Con la crisi dei partiti e della democrazia rappresentativa, movimenti, reti, comitati e associazioni sono la strada, non priva di problemi, attraverso la quale i cittadini si autorganizzano e si riappropriano della città. Uno sguardo su Roma (foto, protesta in strada contro lo sgombero di Scup a Roma, 25 gennaio 2013)
di Carlo Cellamare
1. L’evoluzione del protagonismo sociale
La presenza e la consistenza di comitati e associazioni locali, così come altre forme di protagonismo sociale, è un elemento fortemente caratterizzante la realtà romana, per alcuni versi molto più che in altre realtà, comprese altre capitali europee. Valga per tutti il confronto con la realtà parigina, dove pure comitati e associazioni stanno cominciando a diffondersi e dove, con un curioso ritardo rispetto ad altri contesti come quello romano, si sta parlando con sempre maggiore insistenza di ‘partecipazione’. A Roma, comitati, associazioni, reti sociali e altre forme organizzative hanno un forte radicamento locale e si attivano in maniera particolarmente significativa intorno ai problemi della città (oltre che a quelli ambientali), e soprattutto del proprio contesto di vita.[1] Tale ormai sono la significatività ed il peso nella vita pubblica della città di questi movimenti sociali che costituiscono interlocutori ineliminabili per l’amministrazione pubblica oltre che per i partiti, sebbene continuamente negletti e spesso relegati al di fuori di uno spazio pubblico di confronto e di discussione.
Qui sta forse l’elemento innovativo che li caratterizza. Movimenti, comitati e associazioni non rappresentano infatti una novità nel panorama politico e sociale romano (così come in molte altre realtà italiane), ma è la loro diffusione, il loro peso e la loro capacità organizzativa e di azione a costituire l’elemento significativo ed innovativo.
In alcuni casi, come in quello dei Consorzi di Autorecupero, il coinvolgimento di tali organizzazioni è addirittura istituzionalizzato e diventano soggetti riconosciuti, interlocutori dell’amministrazione, responsabili delle azioni sul territorio. Questo comporta, d’altronde, notevoli ambiguità su cui si tornerà successivamente.
Il ruolo così rilevante del protagonismo sociale non necessariamente deve essere considerato un fatto positivo. Se, infatti, da una parte, è l’espressione di una cittadinanza attiva, di una capacità di autorappresentarsi e di autorganizzarsi e allo stesso tempo è la dimostrazione di grandi capacità organizzative e di competenze anche tecniche, dall’altra rappresenta per molti versi la necessità di riempire un vuoto duplice: un vuoto politico e un vuoto istituzionale. Un ‘vuoto istituzionale’ per la quasi totale assenza dell’amministrazione pubblica, sia in termini di presenza sui territori e di svolgimento dei servizi e delle funzioni cui è deputata, sia in termini di carenza di politiche e di prospettive strategiche che guidino le scelte. L’amministrazione non solo sembra sempre più in ritardo se non totalmente assente, espressione di quel crollo del welfare state da più parti sottolineato (e che a Roma non ha provato neanche le strade alternative, anche se sempre di stampo neoliberista, dell’attivazione del terzo settore e del privato sociale), ma sembra spesso convergere su interessi privati o comunque ‘altri’, tanto da diventare in maniera sempre più diffusa il ‘nemico numero uno’ con cui si confrontano comitati, associazioni locali e movimenti. Il confine tra interesse pubblico e interesse privato diventa sempre più ambiguo ed evanescente,[2] anzi spesso non si distingue più tra l’interesse di alcuni operatori (soprattutto immobiliaristi, costruttori, investitori finanziari, ecc.) e gli obiettivi dell’amministrazione, in una continua negoziazione al ribasso cui si piega il soggetto pubblico. D’altronde ci confrontiamo anche con un ‘vuoto politico’, legato al fatto che è venuta meno la presenza dei partiti sui territori, la loro capacità di rappresentanza di tali realtà, ma anche la loro capacità di dare rappresentazione dei problemi sociali emergenti e delle esigenze dei territori, individuando politiche adeguate che non siano semplicemente succubi del capitalismo neoliberista. Se è vero che comitati, associazioni locali e movimenti non sono tutti di centro-sinistra, lo sono sicuramente per la maggior parte. Questo ‘vuoto politico’ è quindi soprattutto un vuoto politico del centro-sinistra, tant’è vero che i consiglieri municipali e comunali di quell’area politica spesso non riescono neanche a diventare interlocutori dei movimenti sociali e delle forme di autorganizzazione. Semplicemente rimangono o si tengono fuori.
