Il grido, il cambiare il mondo senza prendere il potere, le grandi e piccole crepe del capitalismo. E ancora il marxismo aperto e la speranza, non quella astratta nel futuro ma la speranza nella nostra ricchezza, cioè nella nostra capacità di creare qui e adesso una società basata sul riconoscimento reciproco delle nostre dignità, un mondo che non sia basato sul dominio del denaro. Un’ampia intervista di Sun Liang, del settimanale Chinese Social Sciences, a John Holloway. “Come possiamo liberarci dal capitalismo? Rifiutando, dicendo di no. Il capitalismo esiste oggi perché lo facciamo noi… – dice Holloway – Per smettere di realizzare il capitalismo, dobbiamo fare qualcos’altro, creare altre forme di convivialità. O meglio, sviluppare le forme di convivialità che già esistono in forma embrionale, contro e oltre il capitalismo…”
Intervista di Sun Liang a John Holloway.
Puoi raccontarci brevemente su quando hai cominciato a concentrarti sul capitalismo e quando hai incontrato per la prima volta il marxismo?
Era il 1968 quando ho conseguito la mia prima laurea, in legge, all’università, quindi la ribellione era nell’aria, e anche Marx. È stato allora che ho iniziato a interessarmi al marxismo, che, ovviamente, non rientrava nell’insegnamento ufficiale. Così ho cominciato a leggere cose interessanti come la filosofia della speranza[1] di Ernst Bloch e Storia e coscienza di classe di Georg Lukács[2], che mi hanno portato in un mondo diverso, in un modo di pensare completamente diverso. E poi, naturalmente, Marx stesso. Così, quando ho iniziato a insegnare all’Università di Edimburgo, nel Dipartimento di Politica, ho tenuto un corso su Marx e questo mi ha costretto a imparare ciò che volevo insegnare. Allo stesso tempo, sono stato coinvolto in un’organizzazione chiamata “Conference of Socialist Economists”, un’organizzazione nazionale, non settaria e apartitica in Gran Bretagna per discutere questioni di teoria e politica marxista. Ho contribuito a creare un gruppo di discussione sullo Stato, che si riuniva una volta al mese. Insieme al mio amico Sol Picciotto, ci interessammo molto al dibattito sulla “derivazione tedesca dello Stato”, che si concentrava sulla concezione dello Stato come Stato capitalista e non solo come Stato nella società capitalista. Il dibattito, molto intenso in Germania, all’epoca non era stato tradotto in inglese, così abbiamo pubblicato una raccolta degli articoli più importanti in un libro intitolato The State and Capital[3] (“Lo Stato e il Capitale: un dibattito marxista”, non tradotto in italiano, n.d.t.).
Per me questo ha portato in due direzioni leggermente diverse. La prima è stata quella di pensare a cosa significhi la comprensione dello Stato come Stato capitalista per quelli di noi che sono dipendenti statali ma si oppongono al capitalismo. C’è un modo per essere allo stesso tempo parte dello Stato e contro di esso? Nel mio caso, c’è un modo per insegnare in un’università che fa parte dello Stato capitalista e allo stesso tempo insegnare contro il capitale e lo Stato? E che dire degli insegnanti di scuola, degli infermieri degli ospedali, degli assistenti sociali e degli autisti di autobus? C’era un modo per portare la nostra discussione teorica nella pratica quotidiana dei lavoratori dello Stato? Con un gruppo di amici, ci chiamavamo London Edinburgh Weekend Return Group (il gruppo dei pendolari del fine settimana tra Londra e Edimburgo), abbiamo fatto interviste e tenuto discussioni di gruppo con molti lavoratori[4] statali di vario tipo e abbiamo pubblicato un libro intitolato In and Against the State (titolo completo: “In and Against the State: Discussion Notes for Socialists”, trad. Dentro e contro lo Stato, note di discussione per socialisti”, libro non tradotto in italiano, n.d.t.), originariamente nel 1979, che ha avuto un successo sorprendente. Credo che la cosa importante per me fosse concentrarsi sulla natura quotidiana della lotta contro il capitale. La lotta non è necessariamente qualcosa di spettacolare che coinvolge i partiti politici, è invece parte della vita quotidiana, che nasce dalla natura antagonista della società in cui viviamo.
