Le libertà e i diritti vanno curati ogni giorno, come i fiori. Non è sufficiente la rabbia, non bastano gli articoli sui giornali e sui social, per dirla con Gaber, “la libertà è partecipazione”. Per questo c’è bisogno di riscoprire i territori, i luoghi abitati dalle comunità, gli unici luoghi in grado di produrre cambiamento. Anna Foggia è sociologa e maestra, si è occupata anche di formazione di docenti e non ha mai smesso di pensare che il mondo possa cambiare qui e ora. Oggi presta tempi e saperi in una giunta di un piccolo comune alle porte di Roma, Monterotondo, come assessore alle Politiche Sociali, Lavoro, Formazione e Partecipazione. In questo articolo, con lucidità, umiltà e senza fare sconti a nessuno, nè alle istituzioni nè alla “società in movimento”, racconta cosa significa aprire spazi di partecipazione e cambiamento in un’amministrazione locale, partendo da uno strumento come i Piani di zona. Forse ha ragione Anna, in “questa nostra barcollante democrazia, ingessata nell’incapacità letale di passare dai precetti e dalle dichiarazioni all’operatività dell’agire costruttivo” abbiamo tutti e tutte bisogno di raccontare, di ascoltare e di vivere il territorio ogni giorno
di Annna Foggia*
Per chi è convinto che la dimensione territoriale sia il luogo per rilanciare una politica di comunità, l’occasione offerta dalla costruzione dei Piani Sociali di Zona è particolarmente ghiotta, perché è l’unico spazio delle scelte istituzionali, tra quelle che riguardano immediatamente, direttamente e sensibilmente la vita di ogni giorno delle persone, che la legge (la L. 328/2000) sottopone – senza se e senza ma – a partecipazione.
Cos’è il Piano di zona?
Alcuni definiscono il Piano di zona come “il piano regolatore” dei servizi sociosanitari. Più semplicemente si tratta di un documento di programmazione territoriale con il quale, i Comuni che fanno parte di un Distretto sociosanitario definiscono, di concerto con la Asl, le politiche sociosanitarie rivolte alla popolazione.
A partire dai bisogni del territorio, nel Piano di Zona sono indicati obiettivi precisi, azioni mirate, risorse dedicate.
Come si definiscono i bisogni del territorio?
I luoghi privilegiati per la rilevazione dei bisogni sono senz’altro i Tavoli Tematici, assemblee cittadine che hanno proprio l’obiettivo di fornire elementi in ordine ai bisogni del territorio, come base della progettazione o della ri-progettazione degli interventi e della pianificazione dei servizi sociali del Distretto. E’ nel corso dei Tavoli che ci si confronta sui punti di forza e i punti critici dei servizi attualmente esistenti, si formulano idee, proposte, suggerimenti e si individuano, eventualmente, necessità nuove.
Successivamente ai Tavoli, gli incontri del Comitato Tecnico (che vede la partecipazione degli assistenti sociali dei Comuni, dei rappresentanti del terzo settore, delle scuole, della Asl, del Centro per l’Impiego e della Città Metropolitana) proseguono nel confronto più tecnico, il quale ha l’obiettivo di trasformare ciò che viene fuori dai Tavoli in servizi che diano risposte adeguate ed efficaci ai bisogni del territorio.
Il Piano Sociale di Zona serve perciò a costruire un sistema integrato, armonico, di interventi, proprio attraverso la collaborazione di più soggetti. Gli ambiti di competenza sono quelli dove si richiede una forte sinergia tra servizi sociali e sanitari: minori e famiglia, anziani, disabilità, coesione sociale (tossicodipendenze, immigrazione, povertà).
Chi può partecipare alla costruzione del Piano di Zona?
Ogni cittadino può dare il proprio contributo alla pianificazione dei servizi sociali, partecipando ai Tavoli Tematici. Oltre ai cittadini singoli, possono partecipare a queste assemblee molte realtà territoriali organizzate: cooperative sociali, associazioni di volontariato, sportive e culturali, parrocchie, partiti, sindacati, comitati di quartiere, oltre, ovviamente, alle scuole, ai servizi sanitari e tutti, proprio tutti, coloro che hanno a cuore e sono interessati al sistema dei servizi alla persona del territorio.
Dopo i Tavoli Tematici, i bisogni espressi che vi emergono si traducono nelle proposte elaborate dal Comitato Tecnico, che le sottopone all’Ufficio di Piano (i funzionari del Distretto) per un riscontro amministrativo e, infine, sono approvate, in forma di “Piano”, dal Comitato Istituzionale, l’organo politico del Distretto, che è composto dai Sindaci dei Comuni che vi fanno parte e dai loro Assessori alle Politiche Sociali. Una volta approvato dal Comitato Istituzionale, il Piano viene presentato alla Regione, che verifica l’adeguatezza del Piano con le linee guida che la Regione emana ogni anno e, se lo ritiene rispondente ad esse, lo approva erogando i finanziamenti previsti sui diversi interventi.