D’altronde sono state le amministrazioni di centro-sinistra a deludere per prime le aspettative dei comitati e dei movimenti sociali, operando progressivamente quel distanziamento delle istituzioni dai cittadini (mentre i primi anni del centro-sinistra erano andati in una direzione opposta e avevano fatto sperare in un cambiamento radicale e permanente di rotta, sull’onda di quanto avveniva in tutta Italia dopo l’introduzione dell’elezione diretta del Sindaco e dopo ‘Manipulite’) e viceversa quell’avvicinamento (se non collusione) della politica agli interessi dei grandi operatori economici privati, anche mascherato dallo sbandierato aumento del Pil, che ha portato ad una ‘modernizzazione senza modernità’ e alle critiche che, anche se a fatica, sono emerse nei confronti del ‘modello Roma’.[3]
Una delle più grandi delusioni, che si è rivelata anche controproducente, è stata la questione della ‘partecipazione’, ed in particolare la cristallizzazione ed il depotenziamento che se ne è avuta con l’approvazione del ‘Regolamento sulla partecipazione’. Da apertura verso la cittadinanza e verso la costruzione di uno spazio comune di discussione e costruzione delle politiche (che aveva effettivamente caratterizzato la prima fase delle giunte di centro-sinistra negli anni ’90) si è poi tradotta in una operazione di facciata, di costruzione del consenso, di mediazione degli interessi, al più di consultazione, che nulla ha a che vedere con la democratizzazione delle istituzioni e della politica. Attualmente comitati, associazioni e movimenti vedono la ‘partecipazione’ come il fumo negli occhi. In forza della proceduralizzazione della ‘partecipazione’ e del suo totale depotenziamento, la giunta Alemanno può oggi affermare di essere l’amministrazione che ha fatto più ‘partecipazione’. La declinazione deteriore che ne ha dato, l’ha infine trasformata in una sorta di ‘clientelismo’ nei rapporti con associazioni e comitati locali, a favore della costituzione e dello sviluppo di quelle organizzazioni che sostenessero la giunta, trappola in cui sono cadute anche alcune realtà associative di centro-sinistra. Al più oggi il ‘Regolamento della partecipazione’ viene utilizzato come strumento per ‘mettere i bastoni tra le ruote’ all’amministrazione comunale.
D’altronde i movimenti urbani oggi a Roma non hanno certo più il carattere di quelli degli anni ’60 e ’70 che tanto hanno segnato la storia di questa città. Quelli erano movimenti socialmente molto diffusi e che si radicavano in problemi molto profondi, in bisogni essenziali, in primo luogo quello della casa. Ma c’era anche il problema del lavoro e i diversi movimenti (per la casa, per il lavoro, per la riqualificazione delle periferie, ecc.) si appoggiavano gli uni agli altri; e trovavano nell’allora Partito Comunista un supporto ideologico e materiale fondamentale, in parte rimanendone anche strumentalizzati. Ora le condizioni sono radicalmente cambiate ed il benessere sociale diffuso riduce la conflittualità sui problemi profondi che rimangono legati a gruppi più ristretti della popolazione (sebbene rimangano problemi gravissimi) che non riescono spesso a trovare alleati nella loro lotta, come avviene ad esempio per i movimenti di lotta per la casa.
I comitati e le associazioni locali risultano più rappresentativi piuttosto di un ‘ceto medio’ che, stando in una condizione di sostanziale benessere, chiede la vivibilità, e quindi la riqualificazione, dei propri quartieri.