La seconda direzione è stata uno sviluppo più teorico della stessa questione. Una categoria centrale del dibattito sulla derivazione statale, come del Capitale di Marx, è la categoria della forma. Marx parla di forma-valore, forma-denaro e così via, mentre il dibattito sulla creazione dello Stato si concentra sulla forma-Stato. Ma cosa significa forma? A Edimburgo, dove mi trovavo allora, noi, in particolare il mio amico Richard Gunn, siamo giunti a una comprensione della forma come “modo di esistenza”. Così, lo Stato è un modo di porsi nelle relazioni sociali, nelle relazioni tra le persone. Ma, come il valore, come il denaro, è un modo di porsi nelle relazioni sociali che si presenta come una cosa, non come una relazione sociale. Nega la sua stessa realtà come relazione sociale e da ciò consegue che le relazioni sociali esistono nella modalità di essere negate. Questa è una riformulazione del concetto di feticismo di Marx, ma diventa chiaro che c’è una tensione. Se le relazioni sociali esistono nella modalità di essere negate, allora c’è già una tensione tra le relazioni sociali e questa negazione. Le relazioni sociali tenderanno a negare la loro stessa negazione. La negazione è un antagonismo, un conflitto, una lotta. Il feticismo è un antagonismo, una lotta e quindi un processo. Un processo di feticizzazione, in antagonismo con un processo contrario di defeticizzazione. Il feticismo è la lotta per la riproduzione del capitale, la defeticizzazione è la critica anticapitalista.
Il denaro, ad esempio, si presenta come una oggetto, ma sappiamo che è una forma di relazione sociale, una modalità di esistenza delle relazioni sociali. È una forma feticizzata o “reificata” (trasformata in oggetto, n.d.t) di relazioni sociali antagoniste. La sua esistenza come oggetto nasconde un antagonismo, una lotta che probabilmente uccide migliaia di persone ogni giorno. La monetizzazione delle relazioni sociali porta alla morte per fame, per esclusione dalle cure mediche, a causa della violenza che la ricerca del denaro genera. E naturalmente c’è una costante opposizione a questa feticizzazione delle relazioni sociali, quando le persone rubano il cibo, o lottano contro la monetizzazione dell’assistenza sanitaria, o creano relazioni di solidarietà che vanno contro la monetizzazione di tutto. Quindi possiamo vedere che tutte queste forme sociali sono processi improntati all’antagonismo, aggressioni che incontrano resistenze.
Questo è un argomento teorico, ma rientrava nel fermento politico degli anni Settanta. L’ondata delle lotte che associamo al 1968 era ancora molto presente e noi volevamo intendere il marxismo come una teoria della lotta, non come una teoria delle cause oggettive dello sviluppo sociale. Molto importante era anche il movimento operaista in Italia e l’insegnamento di persone come Negri e Tronti che la teoria marxista doveva partire non dal movimento del capitale ma dal movimento della classe operaia. Non sono mai stato completamente d’accordo con loro, ma la loro enfasi sul marxismo come lotta è fondamentale.
Ho presentato le mie idee sullo Stato come forma-processo in un articolo scritto per una conferenza sullo Stato capitalista a Puebla, in Messico, nel 1979. Questo mi ha portato a lavorare all’università di Puebla dal 1993. Poi è arrivata la meravigliosa rivolta zapatista del 1° gennaio 1994. E hanno detto, e dicono, che vogliono cambiare il mondo senza prendere il potere. Una meravigliosa luce nel cielo che può essere vista in ogni parte del mondo.
Nella tua ricerca accademica, la tua critica del capitalismo differisce dalla critica dell’economia politica di Marx, enfatizzando in particolare la dimensione soggettiva. Perché? Ci sono ragioni pratiche o teoriche per questo?
No, non credo che la mia critica del capitalismo differisca da quella di Marx. Forse mi piace stiracchiarlo un po’ per fargli dire quello che voglio io, e quello che lui voleva veramente dire anche se non l’ha detto, ma questo non significa che la mia critica differisca dalla sua. Penso che dobbiamo leggere Marx, o qualsiasi altro autore, in modo critico, per spingerlo un po’ oltre sé stesso. Marx, come ogni autore, è autocontraddittorio. A volte capisce sé stesso e a volte no, e allora ha bisogno del nostro aiuto.
Marx intendeva la sua teoria come parte della lotta della classe operaia, e noi intendiamo le nostre teorie allo stesso modo. Pensare alla lotta significa pensare a un soggetto che si muove contro un oggetto. L’oggetto è la società capitalista che ci circonda, la società in cui viviamo, un mondo terribile e crudele di sfruttamento e distruzione che ci sta portando verso la possibile estinzione. Vogliamo uscirne e vogliamo che Marx ci aiuti.
