare la Terra e gli ecosistemi, con i riti dimenticati che sancivano i cicli delle stagioni, l’unione tra umanità e natura, la nostra dipendenza da essa.
Il pubblico alla fine applaude sino ad alzarsi in piedi, mentre gli attori mostrano un altro passaggio necessario per l’homo felix: in una danza alla Matisse, festeggiano correndo in cerchio, mano nella mano.
Armando Punzo dice
Grazie mille Daniele Ferro. Ho letto il suo articolo alla Compagnia che la ringrazia e la invita a venire a trovarci anche a Volterra.