Cambia anche il modo con cui si esprimono i conflitti urbani.[4] Da una parte, a differenza dei movimenti urbani degli anni ’60 e ’70, abbiamo una frammentazione ed una molecolarizzazione del conflitto che si depotenzia, perde la sua carica dirompente e, in parte, si de-politicizza. In alcuni casi, infatti, soprattutto nei quartieri della più recente periferia della ‘città del mercato’, la protesta e le rivendicazioni sono assorbite dalla richiesta di raggiungimento di un upgrade sociale e non mettono in discussione il modello di sviluppo urbano implicito (se non nelle persone più avvedute e sensibili). Dall’altra parte, anche se portato avanti da un gruppo più ristretto di persone, evidentemente più motivato e più dotato di risorse (di tempo, di energie, di capacità organizzative e tecniche, ecc.), il conflitto può invece portare allo sviluppo di processi complessi e all’elaborazione di politiche molto articolate ed approfondite. Ne è un ottimo esempio la costituzione del coordinamento tra i comitati del IV Municipio che si sono opposti (peraltro con successo) al prolungamento della metro B1 da Jonio a Bufalotta e che hanno prodotto un ampio documento che non è solo un documento di osservazioni tecniche, ma anche di proposta politica.[5]
2. I Consorzi di autorecupero e l’‘urbanistica condominiale’
I Consorzi di autorecupero rappresentano un’esperienza particolarmente significativa a Roma, quanto particolarmente ambigua e problematica.[6] Nati per rispondere, nelle aree abusive ed ex-abusive (zone O e ‘toponimi’), al recupero delle aree degradate, ed in particolare alla realizzazione delle opere (le cosiddette ‘opere a scomputo’ degli oneri concessori) di urbanizzazione primaria, e in parte secondaria, di fatto hanno sostituito l’amministrazione nella gestione ordinaria di quelle aree, in un rapporto difficile e incerto. La loro diffusione è estremamente ampia, così come estremamente ampio è il carattere dell’abusivismo in una città come Roma. L’amministrazione capitolina ha affermato per lungo tempo che si trattasse di un’esperienza importante di partecipazione, di urbanistica partecipata. In realtà, si tratta per lo più di ‘amministrazione partecipata’, se non ‘delegata’, ovvero scaricata sulle realtà locali. In questo modo, i Consorzi di autorecupero diventano piccoli centri di potere, a livello locale e subalterno, non solo per la circolazione locale di finanziamenti e di appalti di lavori (che, seppure limitati e locali, sono comunque consistenti), ma soprattutto perché sono diventati il riferimento per una molteplicità di decisioni e per i rapporti con l’amministrazione pubblica. Agenzie di intermediazione con il soggetto pubblico, diventano per alcuni il trampolino di lancio per una carriera politica di livello locale, municipale, o semplicemente per l’assunzione di un ruolo di visibilità. Alcuni di questi Consorzi, in realtà, sono gestiti in maniera molto intelligente, con il coinvolgimento degli aderenti, e con un ruolo dirigente dei presidenti efficace e costruttivo, ma questo dipende molto appunto dai presidenti e dai principali responsabili, dalle loro storie personali, dalla loro capacità di costruire e mantenere i rapporti con le persone, di operare in maniera democratica. D’altronde le assemblee dei Consorzi più che essere un luogo di discussione costruttiva e di definizione di un interesse collettivo, sono il luogo della mediazione degli interessi privati; assomigliano per lo più ad assemblee condominiali. Ed, in effetti, l’esito dell’esperienza dei Consorzi di autorecupero sembra prefigurare uno sviluppo verso un’‘urbanistica condominiale’, che peraltro alcuni consulenti del centro-sinistra sembrano addirittura sostenere positivamente, ma che in realtà cela ovviamente una degenerazione difficilmente colmabile. Ancor più ambiguo e problematico il ruolo del CRP – Consorzio Recupero Periferie e dell’Unione Borgate (e di altri soggetti similari) che, svolgendo un ruolo di coordinamento e di supporto tecnico ai consorzi di autorecupero, sono andati a costituire un ulteriore soggetto intermedio, un’agenzia di intermediazione con l’amministrazione capitolina ancora più forte, questo sì un centro di potere, con importanti interessi economici a livello cittadino. D’altronde l’abusivismo può essere considerato un sistema politico ed economico di sviluppo della città, probabilmente quello più rilevante.