E lui ci aiuta per davvero. Marx dice ai compagni del movimento operaio del suo tempo: “Le nostre lotte sembrano infinite, ma c’è speranza. Questa speranza risiede nelle contraddizioni del sistema capitalistico, nel fatto che è instabile e fragile, che si regge su una tendenza permanente alla crisi”. Il marxismo è una teoria della crisi. Non è che abbia una teoria della crisi, è una teoria della crisi, dell’instabilità e della fragilità del sistema. Ora. La speranza non è nel futuro, come nell’idea che il conflitto tra le forze di produzione e i rapporti di produzione porterà un giorno alla transizione al comunismo. Il conflitto è adesso, il conflitto tra le forze produttive, con le quali non intendo la tecnologia come qualcosa di esterno, ma la nostra ricchezza, la nostra capacità creativa, il mondo che potremmo creare, e le relazioni sociali esistenti di un mondo dominato dal denaro, dal capitale.
C’è un’instabilità strutturale nel cuore del capitalismo: è questo che ci dice Marx. Qual è questa instabilità strutturale? Siamo noi. Questa deve essere la risposta. Noi siamo questa instabilità strutturale, il nostro rifiuto di conformarci, il nostro rifiuto di obbedire. Questo è importantissimo perché il capitale dipende da noi. Il capitale dipende da noi, dipende dalla nostra obbedienza: questa è la teoria del valore del lavoro di Marx. Il valore, e quindi il capitale, sono prodotti dal lavoro. Quindi il capitale dipende dal lavoro. Dipende dal persuaderci, in un modo o nell’altro, a dedicare la nostra vita-attività al lavoro per produrre valore. E se diciamo di no? Cosa succede se diciamo “No, mi dispiace, oggi faremo qualcos’altro con la nostra vita, oggi giocheremo con i nostri figli, o andremo in spiaggia, o staremo a letto a fare l’amore”? Allora non ci sarebbe valore e non ci sarebbe capitale. Il capitale dipende dal nostro lavoro, questa è la sua debolezza.
E non è solo che il capitale dipende dal nostro lavoro, ma che è anche che dipende dal farci lavorare sempre di più. C’è una dinamica incorporata nel valore. Il valore, ci dice Marx, è misurato dal tempo socialmente necessario per produrre una merce. E questo tempo diminuisce continuamente, grazie alla nostra ingegnosità e soprattutto perché i capitali introducono macchinari per produrre le merci più rapidamente. Questo porta a quello che Marx chiama aumento della composizione organica del capitale, un cambiamento nella proporzione tra capitale costante e variabile, che porterà a una caduta del tasso di profitto, a meno che il tasso di sfruttamento non aumenti in misura sufficiente a compensarlo. Ciò significa che il capitale non dipende solo dal nostro lavoro, ma anche dal farci lavorare più velocemente. Questo è importante perché sembra che, nonostante i cambiamenti nella tecnologia e nell’organizzazione del lavoro, persino lo standard 996 in Cina di cui ho letto, non si produca abbastanza plusvalore per mantenere la remunerazione del capitale.
I profitti si mantengono attraverso l’espansione del debito, cioè facendo affidamento su un plusvalore che non è ancora stato creato. Lo sviluppo del capitale è sempre più fittizio perché non produciamo abbastanza valore, perché non lavoriamo abbastanza, perché vogliamo giocare con i nostri figli o bere il tè con i nostri genitori o abbiamo problemi di salute mentale o semplicemente perché siamo troppo stupidi per capire gli ultimi sviluppi dell’intelligenza artificiale o il nostro inglese non è abbastanza buono. Il capitale ci chiede sempre di più e noi diciamo “No, non possiamo farlo, non vogliamo farlo”. Questa è la crisi del capitale, questa è la nostra speranza.
Il grido, il cambiare il mondo senza prendere il potere, le crepe, la speranza… sono al centro della tua scrittura. Puoi introdurre brevemente ciascuno di questi concetti?
