Mio padre è palestinese, mia madre della provincia di Napoli, città dove i miei genitori si sono conosciuti durante gli anni universitari. Papà è nato nel campo profughi di Irbid, a nord della Giordania, dove la famiglia aveva dovuto stabilirsi all’indomani della Nakba del 1948. Laila fa parte del collettivo dei Giovani Palestinesi in Italia, è laureata in “Scienze internazionali e istituzioni europee” e in “Near and Middle Eastern Studies”. Lavora per l’European Legal Support Center, che si occupa di sostegno legale e campagne di advocacy per i palestinesi in Europa. “Sì, sono cresciuta con questa fame di giustizia”, spiega in questa densa, lunga e bella intervista, dove si racconta e si esprime con competenza e profondità sulla diaspora, l’attualità e alcuni dei grandi nodi essenziali della questione palestinese. Noi che non viviamo lì, precisa ancora Laila, mostrando profondo rispetto e grande saggezza nel pronunciarsi su quanto accade, non abbiamo titolo per giudicare quel che decide il popolo palestinese che lì vive oppresso, né i mezzi con i quali lotta per conseguire la sua liberazione. A maggior ragione, però, aggiunge, questo discorso dovrebbe valere per l’Occidente tutto coi suoi leader politici, media e analisti: con quale presunzione essi possono arrogarsi il diritto di poter scegliere quale sia il mezzo migliore per la liberazione di un intero popolo?
Mentre scriviamo queste righe, vengono documentati primi tentativi di incursioni via terra a Gaza da parte dell’esercito israeliano. Gli appelli al cessate il fuoco, a tregue per consentire minimi soccorsi umanitari, alla de-escalation continuano a restare crudelmente inascoltati. Oltre 10mila tonnellate di bombe sono cadute dal 7 ottobre sulla martoriata Striscia, precedendo quelle lugubri operazioni cosiddette booth on the ground, destinate a spingere la catastrofe nell’abisso.
Fonti ufficiali riportano il raggiungimento delle 7mila vittime civili palestinesi accertate, in gran parte bambini e donne. Si parla, inoltre, di migliaia di corpi non estraibili dalle macerie in una Gaza teatro dell’orrore. Sono le statistiche, purtroppo in costante evoluzione, di un massacro genocida.
Articolatissima è la serie di fattori più o meno collaterali che insistono su questo tragico esito. Di intensità, se si vuole, variabili ma, in definitiva, convergenti. A partire dall’adunata dei potenti del mondo in disciplinata coda per la passerella a Tel Aviv, a sostegno del “diritto all’auto-difesa” di Israele e ben consapevoli della ferocia militare che si sarebbe dispiegata. Proseguendo con l’opera della claque mediatica, incessante nel propagare il mantra di Netanyahu che ripropone al pianeta il macabro scontro tra moderna civiltà, già esportatrice di democrazia, e barbarie riassunto nell’analfabeta equazione Hamas=Isis: operazione atta a eliminare quasi un secolo di dolorosi eventi patiti dai palestinesi a vantaggio di un ipocrita quanto riduttivo scenario Israele contro Hamas.
È l’impostazione che ha fatto molti proseliti tra quanti, con profonda disonestà intellettuale, hanno portato le lancette della Storia a marcare il tempo con un nuovo inizio, datato 7 ottobre, cancellando decenni di stermini, espulsioni, oppressione, occupazione militare e apartheid. E poi i neo-competenti in materia, molti rimasti disoccupati dopo la chiusura delle aule di virologia dalle quali ci hanno reso edotti sul Covid, ora cimentati in ridicoli balbettii sul conflitto. Leoni da tastiera, ma anche noti opinion maker, che utilizzano le fattispecie di aggressore-aggredito secondo le proprietà fisiche proprie di una porta girevole. Noti fascisti e nazisti antisemiti riscopertisi convinti sionisti, chissà perché. Politici nostrani (e non solo) che fino alla breccia nel recinto colonialista si sono vantati del loro dire “qualcosa di sinistra” a patto che la resistenza palestinese restasse sotto anestesia e non mettesse a repentaglio il comodo privilegio della poltrona. Ma anche le voci di non poche organizzazioni sedicenti filopalestinesi, confuse sul piano teorico, riscoprendosi più inclini al caritatevole assistenzialismo che non alla difesa dei valori cardine della resistenza. In particolare, restando sgomente per quell’improvviso, ancorché momentaneo, spezzare le catene compromettente lo status quo post-Oslo che, bene o male, tra un eccidio e l’altro, tra un arresto di massa e l’altro, in mezzo a soprusi e violenze di ogni genere, un certo tirare avanti avrebbe continuato a permetterlo.
