Eccomi qui, finalmente sdraiato per terra nell’orto, a estirpare erba. Quest’anno ho fatto bene ad aspettare. Una settimana fa, ci ha raggiunto una nevicata di due giorni che ha ricoperto le piante di amarene e di prugne in fiore, e mi ha quasi disfatto il portico, al quale avevo già steso il telo ombreggiante in preparazione per i pranzi della bella stagione. Il povero glicine con i suoi fiori rigogliosi violacei che occupa una parte del portico è ricoperto dai almeno venti centimetri di neve pesante, l’immagine eloquente del Capitalocene, l’era in cui è evidente l’effetto della rincorsa sistemica al guadagno sui ritmi delle stagioni. Sono andato con il manico della pala a scrollare la neve dai rami degli alberi. Le loro foglie già grandi trattenevano la neve, e li facevano piegare fin quasi a terra. Molti rami si sono rotti in questo modo, e io nello scrollare mi sono preso qualche bella doccia finlandese.
Ma ora sono qui, la neve se ne è già andata, e alla vigilia del primo maggio non trovo di meglio da fare che rimettermi in rapporto diretto con la natura. L’orto è un piccolo quadratino, che mio padre a suo tempo fece recintare per tenere lontano dalla verdura i caprioli e i cinghiali che si aggirano nella zona. L’anno scorso ho trovato in una scatola a casa una di quelle stringhe di bandiere colorate buddiste, che con la mia compagna avevamo comprato durante un viaggio in India parecchi anni prima. Non sono buddista, e non pratico alcuna altra religione specifica, ma mi piace la pratica della meditazione e mi piace scoprire la saggezza insita in tutte le religioni e le correnti spirituali. Avevo legato la lunga fila di bandiere colorate tra un ciliegio e un pero dentro l’orto, cosi da attraversarlo in diagonale e i colori sgargianti delle diverse bandierine trasmettevano serenità e allegria. Quasi come una bandiera della pace. Dopo un anno, i suoi colori non sono più così accesi come allora, e il sottile cotone si sta sfilacciando. Si vede che avrà fatto il suo lavoro. Dicono che queste bandiere, una volta scosse dal vento, trasmettono buoni auspici al mondo, si saranno consumate per una buona causa.
Eccomi dunque qui sdraiato per terra. Ho messo una playlist di brani musicali sulla Palestina dal telefonino, e la cassa mi rimanda una cornucopia di stili musicali, dal rap al rock, da melodie con risonanze arabe alla tecno, ma tutte incentrate sulla questione palestinese, questione che di questi tempi mi occupa il cuore e la mente. Ma ora sono qui a strappare erbe. Sento l’odore della terra umida. Sto seduto per terra o sdraiato per raggiungere gli angoli più lontani, e stringo tra le mani inguantate fasci di erba da estirpare con un movimento secco. La natura è rigogliosa, e devo far spazio per le piante da mettere a dimora.
Le erbe da strappare sono tante. Mi ritrovo quasi senza pensare a sradicare di buona lena vista la quantità di piante che occupano le aiuole e, così facendo, mi trovo a relazionarmi con ognuna di queste specie viventi come se esse fossero un semplice numero. Ogni strappo aggiunge un fascio di fili d’erba al mucchio di cadaveri vegetali che accumulo di fianco a me. Mi ritrovo dentro un sistema di contabilità in cui ogni fascio di fili d’erba, e ogni filo d’erba dentro il fascio catturato dalla mia mano, opera come un indicatore statistico che mi dice quanto ne ho strappata rispetto a quella che mi rimane da strappare. La vita spontanea della natura qui mi si presenta come un intoppo alla mia vita. Ma poi mi accorgo di quelle piantine utili, del fatto che magari un po’ di copertura è meglio che la lascio per tenere l’umidità, che il trifoglio poi è una buona pacciamatura per il terreno. Ci sono piante utili che voglio lasciare, il cappuccio che si è auto-seminato, la cipolla che è nata da chissà che, la maggiorana che ho imparato a riconoscere, la calendula con i suoi allegri fiori arancioni che dicono faccia bene all’orto. E poi quella pianta che non ho mai visto prima, che fotografo per chiedere alla app di riconoscerla per me, e darmi un’indicazione della sua utilità o meno. Comincio così a vedere non solo erba nella sua generalità, ma la distinzioni tra erbe, e l’erba che mi circonda non è più semplicemente un aggregato statistico, ma una specie di macchina che lavora per me, una macchina non triviale direbbero i cibernetici. La mia mano inguantata che opera selezione è un input, e attraverso misteriosi meccanismi interni a questa macchina naturale, si genererà un output in forme e modi da me non programmabili. E continuo così, su questo nuovo livello di coscienza che orienta la mia azione.