Il grido è il punto di partenza. Guardiamo il mondo che ci circonda e gridiamo: No, non può essere! Vediamo ciò che sta accadendo a Gaza e urliamo. Vediamo l’oscena disuguaglianza e il potere crescente dei miliardari e urliamo. Guardiamo l’intensificazione del carico di lavoro e vediamo come questo sia legato a un’ondata di malattie mentali e urliamo. Guardiamo alla militarizzazione in atto in tutto il mondo e urliamo. In ognuno di questi casi urliamo: c’è qualcosa di fondamentalmente sbagliato nel mondo! E pensiamo e leggiamo e arriviamo alla conclusione che ciò che non va è che il mondo è governato dal denaro, dal capitale. E da lì ci rendiamo conto che il nostro pensiero, la nostra teorizzazione, i nostri tentativi di capire il mondo non derivano dal fatto di starsene seduti sulla luna al di fuori della società, ma dall’essere parte di questa terribile società. La nostra teoria nasce dal nostro urlo e fa parte del nostro grido. E il grido fa parte della lotta universale per creare un mondo diverso, un mondo basato non sul denaro ma sul riconoscimento reciproco delle nostre dignità.
E poi le crepe, che nascono dal gridare. Noi gridiamo, ma cosa facciamo con le nostre grida, a parte scrivere articoli sulla teoria marxista o rilasciare piacevoli interviste come questa? Dove indirizziamo il nostro malcontento sociale, la nostra rabbia? Soprattutto dopo la caduta dell’Unione Sovietica, c’è stata una crescente consapevolezza che non è attraverso lo Stato che possiamo realizzare un cambiamento radicale. Manifestiamo il nostro malcontento e lo Stato ci dice “sì, lo capiamo e ora andate a casa, risolveremo il problema”. Ma lo Stato non può risolvere il problema principale, e cioè il fatto che siamo governati dal denaro, dalla corsa al profitto. Lo Stato non può risolverlo perché a sua volta fa parte del regime del denaro. Sempre più spesso i contestatori evitano lo Stato e trovano il modo di creare il mondo in cui vogliamo vivere. Qui e ora, senza aspettare il futuro. Le persone creano spazi che non sono dominati dal denaro, che vanno contro la gerarchia autoritaria della società capitalista. Ci sono diversi modi per descrivere questo fenomeno. Queste lotte sono spesso viste come anticipatrici, perché la loro organizzazione prefigura il mondo che vogliamo creare. Oppure possono essere viste come isole o arcipelaghi di comunismo, o come spazi autonomi, o come beni comuni. Ne parlo come di crepe perché è importante mantenere una negatività, per non dimenticare che si tratta di lotte contro il capitalismo. Quindi le vedo come spaccature nella struttura del dominio capitalista.
Queste crepe possono essere grandi, come il movimento zapatista che da più di trent’anni sta plasmando un’importante area del Sud-Est del Messico in direzione anticapitalista, o il movimento curdo che sta attuando quello che chiamano “confederalismo democratico” nel Rojava, nel nord-est della Siria; oppure possono essere più piccole, come alcune città del Messico che lottano da anni per cacciare i narcotrafficanti e lo Stato che li sostiene e per fondare la società su basi diverse, o la lotta che dura da un anno a Lützerath, in Germania, per fermare l’espansione di una miniera di carbone e stabilire un diverso tipo di comunità; o ancora possono essere piccolissime, come un gruppo di studenti che si riunisce e decide che, dopo la laurea, non vuole vendere la propria vita al capitale, ma vuole fare qualcosa che abbia un senso per loro, e cerca di trovare il modo di farlo. Tutti questi movimenti sono contraddittori perché esistono in un mondo governato dalla logica del denaro. Ma esistono, ed esistono ovunque. Le persone cercano continuamente di camminare in direzione contraria, di andare contro la logica del profitto. Fa parte della vita quotidiana. Abbiamo parole diverse per definirlo: sodalizio, amicizia, amore. È una forza molto potente nella società che dice “denaro, stai fuori da questa relazione, non ti vogliamo qui, non tratteremo i nostri figli o i nostri amici come merci”. Credo che l’unica possibilità di rivoluzione anticapitalista passi attraverso il riconoscimento, la creazione, l’espansione, la moltiplicazione e la convergenza di queste crepe.
Nel mio libro Crack capitalism[5], sviluppo l’idea della rottura nel capitalismo riprendendo l’idea di Marx della duplice natura del lavoro. Marx distingue tra lavoro astratto, quello che produce valore, e lavoro utile o concreto, quello che produce valore d’uso. Vedo le rotture come spazi in cui rifiutiamo il lavoro astratto, o alienato, e cerchiamo di dedicare la nostra attività a fare ciò che consideriamo utile o piacevole. Il capitalismo si basa sul lavoro che produce valore, sul lavoro astratto. La lotta contro il capitalismo è la lotta contro il lavoro, la lotta per un mondo in cui siamo noi a stabilire la nostra attività.