La lista continuerebbe, lunga. Il vero problema è che da almeno tre decenni la questione palestinese era stata consegnata all’irrilevanza da cancellerie e redazioni, quindi pressoché sparita dal discorso pubblico nel mondo avanzato.
Una cosa è certa, però: la speranza di veder riconosciuto quel sacrosanto diritto sancito del ritorno alle proprie terre da cui sono stati espulsi, non si è mai spenta nel cuore e nella mente dei palestinesi in diaspora. La loro voce è quanto di più autentico possa esserci nel tentativo di comprendere il livello di sofferenza del loro popolo. Ed è una voce messa all’angolo, stigmatizzata, sabotata. Non soltanto da mainstream e regime che, per biechi calcoli e interessi, l’accusano di essere portatrice di un pericolo eversivo ma anche da laici progressisti e moderati che preferiscono tenerla a distanza di sicurezza rifugiandosi in un orientalismo inetto e snob, tutt’al più fine a se stesso. Piaccia o meno, non di rado disallineata dal sentire più diffuso, la voce dei palestinesi presenti e attivi in Italia ha, a pieno titolo, diritto di essere ascoltata. Senza filtri interpretativi, nel rispetto della genuinità di cui è intrisa. Specie se proveniente dall’iniziativa di giovani generazioni ammirevoli per come hanno assimilato, ereditandoli, i valori di resistenza, giustizia e riconquistata libertà.
Anche le piazze del nostro Paese, al pari di quelle delle grandi capitali europee, tornano a esprimere forte dissonanza con la narrazione generale, unilaterale e parziale, impostasi in questo periodo. “Il 7 ottobre, il popolo palestinese, ha ricordato al mondo di esistere, ha dimostrato che sono ancora i popoli a scrivere la storia” recita il comunicato che ha indetto la manifestazione nazionale del 28 ottobre a Roma. I Giovani Palestinesi d’Italia sono tra i più attivi sostenitori dell’iniziativa. Da molti accusati di adottare linguaggio e modalità anche estremi, in loro risiede e si avverte il dolore e la ribellione per quanto accade a Gaza e in Cisgiordania. È un bene per tutti, proprio tutti, ascoltarne voce e ragioni.
Abbiamo dialogato con Laila, esponente del collettivo dei Giovani Palestinesi, in possesso della laurea in “Scienze internazionali e istituzioni europee” e di quella in “Near and Middle Eastern Studies”.
Laila, mi parli del tuo legame con la Palestina, delle tue origini familiari?
Mio padre è palestinese, mia madre della provincia di Napoli, città dove i miei genitori si sono conosciuti durante gli anni universitari. Papà è nato nel campo profughi di Irbid, a nord della Giordania, dove la famiglia aveva dovuto stabilirsi all’indomani della Nakba del 1948. La famiglia di mio nonno infatti venne messa in fuga da Haifa e lungo la via dell’esilio nonno conobbe nonna che proveniva da un villaggio contadino nei pressi di Jenin in Cisgiordania. I fratelli maggiori di papà sono nati a Jenin ma anche da lì, nel 1967, a causa dell’occupazione della Cisgiordania, tutta la famiglia fu costretta a trasferirsi in Giordania.