Tutto ciò vuol dire che decisioni non si possono prendere e valutazioni non possono farsi, se non prevedendo un processo partecipativo di coinvolgimento dei cittadini, in forma singola e organizzata.
Le tre condizioni della partecipazione
Ma perché partecipazione si abbia davvero, devono darsi necessariamente tre condizioni: informazione sul tema (altrimenti di che parliamo?), ciclicità (il processo deve essere sistematico, non uno spot) ed effettività (ciò che emerge nel processo partecipativo deve trovare evidente corrispondenza nelle scelte operate).
Il caso di Monterotondo
Sono convinta che nel mio territorio* si siano create e rafforzate, già da diversi anni, queste tre condizioni: uno sforzo importante di informare diffusamente il territorio sui tanti elementi necessari a costruire le scelte; la disponibilità a mettersi in trasparenza, in discussione, in ascolto; la ciclicità degli appuntamenti partecipativi; l’assunzione degli esiti di questi momenti “nelle” scelte operate. Garantite queste condizioni, però, la partecipazione è assolutamente volontaristica: non si può obbligare nessuno a prendere parte ad un percorso che comporta tempo, ragionamento, approfondimento, confronto, discussione, tutto ciò che fa parte di una responsabile costruzione delle scelte.
Dico “responsabile” nel senso etimologico di “capacità di dare risposte”: quando ci chiedono conto delle scelte che facciamo, dobbiamo essere in grado di risponderne, argomentandone i diversi passaggi che ci hanno condotto lì e non altrove. Questo richiama un po’ il criterio della riproducibilità, che costituisce uno degli elementi basilari del metodo scientifico, a garanzia della non casualità degli esiti. In ogni caso, non è facile.
Se le istituzioni devono favorire il processo partecipativo, i cittadini – singoli e organizzati – devono, dal canto loro, ri-educarsi a partecipare, ossia a ri-stare nei processi che li coinvolgono consapevolmente e responsabilmente. In questi anni, mentre sui social imperversava la richiesta, più o meno aggressiva e più o meno sconnessa di democrazia diretta, i luoghi di partecipazione sostanziale – secondo i tre criteri richiamati primi – che abbiamo realizzato sul territorio si sono ritrovati spesso vuoti di una partecipazione – chiamiamola così – popolare.
Per la verità, ci sono state diverse fasi. All’inizio si è avuta una grande affluenza di operatori sociali, che hanno apprezzato la volontà di confrontarsi e riflettere insieme, che dava il giusto valore al loro know how. In un secondo momento hanno cominciato a frequentare le assemblee anche persone “comuni”, non del settore, e associazioni non direttamente coinvolte nel sistema dei servizi. Quel che è emerso subito è stato che la maggior parte delle persone veniva per trovare risposta al proprio problema individuale e non accettava di affrontarlo in un’ottica collettiva, che metteva sul tavolo il pacchetto di risorse totali disponibili, per approcciarne una distribuzione che riuscisse a fornire risposte ai tanti e variegati bisogni del territorio. In altre parole, è capitato che il doversi confrontare con altre problematiche fosse vissuto da molti come una inutile perdita di tempo.
Va senz’altro detto che qualche bella eccezione c’è stata, ed ha prodotto belle esperienze di raccordo e collaborazione, attraverso l’attivazione di piccoli gruppi di cittadini che hanno cominciato a proporre iniziative, anche in rete con le realtà esistenti, e che si sono mostrati entusiasti di poter collaborare e di vedere le loro proposte accolte.
Parallelo a quello dei singoli, è stato l’approccio delle associazioni; qualcuna si è inserita nella rete territoriale, creando sinergie, producendo opportunità e percorsi molto interessanti insieme a chi già c’era. Altre sono arrivate ai Tavoli immaginando che fossero dei luoghi di spartizione di un’ipotetica torta; quando hanno scoperto che c’era da lavorare sul serio e l’obiettivo era veramente l’interesse collettivo, se ne sono andate un po’ deluse.
Anche con le parrocchie si collabora e con le scuole si co-progetta sempre meglio. Partiti e movimenti politici di tutti i colori: non pervenuti. Invitati reiteratamente, nominativamente, direttamente, personalmente, non si è mai avuta la partecipazione dei rappresentanti delle forze politiche a queste assemblee dove le persone portano le loro vite, i loro disagi, le loro aspettative ed il sistema istituzionale mette in trasparenza le risorse di cui dispone, il loro utilizzo, i criteri di valutazione, gli esiti delle scelte compiute: cos’altro è la Politica se non tutto ciò?