Siamo quindi arrivati alla terza parte della tua domanda, quella relativa al cambiare il mondo senza prendere il potere. Se lo Stato è una forma specificamente capitalista di relazioni sociali, destinata a promuovere l’accumulazione del capitale e quindi a imporre il lavoro su altre forme di attività, allora non può essere lo strumento per liberarsi del capitalismo. Dobbiamo pensare ad altre forme di organizzazione: sono le crepe di cui ho parlato prima. Il vecchio concetto di rivoluzione si basava su una formula: costruire il Partito, e magari un esercito rivoluzionario, prendere il controllo dello Stato, quindi cambiare la società. Questa idea non funziona. Se guardiamo all’Unione Sovietica, ha portato alla creazione di una società molto autoritaria. Non farò commenti sulla Cina… Tuttavia, il problema per noi che diciamo “non attraverso lo Stato” è poi la risposta che si presenta: “Ok, ma come?”. L’idea delle crepe è il mio tentativo di suggerire una risposta. Ma non è ovvio che siano sufficienti. Molte lotte perdono la prospettiva del superamento del capitalismo. C’è una chiusura del mondo. Diventa più difficile immaginare un mondo al di fuori del capitalismo. Si assiste a una perdita della speranza rivoluzionaria. La speranza è al centro della mia idea di marxismo. Il marxismo mantiene viva la speranza di poter creare una società basata sul riconoscimento reciproco delle nostre dignità, un mondo che non sia basato sul dominio del denaro. Prima ho detto che un libro che mi ha influenzato molto è stato Il principio speranza di Ernst Bloch. Si tratta[6] di un bellissimo libro di circa 2.000 pagine in cui Bloch evidenzia la centralità della speranza nella spinta verso una società migliore e il modo in cui essa può essere vista in ogni tipo di attività come le fiabe, la musica, la danza, l’architettura, la teoria politica, la religione e così via. La speranza ha una base materiale: manifesta l’esistenza presente di ciò che non esiste ancora. Il non-ancora esiste già come forza che spinge verso la società che vogliamo creare: si esprime in tutto il meglio della cultura umana, e anche nelle lotte operaie e anticapitaliste che spingono verso quel futuro possibile. Nel mio ultimo libro, Hope in Hopeless Times (La speranza In un tempo senza speranza)[7] suggerisco che la forza del non-ancora si esprime anche nella fragilità del capitale, e soprattutto nell’espansione a lungo termine del debito.
Ma la speranza non è una garanzia. Non accetto l’ottimismo a lieto fine del materialismo storico tradizionale, l’idea che l’umanità passi attraverso le fasi della schiavitù, del feudalesimo, del capitalismo per poi finire nel comunismo. La lotta è per arrivare a una sorta di società comunista, ma non c’è nessuna certezza che ci arriveremo. La storia non è dalla nostra parte. Al contrario, la storia sembra portarci verso l’estinzione. Ecco perché la speranza è così importante, perché è così importante rompere la dinamica dello sviluppo capitalista.
Per quanto riguarda il termine ‘“aperto” nella collana Open Marxism (Marxismo aperto, volumi non tradotti in italiano, n.d.t.)[8], che tipo di cambiamento concettuale pensi che porti nella rottura con il capitalismo?
Direttamente e indirettamente, ho partecipato alla pubblicazione di una serie di quattro libri chiamati Open Marxism, il primo nel 1992, l’ultimo nel 2022. In generale, si tratta di esplorazioni di un marxismo non dogmatico, senza una definizione precisa di “aperto”. Ma per me il termine “aperto” ha un significato più specifico: si riferisce alla comprensione dei concetti del marxismo e di tutti i concetti come concettualizzazioni di processi di lotta. Così, come ho già detto, il denaro è una lotta, il valore è una lotta, lo Stato è una lotta per imporre certe forme alla nostra attività quotidiana. Queste forme hanno una forza molto grande che deriva dalla loro coesione, ma stimolano anche un’opposizione continua.