È evidente come una simile storia sia stata centrale nella tua crescita ed educazione. Da questo racconto, dal dialogo con tuo padre, hai acquisito stimoli e valori collegati alla lotta per una Palestina libera…
Mio padre ha vissuto la sua condizione da palestinese in esilio e l’esperienza della mia famiglia è molto legata a tutte le tragedie del popolo palestinese quelle del 1948 e del 1967, come spiegavo, in una condizione tuttavia di permanente speranza che il diritto al ritorno nei luoghi d’origine venisse applicato. Sì, sono cresciuta con questa fame di giustizia.
Oltre al tuo importante contributo nel collettivo dei Giovani Palestinesi d’Italia, di cosa ti occupi?
Dopo il mio percorso di studi, lavoro per l’European Legal Support Center dove ci occupiamo di supporto legale e campagne di advocacy per i palestinesi in Europa. Nello specifico, mi occupo del settore di advocacy e comunicazione interno all’organizzazione. Insomma, la mia vita sia dal punto di vista professionale, sia da quello personale è interamente dedicata alla questione palestinese. È una condizione che mi rende molto felice per il contributo che posso offrire in merito e, al tempo stesso, fortemente impegnativa e impattante sul piano psicologico.
Come hai vissuto le prime informazioni che giungevano da Gaza al mattino presto del 7 ottobre?
Non posso negare, anche a seguito del confronto immediatamente avvenuto con miei coetanei, che quelle immagini dei bulldozer in azione perforanti la gabbia, la barriera di separazione finalmente divelta, hanno determinato un grande senso di entusiasmo. Eravamo quasi increduli di fronte a quelle immagini di rottura: un’immagine simbolica molto forte, un durissimo colpo inferto all’assedio. In qualche modo, si percepiva intensamente che quel desiderio di libertà del popolo di Gaza stesse trovando conferma in concrete possibilità di libertà. Di sicuro, un sentimento di forte entusiasmo, emozione anche di fronte a uno scenario quasi fantascientifico nel vedere quei deltaplani in azione: devo dire che, almeno all’inizio, nessuno di noi credeva fosse vero.
Naturalmente con il passare delle ore un posto nei pensieri lo ha preso anche la preoccupazione per le conseguenze di questa azione.
Sì, però il pensiero che andava maturando collettivamente, condiviso tra i componenti del collettivo dei Giovani che molto bene conoscono il contesto palestinese e quello di Gaza, era quello che sarebbe stato inimmaginabile la rottura di un assedio asfissiante con un semplice giro di chiave nella serratura della gabbia. È ovvio che, dopo un assedio di 16 anni col blocco di Gaza e con la brutalizzazione subita dalla popolazione palestinese per 75 anni, non includendo il periodo coloniale del mandato britannico precedente quello sionista israeliano, non poteva che manifestarsi veemente la reazione dovuta a una gigantesca esasperazione collettiva.
Nel mondo occidentale, è stata pressoché unanime la condanna per le violenze commesse.
Siamo stati raggiunti da tanti che ci chiedevano un parere a riguardo. Adesso, tutto il discorso ruota attorno al prendere le distanze da Hamas. Nessuno, tranne rarissime eccezioni, è in grado di fare i conti con quella violenza sistemica che ha colpito il popolo palestinese per tanti, troppi anni. E non si tiene nemmeno conto di come i palestinesi abbiano tentato tutti gli approcci possibili prima di una rottura così eclatante. Ci si è seduti ai tavoli della diplomazia internazionale, ed è ancora vivo in mio padre il ricordo di speranza rispetto al processo di pace avendo vissuto l’era OLP e militando in Fatah salvo poi osservare la stessa OLP che si trasformava in una macchina burocratica. Si sono provate innumerevoli mediazioni con gli israeliani, vi sono stati episodi decisi di protesta e lotta anche armata, insomma si è provato di tutto per richiamare l’attenzione su una soluzione possibile della questione. In pratica, non era rimasto più niente se non Hamas quale unica forza consistente, rappresentativa – lo dico non senza difficoltà – della resistenza. Dispiace parlare così di resistenza, infatti, essendo personalmente legata a un suo connotato politico molto diverso da quello del programma politico di Hamas. Però, da palestinese, oggi non posso non avere l’onestà intellettuale di dire che Hamas opera la resistenza.
