Affidare in qualche modo alle macchine la produzione del cibo significa varcare la soglia oltre la quale gli strumenti tecnologici da semplici oggetti diventano soggetti costitutivi del nostro ambiente. Si tratta, dunque, di individuare con coraggio e chiarezza dei limiti. E non sottovalutare la questione del consumo di risorse: gli strumenti che usiamo consumano già energia elettrica pari al traffico aereo… Dopo la tre giorni “Cambiare il campo per una convergenza agroecologica e sociale“ e l’articolo di Massimo De Angelis “L’innovazione compagna”, Giovanni Pandolfini scrive sul bisogno di ragionare in profondità di limiti
Qualche giorno fa su Comune è apparso l’articolo di Massimo De Angelis dal titolo “L’innovazione compagna”. Il pezzo e stato scritto di getto e con evidente entusiasmo subito dopo le tre giornate della conferenza contadina “cambiare il campo per una convergenza agroecologica e sociale“ svoltasi a Roma dall’1 al 3 marzo (Convergenze contadine). Al di là della passione e del trasporto con cui chi ha scritto esprime il suo parere ha suscitato in me la voglia e il bisogno di scrivere un lettura un po’ diversa sul senso della convergenza.
Sicuramente ci sarà tra non molto una seria e approfondita analisi politica dell’evento e sarà frutto di un lavoro assembleare. Le persone del collettivo che hanno organizzato la conferenza la faranno e la divulgheranno accompagnata dalle molte proposte e suggestioni scaturite dall’evento stesso. Per il momento incassiamo la sua riuscita come partecipazione ed un buon inizio di programmi di mobilitazioni contro i nuovi Ogm detti Tea.
L’aspetto che Massimo De Angelis sottolinea nel suo articolo sarà uno dei nodi centrali che dovrà essere sciolto per il proseguo e il concretizzarsi della convergenza auspicata da molti degli organizzatori e partecipanti.
La parola innovazione, appare ben 28 volte nel pezzo citato. Nel suo intenderla come “tecnica” ovviamente appartiene già di suo al linguaggio del potere dominante, del capitale, in quanto si riferisce espressamente a nuovi prodotti o nuovi servizi, nonché a nuovi modi di produrli, di distribuirli e utilizzarli costantemente accompagnati da una idea di progresso, da uno sviluppo delle conoscenze infinito e senza limiti alcuni. Anche se accompagnata dall’aggettivo “compagna” non mi convince e non convince molti dei presenti alla tre giorni. Vi dico perché.
È sempre stato illusorio e un po’ pericoloso immaginarsi una contro-cooptazione di tecnologie per la produzione del nostro cibo pensate e sviluppatesi nel sistema industriale, estrattivista, colonialista e guerrafondaio facendone un “buon uso”, per semplificare, anche fino a quando non esisteva la digitalizzazione. Ricordo anche che il mondo contadino è il mondo indigeno colonizzato in occidente, cooptato a forza in una economia di guerra e deportato negli agglomerati urbani divenuti metropoli. Oggi con l’avvento del mondo digitalizzato diventa quasi ridicolo e fin troppo ingenuamente rassicurante illudersi di questa neutralità degli strumenti che, per dirla con il citato Illich, hanno abbondantemente superato la soglia oltre la quale una società produce la propria distruzione.
Così come ci insegna l’epigenetica, i contadini non sono certo esperti di epigenetica ma lo sanno bene perché lo “sentono” o forse perché glielo hanno detto le piante stesse, ogni essere vivente, che sia pianta, animale, che sia infinitamente piccolo o gigantesco, è il frutto delle interazioni che ha con il suo ambiente naturale. Distruggere, perdere il contatto con il nostro ecosistema significa distruggere e perdere il contatto con noi stessi e non costituisce una prospettiva di futuro accettabile.
Le strutture delle società industriali con i loro accentramenti di risorse e profitti, e la digitalizzazione danno un bell’aiuto a questo, con lo sviluppo dell’allevamento umano come unica forma di vita concessa e con la distruzione sistematica degli ambienti naturali, nostri corpi compresi, sono sorrette da una tecnoscienza riduttivista e asservita ai forti gruppi di interesse e si sono perfezionate, rendendosi irreversibili, con l’ultimo scalino che il genere umano (quasi tutto) sta salendo: il nostro fondersi con le macchine. Al momento le nostre amate protesi le portiamo sempre con noi e ci sentiamo smarriti quando non sono fisicamente vicine ma presto entreranno dentro di noi, sempre con buoni intenti ovviamente.