Resistiamo all’imposizione del concetto di valore nelle nostre attività di ogni giorno, imprecando quando suona la sveglia al mattino, trovando scuse per passare più tempo con i nostri figli, opponendoci a progetti che aumentano i profitti distruggendo le comunità, e così via. La logica del denaro governa la società, ma è sempre messa in discussione, sempre contrastata. In questo senso, le categorie del marxismo sono aperte, sono concettualizzazioni di processi antagonisti, processi di lotta.
La lotta anticapitalista non è estranea al concetto di valore o alle categorie dell’economia politica che Marx critica. Criticare il valore, come fa Marx, significa dire che è una relazione sociale che si presenta come un oggetto, ma questa relazione sociale è una relazione antagonista, una relazione di lotta. Ciò significa che uscire dal capitalismo, la tua domanda, richiede di sviluppare l’opposizione che è già presente in queste forme e di dire No al valore, No al denaro, No allo Stato. Tutti questi No sembrano folli, ma in realtà sono sempre presenti, nel modo in cui viviamo e nelle lotte che scoppiano continuamente.
Oggi la globalizzazione guidata dal capitalismo ha messo in crisi la stessa sopravvivenza umana. Qual è la tua valutazione complessiva dello sviluppo del capitalismo? Come possiamo liberarci dal capitalismo?
Sì, il capitalismo ha messo in crisi la sopravvivenza umana. È sempre più evidente che la domanda è “possiamo sopprimere il capitalismo prima che il capitalismo sopprima noi?”. La risposta, ovviamente, dipende da noi. Non vedo il capitalismo come quel sistema così solido che sembra essere. Lo vedo fragile, incapace di generare il plusvalore necessario a garantire il proprio futuro, sempre più dipendente dal debito, cioè dalla scommessa di poter produrre in futuro il plusvalore di cui ha bisogno per sopravvivere oggi. Ma la fragilità non significa che stia per crollare. Penso piuttosto che la fragilità lo renda più volatile, più inefficiente, più violento, con crescenti tensioni tra gli Stati e la possibilità di una guerra globale e catastrofica.
Sono tempi difficili.
Come possiamo liberarci dal capitalismo? Rifiutando, dicendo di no. Il capitalismo esiste oggi perché lo facciamo noi. Dobbiamo trovare il modo di non farlo. Se smettiamo di riprodurre il capitalismo, questo cessa di esistere. Per smettere di realizzare il capitalismo, dobbiamo realizzare qualcos’altro, creare altre forme di convivialità. O meglio, sviluppare le forme di convivialità che già esistono in forma embrionale, contro e oltre il capitalismo.
Nella tua domanda, citi la globalizzazione. E sì, la globalizzazione capitalista è un disastro, ma la globalizzazione guidata da noi è una gioia. Tra di noi ci stiamo globalizzando. Per me, che sto in Messico, rispondere alle tue domande e pensare che le mie risposte saranno lette in Cina è uno stimolo enorme, un piacere immenso. Grazie, Sun Liang.
Hai detto che il destino del capitalismo dipende da noi, quindi se dicessimo semplicemente “no”, il capitalismo entrerebbe in crisi. Tuttavia, il problema è che il rifiuto di una sola persona non porterebbe ad alcuna crisi per il capitale. Solo quando tutti si uniscono per diventare un “noi” collettivo, allora questa crisi può accadere. Quindi, nel contesto odierno, come è pensabile che le persone si uniscano e dicano collettivamente “no”?
La rivoluzione dei miei sogni sarebbe che tutti facessero le valigie e andassero al mare o in montagna per un mese e che al ritorno non ci fosse più il capitalismo. Ma naturalmente questo è solo un sogno. Penso invece che dobbiamo prendere sul serio l’idea che la teoria del valore del lavoro sia una teoria sulla dipendenza del capitale da ciascuno di noi. Per pensare alla rivoluzione dobbiamo capovolgere il mondo e vedere che i governanti dipendono dai governati, i padroni dipendono dagli schiavi. Nel capitalismo, il capitale dipende dai lavoratori che producono valore. Dipende dal fatto che l’attività umana viene convertita in lavoro astratto, cioè in lavoro che produce valore. Il lavoro astratto che produce valore diventa sempre più esigente, è ogni giorno un “produci sempre di più, sempre più velocemente” e richiede la subordinazione di tutta la vita umana e non umana alla logica del valore. E questa accelerazione della determinazione del capitale a produrre valore suscita un’opposizione ovunque nel mondo. L’opposizione si manifesta in tutti i modi: restando a casa, sabotando il lavoro, scioperando, lamentandosi con gli amici. Questo deve essere il punto di partenza per pensare a come rendere effettivo il rifiuto del lavoro. E sì, richiede organizzazione. Non, o non solo, attraverso i sindacati tradizionali, perché i sindacati non sono anti-lavoro: convertono il rifiuto popolare del lavoro in richieste di salari più alti o di condizioni migliori, che sono importanti, ovviamente, ma accettano il contesto del capitalismo.