Noi palestinesi della diaspora non siamo titolati a giudicare come il popolo palestinese che lì vive oppresso decida e con quali mezzi la sua liberazione. A maggior ragione, il discorso vale per l’Occidente tutto coi suoi leader politici, media e analisti: con quale presunzione essi possono arrogarsi il diritto di poter scegliere quale sia il mezzo migliore per la liberazione del popolo palestinese?
Indubbiamente, l’entità della violenza posta in essere è stata molto impattante.
Non occorre aver compiuto studi postcoloniali o avere familiarità con le lotte di liberazione internazionali per trovare numerose analogie storiche. Con ciò non voglio giustificare la violenza. Posso, però, comprenderla, andando a inquadrarla in un contesto ben preciso che è quello di una lotta di liberazione nazionale da una delle forme di colonialismo più opprimenti in assoluto. Sono stata a Gaza nel 2019 con una missione italiana e ho visto con i miei occhi cosa voglia dire vivere in una condizione esasperante sotto ogni punto di vista. Basti pensare che una bambina o un bambino di 15 anni di età, nato in quel regime di assedio, prima del 7 ottobre era già sopravvissuto a tre o quattro bombardamenti. Quale aspirazione di vita si può avere se non quella di voler rompere l’assedio e desiderare la libertà? A Gaza non c’è differenza tra vita e morte nel senso che vivere in quelle condizioni non ha nessuna differenza dal morire. Quindi, tanto vale provare a rompere l’assedio con ogni mezzo necessario. Torno a ripetere: chi sono io per poter giudicare dall’alto del mio privilegio di poter vivere in un Paese dove ho libertà di movimento, con un passaporto che mi dà la possibilità di andare dove voglio senza visto, dove ho la possibilità di scegliere quale università frequentare, quale studi compiere e quale lavoro fare? Non possiamo giudicare le scelte di una popolazione che vive in quelle orrende condizioni da più di 16 anni.
Prima si accennava al fatto che, dopo lo stupore iniziale per gli eventi del 7 ottobre, è sopraggiunta l’ulteriore preoccupazione per le successive conseguenze. Purtroppo, è inaudito il bilancio di sofferenza che patisce la popolazione civile di Gaza. Gli effetti ricadono sulla popolazione inerme, sfollata, messa a ferro e fuoco, affamata. Si parla di seconda Nakba, di migliaia e migliaia di vite perdute in un quadro genocidario, di pulizia etnica. Hamas non poteva non aver calcolato la crudele ferocia di Israele. Quali sono i tuoi sentimenti rispetto a questo tragico scenario?
Ovviamente provo sentimenti molto, molto negativi. In pochi giorni Israele ha ammazzato più di 5.000 persone e nemmeno sappiamo quante siano sepolte sotto le macerie. L’Occidente dispone di una macchina di morte collaudata nei confronti di qualsiasi popolazione storicamente colonizzata e/o sottomessa. Se torniamo indietro nel tempo, la storia del cosiddetto mondo libero è segnata da violenza, morte, occupazione. Un mondo che viene poi contrapposto alla barbarie del mondo arabo, musulmano. Narrazione egemone con l’accessorio della “democrazia esportata” così retoricamente diffusa dai media con il mondo “buono” contrapposto a quello “cattivo”. Ecco, non mi sorprende la brutalità dell’azione israeliana: sono decenni che viviamo una Nakba continua, che da 75 anni non si è mai fermata, anche dopo gli accordi di Oslo con gli israeliani, rispettati poi dai soli palestinesi. La pubblica opinione ancora non è consapevole del fatto che Israele ha il solo obiettivo di un progetto coloniale. Mi capita spesso di interrogare molti: quale altro Stato al mondo non ha mai dichiarato i propri confini? Ebbene, da quando è nato, Israele non lo ha mai fatto! È da ciò che va compreso l’intento coloniale. Oltretutto, Israele non solo occupa i territori palestinesi ma anche una parte di Siria: siamo al delirio collettivo con l’operato di Israele avallato dalle potenze occidentali supportando in tal modo un progetto di pulizia etnica.