Ma risiede tutto qui, mi chiedo, il nuovo rapporto con la natura? Considerarla una macchina non triviale? Certo, un avanzamento dal considerarla semplicemente un’aggregato statistico, un semplice numero sul quale operare. Ma anche un avanzamento dal considerarla una macchina triviale come fa gran parte dell’agribusiness, cioè una macchina i cui meccanismi interni sono ricondotti alla linearità della programmazione: tot input (fertilizzanti, acqua, diserbanti) = tot output. In tutte e queste tre modalità, (aggregato statistico, macchina triviale e non triviale), il mio rapporto con queste forme viventi è un rapporto tra l’io e l’alterità che vede quest’ultima come un oggetto tangibile che deve essere manipolato al fine di raggiungere le mie finalità. Ma il rapporto tra l’io e l’alterità può essere anche uno in cui ci si sente in qualche modo relazionati ad altre forme viventi. Non più io e questo, ma io e tu, piccola piantina. Cioè, sto filo d’erba, questa radice, questa pianta li riconosco nella mia coscienza come esseri sensibili, al pari di me anche se in forme diverse da me, forme comunque alle quali non ho accesso nel mio vissuto, perché io non sono te. Ma questa semplice consapevolezza, cambia il mio modo di rapportarmi a quest’erba rigogliosa. C’è una comunanza anche con la zizzania, una comunanza che certamente non oblitera o esaurisce la nostra distinzione, ma che è comunque li ad invocare un dialogo, una comunicazione. Non mi sento più solamente un osservatore distaccato delle piante, ma coinvolto in un rapporto con esse, un coinvolgimento, un dialogo dove io mi sento in posizione di decifrare ciò che mi vuol comunicare questa piantina e tu piantina dovrai decifrare nei tuoi modi e forme a te specifiche quello che ti voglio comunicare. Ti lascio allora qualche radicina, ti lascio la possibilità di ricrescere, di uscire ancora all’aperto, così ci rincontreremo fra qualche settimana, e vediamo a cosa conduce il nostro dialogo, come si sviluppa la nostra storia. In questo modo il nostro rapporto non è dato una volta per tutte, ma ha la possibilità di evolvere in un processo di mutuo aggiustamento, dove non c’è nulla di predefinito o di stabile, eccetto il fatto che entrambi operiamo selezioni che ci portano a cambiare qualcosa nel mondo dove operiamo e che entrambi abbiamo una propensione a volere preservare se stessi. Allora, proviamo a farlo in qualche modo attraverso un dialogo, per quanto sia possibile un dialogo tra un umano e delle specie vegetali.