3. Comitati ed associazioni locali. Reti sociali e coordinamenti
La presenza di comitati ed associazioni locali è estremamente diffusa in tutti i territori e in tutti i quartieri della Capitale. E’ uno dei fenomeni più rappresentativi, e non fa differenza tra quartieri benestanti e quartieri poveri o degradati, tra quartieri pubblici e privati, o tra colorazioni politiche, sebbene quella di centro-sinistra è sicuramente la più consistente. Le posizioni non sono necessariamente ‘progressiste’, non mancano ad esempio i comitati contro gli insediamenti rom. Il Censis (2012) rileva che il 45% dei romani è iscritto o partecipa alle iniziative di varie associazioni (sportive, ambientaliste, culturali, ecc.) presenti in modo capillare sul territorio,[7] e che il 25% è direttamente coinvolto nella soluzione dei problemi del quartiere.[8] D’altronde l’associazionismo di quartiere ha una lunga tradizione storica a Roma, sebbene oggi abbia una natura molto differente. Non ha più carattere di mobilitazione sociale, spesso connotata ideologicamente e politicamente, e di rapporto profondo con il proprio territorio di cui era una sorta di rappresentanza (come nei vecchi Comitati di Quartiere o di Borgata), quanto assume il carattere di gruppo di azione, esprimendo d’altra parte uno sviluppo di competenze e di capacità di organizzazione prima impensabili. Basta pensare alle competenze tecniche (nel campo dell’ingegneria e dei trasporti, della giurisprudenza e delle norme civili, ecc.) sviluppate dai Comitati NoPup, alla capacità di coinvolgere esperti, alla capacità di elaborare documenti complessi e di alto contenuto tecnico e politico (come nella battaglia del coordinamento dei comitati del IV Municipio contro il prolungamento della metro B1 da Jonio a Bufalotta), alla capacità di gestire l’informazione ed essere strumento di informazione (pensiamo a TgTalenti). E’ emblematico il convegno organizzato nel gennaio 2013, presso la Casa dell’Architettura, dal Coordinamento romano per l’uso pubblico delle caserme, che ha rappresentato una dimostrazione di forza e di competenza da parte di un’organizzazione del tutto informale, in opposizione al Comune, e per alcuni versi anche ‘irregolare’: coinvolgimento di tante realtà sociali differenti (comprese realtà di occupazione), coinvolgimento delle università in un lavoro di progettazione di ampio respiro, la realizzazione di una mostra e la preparazione di materiali, presentazioni di alto profilo, l’essere ospitati all’interno di un’istituzione come l’Ordine degli Architetti, l’altissima adesione e l’affollata presenza.
Accanto al permanere di vecchie modalità di azione (come l’azione di lobby o il rivolgersi ai politici di turno – anche se molto odiati – per ottenere interrogazioni parlamentari o altre azioni di supporto), cambiano però anche i modi dell’azione: dalla ‘pubblicità negativa’ (di grande efficacia) contro l’operazione immobiliare dei Quartieri Rinascimento a Casal Boccone all’uso degli strumenti legali, dalla realizzazione di siti informativi all’uso intensivo della stampa e degli strumenti di comunicazione, dall’uso strumentale del ‘Regolamento della partecipazione’ al coordinamento di soggetti diversi. E’ quest’ultimo uno degli elementi innovativi e di maggiore diffusione: accanto a diverse reti sociali si diffondono i coordinamenti o per settori urbani (il coordinamento del centro storico o dei comitati del IV Municipio; le comunità territoriali, come quella del X Municipio; ecc.) o al livello dell’intera realtà cittadina (il Coordinamento dei comitati NoPup; la Rete Romana di Mutuo Soccorso, ecc.). Sono queste ultime, a livello cittadino, realtà più difficili che raramente riescono a superare la ‘somma delle vertenze locali’. Carteinregola, uno degli ultimi coordinamenti formatisi a Roma, che deriva dall’esperienza del coordinamento Comitati NoPup e dalla contaminazione con l’esperienza della Rete Romana di Mutuo Soccorso (che aveva un esplicito obiettivo politico, ma che non esprimeva una leadership forte), rinuncia intenzionalmente ad un obiettivo strettamente politico e si concentra piuttosto su un’azione di supporto (tecnico, informativo, comunicativo, ecc.) per rafforzare l’azione politica del sociale senza costruire un partito o uno ‘spazio pubblico’.