Come pensare allora all’organizzazione di un “noi” collettivo? Penso che stia accadendo ovunque, in molti modi diversi, nelle crepe, ma non abbastanza da minacciare la riproduzione del capitalismo. Nel mio nuovo libro, La speranza, in un mondo senza speranza (qui un capitolo: Imparare a pensare la speranza), cerco di approfondire l’argomento dimostrando che i nostri dinieghi sono molto più potenti di quanto non sembri e che costituiscono l’attuale crisi del capitale. Ma non è sufficiente. Il punto di partenza per parlare di rivoluzione anticapitalista è dire “non sappiamo come fare”. Cinquant’anni fa i rivoluzionari pensavano di saperlo, ma si sbagliavano e il loro “sapere” ha prodotto organizzazioni e società gerarchiche e autoritarie. Ora diciamo “non sappiamo come fare, abbiamo molta esperienza di lotte, di lotte che sono andate bene e di lotte che sono andate male, ma non abbiamo le risposte”. Solo dicendo questo, trasformiamo l’organizzazione anticapitalista. Quando diciamo “pensiamo questo, ma non lo sappiamo”, aggiungiamo “cosa ne pensate voi?”. E questo ci porta a una forma di organizzazione assembleare. Uno dei grandi detti degli zapatisti è “camminare domandando”. Andiamo avanti senza dire alla gente cosa fare, ma domandando. Domandiamo perché non abbiamo le risposte. Questa è già una rottura del capitalismo. E questo ci porta a un altro grande detto zapatista: “camminiamo, non corriamo, perché stiamo andando molto lontano”.
Non credi che questa sia una sorta di “rivoluzione estetica”? In realtà, non è che chi è veramente in grado di dire “no” sarebbe solo chi è finanziariamente libero e non dipendente dal lavoro per il denaro?
È un’ottima domanda. C’è sempre il rischio che un professore universitario produca solo un’idea molto comoda di rivoluzione, una sorta di “rivoluzione estetica”, come dici tu. Ma io non la penso così. Penso che il No sia molto radicato nella società. Può essere un No aperto, come negli scioperi o nei movimenti sociali che dicono No alla distruzione delle loro comunità da parte delle compagnie minerarie. Può essere un No più nascosto, espresso dal sabotaggio sul posto di lavoro, dalla lotta costante dei lavoratori per nascondersi dalla supervisione, o semplicemente da una malattia reale o simulata… mi dispiace, oggi non posso andare al lavoro, ho mal di schiena. Oppure a volte riconosciamo il potere del No solo vedendo la sua immagine speculare: perché tanta polizia, perché tanta disciplina nelle scuole, perché tanti supervisori nelle fabbriche? Sono tutte espressioni della paura del No. È certamente vero che un No completo è più facile se non si deve lavorare per guadagnare, ma c’è un No molto profondo presente a ogni livello della società.
