Vedo l’annuncio dell’uscita di un nuovo libro di Vanessa Roghi che si intitola: La parola femminista. Una storia personale e politica (Mondadori. Milano, 2024).
“Perché diavolo dovresti acquistare e leggere un libro che parla di femministe e femminismo?”, insinua il dubbio quel diavoletto interiore che compare ogni tanto come nei cartoons di un tempo, (non sono sicurissimo, ma per la prima volta, forse, in Paperino e il diavolo – Donald’s Better Self, uscito nel 1938 per la regìa di Jack King).
Beh, rispondo io (l’angioletto interiore dev’essere in vacanza: del resto, con quello che gli ho fatto passare in adolescenza e gioventù ha tutte le ragioni per essere stressato), Vanessa Roghi è un’amica e ha scritto libri belli tanto su Lorenzo Milani, Gianni Rodari, sull’amatissimo Mario Lodi, e anche un libro che parla di eroina e di droghe e mi ha riportato al periodo della mia vita in cui ero in servizio civile presso una comunità con ragazzi tossicodipendenti del Ce.I.S. a Verona.
“Ma son questioni da donne – continua il mefistofelico amico del lato oscuro, che è pure furbo e aggiunge – non vorrai mica far la solita parte un po’ patetica dell’uomo di sinistra aperto progressista e persino femminista, no?”.
Non lo ascolto. Prendo il libro e lo leggo.
Ed ecco qua. Diavoletti e angioletti sono ammutoliti perché in un libro (mi permetto di dire, secondo me, il più bello e importante e credo anche sofferto di quelli scritti da Vanessa Roghi) che parla di femministe, femminismi, mestruazioni, anticoncenzionali, aborto, intersezionalità e menopausa trovo anche molto di me.
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Sì, perché il torcimento di budella che mi assale attraversando molte pagine è quello relativo al tema del corpo che a me – non voglio ergermi a rappresentante né di un genere né di una generazione, ma sono convinto che anche qualche mio conoscente e amico di vecchia data condividerebbe la stessa sensazione – provoca tuttora sconquassi mica da poco.
Sono nato, nel 1957, secondogenito in una famiglia in cui alla fine ci saremmo trovati in quattro fratelli tutti maschi. Padre impiegato di banca e impegnato anche con incarichi di responsabilità dirigenziale nel sindacato dei bancari della CISL. Madre maestra elementare (che ha smesso di insegnare, così mi è stato sempre raccontato, perché a quattro anni a me è venuta quell’asma che ancora mi fa compagnia) e per alcuni anni vicepresidente della locale sezione del CIF (Centro Italiano Femminile). Entrambi (da me amatissimi) cattolicissimi, praticantissimi e in politica democristiani.
Del corpo non si parlava mai, in famiglia mia. Eravamo più o meno tutto puro (si fa per dire) spirito e intelletto. Non si parlava mai del corpo di noi maschietti, figurarsi di quello femminile.
Sono quindi arrivato alle soglie della pubertà con un grado di ignoranza pressoché totale. (Naturalmente né la scuola né tantomeno la parrocchia, che erano gli ambienti che frequentavo, toccavano mai l’argomento).
Però tredici anni li ho compiuti nel 1970 e sarei entrato negli scout (che erano ancora ASCI, i maschietti, e GEI, le femminucce, ma almeno qualche momento di attività in comune cominciava ad esserci). E poi nella via del quartiere della periferia sud di Verona in cui abitavo, a quel tempo diviso dal quartiere vicino dai binari della linea ferroviaria da e per Bologna, c’erano sia la sezione del PCI che un circolo operaio extraparlamentare e cominciai a frequentare questo secondo, un po’ per stare insieme agli amici che lo frequentavano, un po’ per spirito di ribellione nei confronti della famiglia, ma molto, devo dire, perché avevano un sacco di libri interessanti e organizzavano pomeriggi di studio e approfondimento che mi appassionavano.
Allo stesso modo, nella prima metà degli anni Settanta, cominciammo a cercare e ad esser cercati dalle ragazze della nostra età e nacquero le prime storie e i primi amori, che per qualcuno durano ancor oggi da allora. E le ragazze, qualcuna veniva dalle scout, qualcuna dalla parrocchia, qualcuna dal circolo operaio, ne sapevano molto di più di noi (di me, sicuramente). Non solo, ma per star insieme a loro fummo, volenti o nolenti, impegnati a capire, a informarci, a studiare anche noi. Sono state loro che ci hanno fatto imparare non il “politicamente corretto” o il rispetto formale, ma la sostanza pratica del concetto che “se vogliamo stare insieme devi sapere che il corpo è mio e su di esso decido io, ma allo stesso tempo anche tu hai la responsabilità di conoscerlo e rispettarlo nei suoi tempi, nei suoi cicli, nelle sue stagioni” (nel romanzo che non scriverò mai potrebbe esserci la scena in cui vado con la mia ragazza quindicenne alla sezione veronese dell’AIED – Associazione Italiana Educazione Demografica – per assistere ad una lezione sui contraccettivi e quel giorno tocca la dimostrazione di come funziona il diaframma e la ginecologa che tiene la lezione mette tutte in cerchio e passa davanti ad ognuna con quel coso di gomma in mano e spiega come si piega e come si introduce e quando arriva davanti a me mi guarda con uno sguardo misto tra divertimento e compassione e dice: “A te ti salto”).