Anche la produzione industriale del cibo sta attrezzandosi per diventare agricoltura 4.0. Sensori, computer, satelliti, big data toglieranno all’umano l’ultimo brandello di utilizzo dei propri sensi nel tentativo di procurarsi il cibo e aggiungeranno alla infinita serie di input forniti dall’industria (sementi, concimi, pesticidi, diserbanti, prodotti bio-tech, energia ed anche biostimolanti) anche il come, quando e quanto usarne in un’ottica falsamente rassicurante di transizione ecologica.
Considerare che nella produzione del nostro cibo l’ingresso della digitalizzazione sia una semplice ed efficace innovazione, un semplice uso di nuove attrezzature che miglioreranno il nostro lavoro e l’ambiente basta farla diventare “compagna”, significa non rendersi conto dei rischi a cui andremo incontro.
Affidare a delle macchine la produzione del nostro cibo significa oltrepassare la soglia oltre la quale gli strumenti digitali da semplici oggetti diventano soggetti costitutivi del nostro ambiente. Del nostro essere al mondo.
Affideremo tutto questo a quanto ci raccontano sulla presunta perfezione, sulla giustizia e sulla possibile imparzialità degli algoritmi che muovono le macchine e che mai saranno sotto il nostro controllo?
Macchine che hanno il compito di eliminare l’imperfezione della natura, in questo caso della nostra natura, la natura umana.
La tecnoscenza e i sui prodotti non sono né buoni né cattivi né neutri, sono un blocco unico che contiene in se contemporaneamente tutte le caratteristiche positive e negative, dobbiamo solo trovare il coraggio di parlare di limiti. Limiti che vogliamo mettere e non ingurgitare acriticamente uno sviluppo senza di loro anche se in nome dell’efficienza e della comodità in alternativa ovviamente a quello del profitto e dell’aumento della produzione che tutti d’accordo rifiutiamo .
Non ultimo il consumo delle risorse: gli strumenti digitali che tutti usiamo con molta disinvoltura si stima che attualmente consumino energia elettrica pari al traffico aereo ma si sta raddoppiando ogni quatto anni e si prevede che in pochi anni consumeremo energia il doppio di quanto ne consumavamo appena quindici anni fa. Stiamo estraendo dalla crosta terrestre più minerali e metalli in questa “ultima generazione” che in tutta la storia dell’umanità.
Limiti gente, parliamo di limiti e misure, ripartiamo dalla Lettera ai contadini sulla povertà e la pace scritta da Jean Giono nel 1939.
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Elisabetta Monti dice
Condivido e apprezzo l’articolo di Giovanni. Mi fa ridere la definizione ” lo sviluppo dell’allevamento umano” ma è realmente quello che avviene nelle città, con persone stipate nei condomini e nella vita.
Come dissi al convegno cambiare il campo è il modello che è improprio, noi non possiamo pensare di rifornire di cibo sano e giusto città con svariati milioni di abitanti.
“Al momento le nostre amate protesi le portiamo sempre con noi e ci sentiamo smarriti quando non sono fisicamente vicine ma presto entreranno dentro di noi,” Anche questo pensiero è di allarmante attualità e già ora non sappiamo come venirne fuori vivendo in questo mondo, figurarsi se vogliamo ulteriormente ampliare e servirci sempre di più di questo tipo di tecnologia. Ricominciamo a parlare, studiare e sperimentare le “tecnologie appropriate” come ben si studiava negli anni 80, alleggerire il lavoro dell’uomo e aumentarne il rendimento ma con costi e energia minimi, applicabili a livello mondiale anche nei 3/4 del mondo dove le risorse famigliari non permetterebbero tecnologie avanzate, dove in molti posti l’acqua potabile e le fognature sono ancora un miraggio.
“Macchine che hanno il compito di eliminare l’imperfezione della natura, in questo caso della nostra natura, la natura umana”. Questo è quello che si vuole fare ora, basta malattie delle piante, degli umani, tutto attraverso sostanze e tecnologie che deprimono invece di rinforzare, in un delirio di onnipotenza che non tiene conto dei limiti del vivente e dei processi naturali di morte della materia.