Il tema della costruzione dell’informazione in forma autonoma e prodotta dal basso è diventato recentemente centrale per i movimenti urbani; in termini sia di osservatorio sulle situazioni problematiche, sia di diffusione della conoscenza di esperienze interessanti ed innovative e tramite questo di costruzione di reti collaborative, sia di diffusione di una conoscenza e di un sapere critico, sia per la divulgazione di contributi formativi, ecc.. In questo senso va la recente ed estremamente interessante esperienza del network informativo autorganizzato online di Comune-info.
4. L’autorganizzazione e la ri-appropriazione della città
Roma, d’altronde, è attraversata da una molteplicità di iniziative che, bypassando spesso un rapporto di negoziazione o di rivendicazione con l’amministrazione, attivano forme di autorganizzazione e si appropriano di spazi e luoghi della città. Ne sono un esempio gli orti urbani, che hanno avuto un’ampia diffusione, ma anche i giardini condivisi, aree verdi autogestite che si stanno diffondendo sempre più (via dei Galli a San Lorenzo; Mandrione; giardino di via Castruccio Castracane a Pigneto; ecc.), così come spazi pubblici, aree sportive o attrezzate autocostruite (Saxa Rubra), impianti di produzione dell’energia (Cerquette Grandi), sistemi di difesa spondale (Idroscalo di Ostia), ecc.. Nate con diverse motivazioni (compresa, per gli orti urbani, anche quella produttiva e di produzione di un reddito), queste esperienze rispondono ad una carenza, se non a un’assenza dell’amministrazione (e in questo svolgono funzioni di supplenza che potrebbero essere criticabili), ma dall’altra esprimono il desiderio forte di ri-appropriarsi della città anche al di fuori della sfera istituzionale, formale e legale. In questo caso, i processi di ri-appropriazione hanno un senso profondo e si configurano come processi di produzione di significato. Essi, spesso “illegali”, ma che al contempo rappresentano una forma di responsabilizzazione verso il proprio contesto di vita rispetto al quale attivano processi di cura (re-imettendo tali luoghi nel circuito di vita della città, costituendoli come beni comuni), mettono in discussione proprio quella dimensione ‘legale/illegale’, rispetto ad una dimensione ‘lecito/illecito’ che rimanda invece alle forme condivise di convivenza. E’ proprio in questi processi che abbiamo una forte produzione di ‘pubblico’.
Alle forme di autorganizzazione vanno associate anche quelle modalità di collaborazione, che si radicano nella socialità continuamente cercata in tutti i territori, compresi quelli della periferia più degradata o della nuova periferia più estraniante, come i gruppi di madri (in alcuni casi organizzate in associazioni) che si occupano della gestione dei figli in età scolare.
5. Le occupazioni a scopo abitativo e dei luoghi di produzione culturale
A Roma si sono diffuse, ormai da alcuni anni, le occupazioni a scopo abitativo come risposta concreta ad un problema, quello della casa, che rimane paradossalmente rilevante in una città che, oltre ad essere la capitale di un Paese occidentale ricco, ha registrato negli ultimi quindici anni un boom edilizio (speculativo) e presenta una grande quantità di immobili invenduti.[9] Oltre alla risposta ad una necessità, le occupazioni a scopo abitativo costituiscono un’importante esperienza di convivenza delle diversità ed un luogo di elaborazione politica di tutto rispetto.[10] Sostenute dai movimenti di lotta per la casa (Action, Comitati di lotta per la casa, Blocchi Precari Metropolitani), che svolgono anche una rigida funzione di coordinamento e di organizzazione, sviluppano un’importante elaborazione politica (che non è solamente ideologica), a partire dalla discussione sul ‘diritto alla città’; che significa anche una rielaborazione di quello che significa oggi ‘cittadinanza’ (e quello che per gli occupanti significa ‘essere cittadini’).