Intendo dire che per me (per noi) la sfera personale e quella politica si sono intrecciate strettissime e hanno costruito, credo, molto di quello che sono (che siamo) tuttora.
Trovo tutto questo, nel libro di Vanessa Roghi, e non è sempre facile andare avanti, perché ci sono anche memorie dolorose, dirette e indirette.
Storie d’amore (non finite bene) con chi apparteneva a quel mondo di femministe e di intellettuali (il mondo di Adriana Cavarero, Luisa Muraro, il Filo di Arianna, certe correnti universitarie).
Due amiche, in tempi diversi, che si sottoposero ad aborto, e ancora ne sono segnate (ma non per questioni moralistiche: ha perfettamente ragione Vanessa Roghi quando scrive che un conto è difendere la 184 contro chi vorrebbe tornare indietro e un conto è considerare che ogni storia di donna ha le sue peculiarità che non sono irreggimentabili in dati statistici o analisi sociologiche).
E Cristina, la ragazza che ebbe il grande coraggio di denunciare i suoi stupratori, con il primo processo su un caso del genere ripreso dalla televisione (se non ricordo male il TG2 diretto da Andrea Barbato aprì le sue trasmissioni con un servizio da Verona) e tutto il movimento che le si strinse attorno, che io seguii come giovane cronista di una delle prime radio libere veronesi (una bellissima e accurata documentazione di tutta questa vicenda si trova nel libro di Nadia Maria Filipiini: “Mai più sole” contro la violenza sessuale. Una pagina storica del femminismo degli anni Settanta, Viella Editore. Roma, 2022).
“Eh, ma quella è archeologia e la solita mitologia di quanto erano belli e vivi e intensi gli anni settanta!”, riprova il diavoletto.
E invece no, lo zittisco in fretta, perché le moltissime cose raccontate da Vanessa nel suo libro sono anche, ovviamente solo in parte, mie.
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Ho assistito alla nascita di mio figlio e di mia figlia avuti dalla prima moglie e sono stato (erano i primi anni Ottanta) uno dei pochissimi (allora) che utilizzarono il congedo previsto anche per i padri per stare a casa alcuni mesi ad accudire i neonati.
Non ho potuto assistere a quella dei due figli della seconda moglie, perché sono stati due parti cesarei, ma so che una delle frasi storiche (che ogni tanto ci ripetiamo ridendo) che l’hanno colpita quando ci siamo conosciuti è stata: “Sono bravo a cambiare i pannolini”.
E oggi sono qui, alle soglie degli anni settanta, ma stavolta intesi come passaggio anagrafico e non come periodo storico, con un figlio primogenito ultraquarantenne che a venticinque mi disse di essere gay e che andava a vivere con un ragazzo (e la mia risposta fu quella brillante del padre di sinistra tollerante e illuminato: “Tu sei mio figlio e nulla cambierà il bene che ti voglio”, e sarebbe ancora quella, ma non mi ha risparmiato qualche anno di analisi); con una secondogenita che vive in Spagna da quasi due decenni e che si dedica al suo lavoro e alla musica, che ormai coincidono; con un terzogenito sedicenne che frequenta la terza liceo e che, in particolare su questi temi, ha le poche idee ben confuse tipiche della sua età e della sua generazione; con l’ultimo arrivato che ha nove anni e sta in quarta elementare ed è tutt’altro che tranquillo.
Sarei come sono senza aver conosciuto – da compagno di strada, ovviamente, anche con qualche resistenza, perché, diciamo la verità, a noi maschi lo stato di cose esistente andava anche bene e qualche dirigente del poderoso movimento rivoluzionario che si presentava alle riunioni di mattina con le occhiaie per far vedere che aveva scopato, accompagnato dalla compagna di turno che gli portava l’acqua con le orecchie l’abbiamo conosciuto e anche un po’ invidiato a quel tempo – il femminismo, i femminismi, le femministe?
Sicuramente: no.
E anche se in qualche soprassalto di rimbambimento senile mi accadesse di pensare che, insomma, si stava meglio quando le donne non avevano l’anima e stavano a casa a far tutte le faccende domestiche e se ci fosse stata qualche studiosa-scrittrice che si azzardava a dir che così non andava bene la soluzione sarebbe stata veloce e definitiva mettendola “ai Roghi! Ai Roghi!”, certamente ci sarebbero mia moglie o mia figlia o le molte amiche vecchie e giovani che ho che mi scuoterebbero riportandomi ad una realtà in cui, grazie a madri e sorelle e compagne, senza alcun dubbio io e probabilmente molti miei coetanei siamo cresciuti meglio di quanto avremmo potuto essere.
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