A questo proposito ricordo che una volta è stato necessario indire delle assemblee sull’emergenza abitativa perché la Regione ci assegnava un fondo biennale e andava attivato il processo partecipativo per capire come utilizzarlo. Chiaramente era un fondo sociale; le proposte arrivate sia dai cittadini che dagli operatori sociali furono composte in un intervento che prevedeva, a seconda dei casi, un sostegno economico all’affitto (se era ancora evitabile lo sfratto) o il social housing con possibilità di re-inserimento lavorativo, laddove emergessero anche altre difficoltà che richiedevano un accompagnamento più ampio per il nucleo familiare. Quella volta venne il segretario di un circolo politico di sinistra del territorio con un iscritto; si arrabbiarono molto perché ritenevano che l’emergenza abitativa si risolvesse costruendo nuove case, e non riuscivano ad accettare che il nostro campo di intervento fosse “soltanto” quello sociale, e finì che andarono via dopo un’oretta di polemica senza neanche fermarsi ad ascoltare.
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Libertà e diritti si coltivano ogni giorno
Recentemente mi è stato chiaro, dopo l’ennesimo documento politico in cui non vedevo traccia alcuna di parole come stato sociale, esclusione, inclusione, welfare, ecc., che in talune zone della sinistra l’emergenza sociale coincide con quella abitativa. Il resto sono considerate tutte chiacchiere.
Pochi giorni fa un “amico” di facebook ha postato una riflessione intorno ai diritti; si interrogava sul diritto di avere diritti e di reclamarli, oppure di considerarli, date le circostanze attuali, un privilegio. Non sono riuscita a rispondergli come l’istinto mi suggeriva di fare: No, forse No, non hai diritto di avere diritti. I diritti e le libertà vanno curati ogni giorno, come i fiori, come le persone, come le relazioni, come ogni entità vivente, che altrimenti appassisce. Coloro che li hanno a cuore lo sanno. O lo dovrebbero sapere. Questo principio ha il suo nucleo sostanziale nell’”ogni giorno”, perché soltanto la sistematicità e la puntualità della cura quotidiana determinano il confine tra l’enunciazione formale e l’effettività dei diritti stessi.
Il corto circuito chiamato democrazia
Ci sono diritti nuovi e diritti antichi. Chiaramente, quelli nuovi si vanno ad erigere su quelli già acquisiti, ma, è ovvio, se questi non reggono, casca tutto. E tutto sta cascando. Oggi i diritti “nuovi” non reggono perché quelli che si davano per consolidati si sono, nel frattempo, sgretolati e non possono più costituire una base solida per l’edificazione di altri. Non reggono perché sono lasciati lì, senza protezione, senza, cura, senza, soprattutto, che siano esercitati. Non sono sufficienti le rabbie, non bastano gli articoli sui giornali e sui social. Per dirla con Giorgio Gaber, “la libertà è partecipazione”, a partire dalla co-costruzione della propria quotidianità e quindi del proprio destino. C’è come un corto circuito in questo momento storico: si parla di emergenza democratica ma molti luoghi di democrazia non vengono praticati, e sono proprio quelli più significativi, i territori abitati dalle comunità, gli unici luoghi che saranno in grado di produrre cambiamento attraverso le loro buone prassi, che il ceto politico dovrebbe riprendere a frequentare e praticare, almeno per sapere di che cosa va decidendo quando si trova a decidere.
Siamo in molti a voler resistere e a confidare in nuove alleanze tra sociale e politico che ridiano gambe a questa nostra barcollante democrazia, ingessata nell’incapacità letale di passare dai precetti e dalle dichiarazioni all’operatività dell’agire costruttivo che, solo, può restituire diritti e libertà a tutti, nessuno escluso.
* assessore alle Politiche Sociali, Lavoro, Formazione e Partecipazione
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APPUNTAMENTI A MONTEROTONDO
Nel mese di settembre qui da noi avremo quattro appuntamenti che introdurranno alla costruzione del Piano dei Servizi sociosanitari: martedì 15 a Monterotondo, presso la Casa della Pace, si parlerà di coesione sociale; giovedì 17 alla Galleria Borghese di Mentana si parlerà di anziani; martedì 22, nella sala consiliare del Comune di Fonte Nuove si parlerà di disabilità e giovedì 24, di nuova alla Casa della Pace di Monterotondo, il primo ciclo di Tavoli tematici si chiuderà con l’incontro dedicato a minori e famiglie. Tutti gli incontri si terranno alle 16,30, fuori dall’orario di servizio di tutti gli operatori che vi parteciperanno, proprio per favorire una più ampia partecipazione delle persone.
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