Più recentemente, le occupazioni si sono rivolte ai luoghi di produzione culturale, cinema e teatri – soprattutto – abbandonati o in via di dismissione (ed eventualmente da sottoporre a speculazione edilizia). Iniziate con il Cinema Palazzo a San Lorenzo, la maggior risonanza si è avuta con l’occupazione del Teatro Valle, che – forte del respiro nazionale e del sostegno autorevole di tantissimi personaggi – ha dato il via ad una catena di occupazioni di luoghi di questo tipo in tutta Italia e anche all’estero. Qui si tocca il tema della cultura, il nodo fondante della convivenza e dell’essere una civiltà. In queste esperienze il rapporto con la città è fondamentale, ma costituiscono un motivo di particolare interesse perché – a partire dal tema della cultura – hanno avviato intenzionalmente un processo di elaborazione culturale e politica che va al di là del singolo contesto locale.[11]
6. La capacità di costruire politica
La grande diffusione di comitati, associazioni, movimenti e loro coordinamenti ci interrogano sulla loro capacità non solo di coordinare un’azione comune e incisiva, ma anche sulla loro capacità di costruire una politica, di elevarsi oltre il livello della ‘somma delle vertenze locali’ per sviluppare una politica a livello cittadino. Abbiamo visto quanto questo sia difficile. Le recenti esperienze che hanno mirato alla definizione di un coordinamento politico (ed eventualmente alla costituzione di una lista promossa e sostenuta dalla società civile) in vista delle elezioni amministrative a Roma sono fallite. Non si tratta soltanto di un problema di incapacità di azione coordinata, e quindi della capacità di superare le differenze e di trovare gli strumenti di un’azione collettiva che superi il livello locale. Ci troviamo davanti alla situazione in cui diversi soggetti sono capaci di costruire politiche, anche molto intelligenti e raffinate, così come ottime soluzioni ai problemi che esprime la città, ma non sono nelle condizioni di costruire una ‘politica’, una visione coordinata e organica delle prospettive complessive della città secondo un sistema di valori e di ideologie, che si possa affermare all’interno di una dimensione pubblica (di uno ‘spazio pubblico’), così come non sono nelle condizioni di costruire un soggetto politico organico: ‘politiche’ senza ‘politica’; un ‘politico’ fortemente espresso dal ‘sociale’ senza un ‘soggetto politico’.
Se una volta erano i partiti a svolgere queste funzioni, ora questi non esistono più o risultano deludenti, così come le relative amministrazioni che esprimono (che rappresentano altrettanti muri di gomma). Se non sembra avere molto senso tornare alla concezione dello stato moderno (l’istituzione territoriale che si governa attraverso la rappresentanza), il protagonismo sociale si trova a fronteggiare un doppio problema. E’ necessaria cioè un’operazione di ricostruzione sia rispetto agli agenti della rappresentanza e ai corpi intermedi (sostitutivi dei partiti) sia rispetto ad uno spazio pubblico ormai dissolto dove si possa portare il confronto ed eventualmente il conflitto. Un’operazione troppo impegnativa, per ora, cui i soggetti del sociale o del protagonismo sociale, almeno a Roma, non riescono a trovare una soluzione efficace.
Queste tensioni però esprimono un conflitto interessante, carico di significati e di potenzialità. Dove forse è interessante forzare la non adeguatezza delle istituzioni stesse, andando alla radice dei problemi e dando forza alla dimensione del radicamento sociale e del rapporto con i territori, delle capacità di appropriazione della città e dell’autorganizzazione, come condizioni di possibilità per lo sviluppo di nuove forme di democrazia.[12]
Note
1. Si rimanda anche all’interessante lavoro di Francesco Erbani, «Il paesaggio dal basso. Comitati e impegno civile», relazione alla Fondazione Benetton, Treviso, 2013. E’ in corso di pubblicazione un suo libro, Francesco Erbani, Roma. Il tramonto della città pubblica, Roma-Bari, Laterza, con approfondimenti sui comitati, che diventano protagonisti nel racconto che nel libro si fa della Roma di questi anni.