A tal proposito, non trovi omertoso il negare da parte di tanti dei termini di pulizia etnica, genocidio quando si parla delle pratiche che investono i palestinesi?
Mi meraviglia che ancora desti sorpresa l’utilizzo di parole come pulizia etnica e genocidio in rapporto alla questione palestinese. Sono utilizzate dagli storici che le riprendono ampiamente riferendosi a fatti commessi a partire già dal 1948. Anche in ciò si materializza l’ipocrisia occidentale.
Tra l’altro, in questi giorni stanno accumulandosi ulteriori, gravi violazioni e illeciti ai sensi del diritto internazionale.
Il diritto internazionale è stato istituito per poter essere utilizzato a protezione della comunità internazionale dagli orrori che l’Europa stessa ha commesso nella seconda guerra mondiale. Anche qui, ricordiamo che l’antisemitismo è un sentimento di odio e discriminazione che ha natali in Europa. Si è però ormai stanchi di appellarsi al diritto internazionale, alle Nazioni Unite quando poi norme e principi sono da sempre disattesi. Si continua a dire che Israele violi e non rispetti il diritto e le risoluzioni ma, dal 1948, nessun Paese della comunità internazionale ha mai fatto ricorso a efficaci vie e misure politiche per fermare Israele e farlo retrocedere da orrori, crimini di guerra e contro l’umanità. Ho testimonianza viva di questo già in famiglia: espulsa da Haifa, con mio padre costretto a vivere da profugo in Giordania. Ma anche quel 20 per cento della popolazione israeliana costituita da palestinesi cosiddetti “arabi israeliani” è infausto erede di quella Nakba. Stiamo parlando di quei palestinesi non solo esiliati ma anche subordinati a un sistema che non riconosce loro pari diritti. In un contesto che dal 2017 ha decretato Israele quale stato-nazione del popolo ebraico, insomma una teocrazia! Come può l’Europa continuare a supportare un Paese che si dichiara Stato unico soltanto degli ebrei? Si fa un gran parlare di democrazia, costituzione, rispetto delle minoranze… E poi? Quindi, abbiamo inventato il diritto internazionale, le Nazioni Unite, le convenzioni internazionali, la corte penale internazionale che però di fatto si utilizzano solo nei casi di convenienza e a tutela di chi è più affine a interessi occidentali.
In tanti, dal 7 ottobre, dopo un letargo pluridecennale, si sono riscoperti esperti delle questioni storiche e politiche della Palestina. Un’operazione appare alquanto fuorviante, disonesta: sin dall’inizio viene posta un’equiparazione Hamas=Isis che, tra al’altro, denota anche una palese non conoscenza delle radici storiche di queste organizzazioni. A chi conviene la dialettica di guerra che contrappone uno stato, Israele, a un’organizzazione che viene definita terrorista?
Terrorismo, fondamentalismo islamico: sono cresciuta in questo clima odioso nei confronti delle popolazioni arabe e specialmente dei musulmani. All’epoca dell’11 settembre 2001 avevo soltanto sei anni. Ho interiorizzato l’islamofobia nei miei confronti per anni cercando di negare la mia identità araba o persino cercando giustificazioni circa il fatto che mio padre fosse musulmano, come se tutto ciò rappresentasse il male.