Ma così facendo, io rimango io e tu piantina rimani tu. Nel nostro dialogo, ognuno di noi parla la propria lingua e crea un mondo che a ogni iterazione del nostro rapporto include il mondo dell’altro. Manca però ancora qualcosa tra questa iterazione tra tu ed io, non sento ancora la pienezza di un rapporto. Tra tu ed io, possono viaggiare degli inganni, possiamo in qualche modo presentarci all’altro con la maschera che nasconde il vero sé, con le sue intenzioni. Non posso dir nulla sul punto di vista della piantina, ma per per quanto mi riguarda quando curo una pianta nel mio orto, la innaffio regolarmente, gli tolgo le foglie secche, la pulisco dalle altre erbe che la soffocano, ho un secondo fine, quella di mangiarmela o di mangiarmi i suoi frutti! Se la pianta ne sia o meno consapevole non cambia nulla al mio rapporto con lei. Non è puro amore quello. Il soggetto che cura qui, e per far questo entra in qualche tipo di dialogo con la piantina, ha un fine interessato ben specifico. Allora bisogna allargare il campo di osservazione: bisogna andare dal tu ed io, all’io e te, espressione non grammaticalmente corretta, ma al bando la grammatica in questo caso. L’accademia della crusca ci dice che a differenza del tu che è obbligo come soggetto, il te si usa nei complementi, come quando si dice io faccio questa cosa con te. La Treccani online che ho consultato aggiunge poi che il te si usa nelle comparazioni di uguaglianza, dopo come e quanto. Mi fermo qui. Io e te ci rimanda al tempo stesso all’idea di condivisione in un processo di vita, e di misura delle cose di questo processo di vita. Ciò che condivido con te bella piantina (a parte il tot percento del dna e queste cose grossolane), è che siamo entrambi qui su sto pianeta, ed entrambi vogliamo vivere bene, e stretti in questo rapporto ci misuriamo a vicenda. Se io sono con te, devo essere onesto. E allora lo ammetto, ti devo mangiare alla fine, e questo sarà il tuo contributo alla mia costituzione in quanto soggetto, e per questo non posso che essertene grato. Allora goditi questa cura che ti offro al massimo della mie abilità, e vivi bene.
Ora, io non so cosa diresti tu bella piantina se potessi parlare. Anche tu mi riveleresti una parte di te a me sconosciuta e in questo modo rivelare qualcosa di me? Così sembrano dire gli sciamani in Amazzonia e i loro riti con l’ayahuasca. Però nella dimensione dell’io e te ci si può anche mettere nei panni dell’altro. Se io fossi te, bella piantina, come vivrei la consapevolezza di essere usato? Lo vivrei come un rapporto di potere, un abuso, un sopruso: se sono insalata, perché mi estirpi prima che diventi seme? E se sono pomodoro, perché cogli i miei frutti con tutta la fatica che ho fatto a farli crescere? E nessuno me lo ha neanche chiesto di entrare nel tuo stomaco!
Ne sento la responsabilità. Non mi rimane che una strada veramente, se voglio giocare il gioco della vita fino in fondo in questa relazione tra io e te. Ed è quello di ammetterlo, il nostro è anche un rapporto di potere, ma cerca di capire che né io né te abbiamo il ricordo di aver scelto di vivere su questo pianeta. Allo stesso tempo, né io né te possiamo scegliere il gioco che ci lega, anche se io posso scegliere il modo in cui mi relaziono a te, se trattarti come un semplice numero, una macchina triviale o non triviale, un tu con il quale dialogare in qualche modo, o un te con il quale mi sento di condividere una forma di vita ancora così tanto avvolta dal mistero che ci riapre alla dimensione dell’incanto in un mondo ormai così disincantato. O alla fine, tutti quanti questi modi insieme. Io dipendo da te, e tu, nella misura in cui sei in questo orto, dipendi da me. Da qui non si scappa. Se potessi allearmi con te e tu mi chiedessi di aiutarti a cambiare le regole d’ingaggio lo farei, ma non posso, posso solo offrirti il mio amore e la mia cura al massimo delle mie sensibilità e capacità.
Fuori da questo orto, le cose sono un po’ più complesse. Li i problemi nascono dal tipo di rapporto che certi umani hanno nei confronti delle altre specie viventi, inclusi altri umani, e che vedono prevalere forme di potere che trattano l’alterità come un semplice numero, una macchina triviale o non triviale, o al massimo un rapporto tra il tu ed io ma pieno di inganni e secondi fini (soprattutto orientati al guadagno). Insomma non una bella storia, ma ci ritorneremo. È giunta l’ora di innaffiare il basilico.
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