2. Carlo Cellamare, Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Roma, Carocci, 2011.
3. AA.VV., Modello Roma. L’ambigua modernità, Roma, Odradek, 2007.
4. Una interessante e aggiornata discussione sulla questione è contenuta nel numero monografico della rivista outlet diretta da Massimo Ilardi: AA. VV. (2012), Outlet. Conflitti, vol. 2/2012, Roma, Queer
5. La situazione è illustrata più ampiamente in Carlo Cellamare, «Conflitti urbani e progetto locale», 2012, in Giovanni Attili e Enzo Scandurra, Pratiche di trasformazione dell’urbano, Milano, Franco Angeli, in corso di pubblicazione.
6. Per una illustrazione più ampia e un ragionamento più completo si rimanda a Carlo Cellamare, «Politiche e processi dell’abitare nella città abusiva/informale romana», in Archivio di studi urbani e regionali, vol. 97-98, Milano, Franco Angeli, p. 145-16.
7. All’interno di una dimensione del volontariato informale o organizzato che coinvolge (regolarmente o saltuariamente) 470 mila romani. CENSIS, Rapporto sulla coesione comunitaria nei territori di Roma Capitale, Roma, 2012.
8. “La comunità romana è tenuta insieme da famiglie e reti informali. La prossimità territoriale conta meno, ma guai a cedere a visioni riduttive dei quartieri, anche periferici, perché ovunque in città, periferie incluse, esiste una fitta rete di relazioni sul territorio. Il vicinato è considerato dal 30% dei romani una forma di comunità dove ci si conosce, frequenta ed eventualmente aiuta. Il quartiere è per molti uno spazio di relazioni importante, visto che il 36% dei romani dichiara di partecipare ad attività ed eventi che si realizzano nei territori, il 32% svolge gran parte delle relazioni sociali in piazza o al bar” (Censis, 2012).
9. Sofia Sebastianelli, Abitare la comunità, tesi di dottorato in Culture e trasformazione della città e del territorio, Università Roma Tre, 2009.
10. Margherita Pisano, «Ri-abitare la città. Sottrazione, re-invenzione, auto-organizzazione», in Carlo Cellamare, Progettualità dell’agire urbano. Processi e pratiche urbane, Roma, Carocci, 2011
11. AA.VV., Teatro Valle occupato. La rivolta culturale dei beni comuni, Roma, Derive Approdi, 2012.
12. David Graeber, There never was a West: or, Democracy emerges from the spaces in between, AK Press, USA, 2007 (trad. It.: Critica della democrazia occidentale. Nuovi movimenti, crisi dello Stato, democrazia diretta, Elèuthera, Milano, 2012)
Articolo pubblicato anche sulla rivista La critica sociologica, con il titolo «Il protagonismo sociale intorno alle questioni urbane a Roma e la produzione di politica».
Carlo Cellamare è docente di urbanistica alla facoltà di Ingegneria dell’Università La Sapienza. Svolge attività di ricerca sui processi di progettazione urbana e territoriale e sulla partecipazione (con particolare attenzioni alle trasformazioni dei quartieri e alle politiche urbane per le periferie). Tra le sue pubblicazioni: Culture e progetto del territorio (Franco Angeli, 1999), Labirinti della città contemporanea (a cura di, Meltemi, 2001), Fare città. Pratiche urbane e storie di luoghi (Elèuthera, 2008). Ha aderito alla campagna Nome comune di persone; altri articoli scritti per Comune-info sono QUI.
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I temi di questo articolo sono al centro del seminario «Nuovi spazi di cittadinanza. Pratiche e beni comuni nella città» del 20 marzo (ore 14) al Valle occupato. Intervengono Bruno Amoroso, Giancarlo Paba, Ugo Rossi, Teatro Valle, Nuovo Cinema Palazzo e Cinema America occupato.