Il terrorismo è un pretesto da sempre utile all’Occidente per subordinare popoli non solo del Medio Oriente ma anche del Nord Africa. È una fattispecie di pericolo utilizzata a targhe alterne: nessun media statunitense o europeo si è mai sognato di accusare di terrorismo quel signore di 70 anni che uccise con 26 coltellate un bambino di 6 anni palestinese. Il terrorismo ha una profilazione “razziale” ben precisa: è commesso da arabi e musulmani. Non ho mai sentito parlare di terrorismo da parte di Israele nei confronti dei palestinesi così come di quello degli Stati Uniti condotto in Afghanistan e Iraq e non ho alcun timore a dire che siano loro ad agire come terroristi. Il terrorismo è una categoria tipicamente occidentale e la genesi stessa degli Stati Uniti lo spiega. Qui a scuola veniamo immediatamente introdotti in un percorso educativo che parla di “scoperta” dell’America, del Sudamerica, del nuovo mondo quando invece si è trattato della colonizzazione di popolazioni indigene sterminandole, subordinandole e ghettizzandole nelle riserve. Questo abbiamo fatto ovunque siamo andati nel mondo.
In effetti, i nemici della Palestina, sono apparsi molto focalizzati sullo scontro tra civiltà. L’opinione pubblica occidentale è perlopiù confusa, balbettante, incanalata sul discorso del diritto a difendersi di Israele. Si è, però, osservato che non pochi (sedicenti) filopalestinesi, nel commentare il 7 ottobre, hanno approcciato gli eventi spesso trascurando il pregresso storico stando invece molto attenti a chiarire i termini di condanna rivolta ad Hamas.
Questa situazione ha messo in luce una serie di ipocrisie anche nel mondo della solidarietà alla Palestina. Successivamente agli accordi di Oslo, con la nascita dell’Autorità palestinese, c’è stata una “ONGizzazione” della Palestina. Una solidarietà che in sostanza contribuisce a mantenere lo status quo, non impegnata a parlare di decolonizzazione, di sviluppo della soggettività palestinese, né a dar voce ai protagonisti palestinesi. E invece è diffusa questa tendenza definita come white saviorism con organizzazioni occidentali che agiscono in Palestina ma lo fanno rappresentando sempre la popolazione palestinese come vittima accettabile. Intendo dire che finché si rientra nello scenario della vittima accettabile, ad esempio del povero palestinese bisognoso di aiuto, della povera donna col velo che implora salvezza, dei poveri bambini del campo profughi che hanno bisogno di calzature provenienti da Ong italiane, allora è lecita una soggettività. Tuttavia, si badi bene, non una soggettività politica: essere quindi vittima di cause poco chiare perché poi non si parla mai di colonialismo di insediamento, di segregazione razziale, di tutto quello che tormenta il popolo palestinese. Questa ONGizzazione è molto evidente nel mondo della solidarietà e non sta a noi giudicare come il popolo palestinese voglia liberarsi dall’oppressione. Quindi il 7 ottobre molti esponenti di tali ONG hanno fatto un evidente passo indietro quando hanno ossessivamente chiarito di non essere dalla parte di Hamas, di non essere Hamas, di schierarsi per la pace. La domanda è: cosa significa pace in un contesto in cui un popolo è sottomesso da 75 anni?
In quanto Giovani Palestinesi, come intendete contrastare questi atteggiamenti che ritenete ambigui o, addirittura, nocivi verso la causa?
Ciò che abbiamo provato a dire nelle piazze a Milano, Torino, Roma è che non può esserci pace senza giustizia proprio come hanno fatto i sudafricani in lotta contro l’apartheid. Prima di arrivare alla pace, abbiamo bisogno che venga applicato il diritto al ritorno, smantellato il muro, rotto l’assedio a Gaza. Abbiamo bisogno di ricostruire la nostra soggettività politica, di avere istituzioni nelle quali riconoscersi e non un manipolo di corrotti che lavora per Israele. Abbiamo visto l’Autorità palestinese cosa ha prodotto in tutti questi anni, persino in questi drammatici giorni non ha esitato ad aprire il fuoco nei confronti dei palestinesi accorsi nelle strade e nelle piazze della Cisgiordania in protesta per quello che accadeva a Gaza. L’opinione pubblica viene allontanata dalla verità. Il giornalista Parenzo ha infelicemente affermato in una recente trasmissione televisiva “dove sono i David Grossman palestinesi?” Una disonesta sciocchezza. Intellettuali, poeti, scrittori, registi: la Palestina ha dato vita a tutta la cultura possibile, in piena autonomia e i David Grossman palestinesi sono stati in gran parte ammazzati o incarcerati! Anche in tal caso permane quest’idea del doppio standard per cui i palestinesi esprimono primitiva arretratezza, incapace di esprimere cultura. Eppure, nonostante la sua situazione, i palestinesi sono uno dei popoli con più laureati al mondo in rapporto alla popolazione totale. Mahmud Darwish, uno dei più grandi esponenti della poesia internazionale, ebbe ad affermare: “Loro sono diventati cittadini, noi siamo diventati profughi”. Ancora oggi queste parole risuonano alte e vibranti, quasi come se lui stesso fosse in questo momento qui a riscriverle.