Se non lavoriamo, non ci resta che aspettare la morte. La maggior parte delle persone non ha altra scelta che lavorare per il capitale, con l’obiettivo di mantenere la propria famiglia. Il “No” che hai citato, a mio avviso, si riferisce al proposito di conservare un senso di poesia nei nostri cuori. Tuttavia, la realtà non è qualcosa che possiamo ignorare, è qualcosa con cui dobbiamo confrontarci. In altre parole, “devo lavorare”: è questo che intendi? Naturalmente, capisco che ciò che sostieni è il “fare”, piuttosto che il tipo di lavoro subordinato al capitale come lo si intende al giorno d’oggi…
Sì! La poesia è molto importante. Raoul Vaneigem, il teorico situazionista che ammiro molto, dice che la rivoluzione è la poesia della classe operaia. Deve esserlo! La poesia è la rottura della grammatica della prosa, e la prosa è la grammatica del capitale, la grammatica che ci sta portando alla morte e forse all’estinzione. Il No, come dici tu, conserva un senso di poesia nei nostri cuori. È bello, e la speranza riempie i nostri corpi con la stessa poesia. Questa poesia è repressa dalla realtà del lavoro capitalista, ma non scompare. Rimane come una forza potente contro e oltre la realtà. È il non-ancora, il mondo possibile che non esiste ancora. E sì, la realtà è che dobbiamo svegliarci al mattino e andare a lavorare per il capitale. Ma la poesia del No resta nei nostri cuori, nei nostri corpi e nelle nostre menti. E spinge, e la spinta della nostra poesia costituisce la crisi e la fragilità del capitale. L’ultimo libro La speranza in un mondo senza speranza, sostiene che la nostra poesia si esprime nella forma poco poetica del debito in costante espansione, che è al centro dell’attuale crisi del capitale. Sì, la poesia della speranza si scontra con la realtà del lavoro capitalista, ma non è una relazione esterna. Non è solo poesia contro la realtà, ma poesia contro e oltre la realtà. Tu dice che “se non lavoriamo (o fatichiamo), non ci resta che aspettare la morte”. Ma la cosa terribile è che se ci limitiamo a faticare, allora stiamo aspettando la morte e stiamo vivendo la morte. C’è sempre qualcosa che non rientra nel lavoro, sempre qualcosa che trabocca. È lì che si trovano la vita, il No, la speranza, la poesia e la rivoluzione.
Note
- Il titolo corretto dell’opera di Bloch a cui si riferisce è in realtà Il principio speranza http://journal.telospress.com/content/1988/75/189.short , tradotto in italiano come Il principio speranza, a cura di Remo Bodei, Garzanti, Milano 1994; n.ed. 2004”. La filosofia della speranza è piuttosto il tema della sua filosofia. Per il riferimento bigliografico completo: vedi nota successiva al testo dove il libro viene citato con il titolo corretto.
- La prima edizione italiana di Storia e coscienza di classe dovrebbe essere del 1967, Sugar editore, traduzione di Giovanni Piana. Pubblicato poi su licenza da Mondadori editore nel 1973. Titolo originale dell’opera: Geschichte und Klassenbewußtsein, 1923. Riferimento: https://gyorgylukacs.wordpress.com/wp-content/uploads/2013/03/gyorgy-lukacs-storia-e-coscienza-di-classe.pdf
- Riferimento bibliografico: Holloway, John Daniel and Sol Picciotto. State and capital: A Marxist debate (1978).
- London Edinburgh Weekend Return Group, In and Against the State: Discussion Notes for Socialists, Editor: Seth Weeler; 192 pagine, Editore: Pluto Press, seconda edizione del 2021. ISBN: 9780745341811.
- John Holloway, Crack Capitalism. Edizione inglese: Pluto Press, 2010; Paperback ISBN: 9780745330082. Pubblicato in italiano con lo stesso titolo da Derive e Approdi, Roma, 2012, 256 pagine. Traduzione di Vittorio Sergi. ISBN: 9788865480441
- Titolo originale: Das Prinzip Hoffnung (3 volumi.: 1938–1947); Traduzione italiana: E. Bloch, Il principio speranza, trad. De Angelis E., Cavallo T., Ed. Garzanti Libri (collana Saggi), Milano 2005, a cura di Remo Bodei, ISBN 88-11-74054-1
- Edizione originale: John Holloway, Hope in Hopless Times, Pluto Press, ottobre 2022; Paperback ISBN: 9780745347349 Edizione italiana: John Holloway, La speranza In un tempo senza speranza, 2023 – Edizioni Punto Rosso – ISBN 9788883512919
- Open Marxism, collana a cura di Werner Bonefeld, Richard Gunn and Kosmas Psychopedis; Pluto Press editore, 1992-2022. Vedi: https://www.plutobooks.com/pluto-series/open-marxism/
Pubblicato su Chinese Social Sciences Weekly (6/2024). Traduzione di Silvia Giamberini per Comune.
Nell’archivio di Comune gli articoli di Holloway sono leggibili qui.
John Holloway e Silvia Giamberini hanno aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
Luigi Fasce dice
“Il capitalismo ha i secoli contati”Ruffolo.
Cosa ne pensate se propendessimo in Italia di atturae la Costituzione con modello di economia mista in cui prevale potere pubblico in economia finalità sociale e fresca di modifica costituzionale vincolo ambientale ? Che è poi l’attuale modello della Cina certo mantenendo sistema liberaldemocratico.
Luigi Fasce – Genova