Alla luce di quanto accade, qual è la prospettiva politica palestinese che è lecito prefigurare nei rapporti di forza e nel discorso politico? La logistica militare in Gaza nord potrà anche essere distrutta ma è molto probabile che Hamas continui a riprodursi nello spirito palestinese. Cosa è possibile immaginare anche al cospetto di un’Autorità palestinese decadente e decaduta e grande assente in questa fase storica se non addirittura presente in negativo?
L’Autorità palestinese è costituita da una casta politica e, offrendo occupazione a circa 200mila dipendenti pubblici in una Palestina dove è estremamente difficile trovare lavoro, ha notevole potere di ricatto garantendosi così la rendita di una solida base di consenso. È un sistema corrotto che riceve soldi dall’Europa e che non è mai riuscito a contrastare lo status quo svolgendo anzi un lavoro di repressione paramilitare al servizio di Israele. Dall’altro lato c’è Hamas: nella Striscia di Gaza, ma sempre più in Cisgiordania, è comunque visto dalla popolazione come una forza politica che è riuscita in qualche modo a sfidare il sistema Israele. Una terza via laica, di sinistra, è molto complessa e difficile a realizzarsi essendo stata ridotta all’irrilevanza politica.
Va però evidenziato ciò che è emerso in tempi recenti a Nablus e Jenin, in Cisgiordania, e comunque dopo la forte mobilitazione giovanile, successiva ai bombardamenti su Gaza del 2021. È questo lo scenario futuro che auspichiamo si realizzi con la gioventù palestinese protagonista che non si riconosce in nessuna delle offerte politiche attuali. Guardavo documentari dei primi anni 2000 che avrebbero potuto tranquillamente esser stati girati ai giorni nostri: le aspirazioni dei bambini nei campi profughi sono rimaste frustrate. Nascono e crescono con l’idea di essere disposti a morire, non avendo diritto a un’infanzia e a una vita normale, quando sai che c’è un nemico pronto a subordinarti con ogni mezzo possibile. Ecco, i ragazzi, i giovani di Nablus e Jenin stanno raccontando un desiderio di libertà fortissimo. Non si riconoscono in nessuna fazione politica specifica ma di fronte a una situazione di colonizzazione con un nemico armato fino ai denti e dotato delle migliori tecnologie di guerra, hanno fatto ricorso anche alle armi per rendere quantomeno difficile permanere in quel posto all’occupante. Sono antimilitarista e sogno un mondo senza guerre, ma non posso fingere: in quella disperazione, l’unico mezzo di liberazione rimasto a disposizione è purtroppo violento.
C’è chi continua a riproporre la formula dei due Stati, per due popoli
Bisogna ormai diffidare del racconto di una solidarietà occidentale per una Palestina inserita all’infinito e improduttivamente nella retorica “a parole” dei due Stati per due popoli. È necessario un esercizio di realtà, anche per chi vuole supportare la lotta palestinese e rendersi conto di quali siano le forze in campo. Supportare sinceramente un processo di liberazione, che è ciò che davvero vogliono i palestinesi, non significa riprodurre moduli mentali che, pur solidali, sono tuttavia imposti e non sentiti come propri dai palestinesi stessi.
Questa intervista è stata ubblicata anche su Palestine Chronicle Italia
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