L’espressione “capitale naturale” si è affermata come altre affini, da “capitale umano” a “capitale sociale”. Tutto è capitale. Basterebbe questa semplice constatazione per rendersi conto di quanto il sistema di organizzazione socio-politico-economica oggi dominante sia diventato pervasivo e onnicomprensivo. Abbiamo bisogno di indagare le origini e le conseguenze di questo modo di concepire e rapportarsi alla natura. L’introduzione alla monografia raccolta nel primo numero della rivista Quaderni della decrescita
Il sintagma “capitale naturale” è diventato d’uso comune. Così come i suoi fratelli “capitale umano”, “capitale sociale”, “capitale di reputazione”, “capitale narrativo”… Tutto è capitale. Basterebbe questa semplice constatazione per rendersi conto di quanto il sistema di organizzazione socio-politico-economica oggi dominante sia diventato pervasivo, onnicomprensivo, totalizzante. Non c’è ambito materiale, relazionale, simbolico che non venga colonizzato dall’immaginario capitalista. Ogni “soffio di vita” entra in un qualche bilancio economico, produce ricchezza contabilizzata in moneta sonante. Una conferma – in fin dei conti – di quella «tendenza universalistica [e catastrofica, aggiungiamo noi] del capitale», prevista da Marx.
Con la presente monografia abbiamo cercato di indagare sia le origini che le conseguenze di questo modo di concepire e rapportarsi alla natura. Essendo il frutto di un processo complesso abbiamo chiesto ad esperte ed esperti di varie discipline (filosofia, storia, ecologia, economia, sociologia, diritto ecc.) e di diversa formazione culturale, ma munite/i di un solido bagaglio critico, di affrontare l’argomento in modo da trarne uno spaccato il più trans-settoriale possibile. Ci proponiamo di analizzare i modi attraverso i quali avviene la predazione, la dissipazione e la distruzione degli spazi vitali, ovvero delle basi biologiche di ogni forma di vita.
La concettualizzazione della natura come capitale non è priva di criticità e implicazioni, ovviamente. Innanzitutto, l’idea che la natura (“vivente” e “non vivente” – cioè morta – secondo una bizzarra tassonomia usata dai contabili) sia un insieme di beni (stock) e servizi (flussi) ecosistemici la pone come un oggetto esterno e separato dall’osservatore umano. Da qui il passo è breve nel considerarla “res”, materia, risorsa cui l’umanità può attingere per il proprio esclusivo tornaconto. Torna qui in mente un classico tra i classici della letteratura ambientalista, John Muir:
«Ci viene raccontato che il mondo fu creato appositamente per l’uomo – una congettura non corroborata dai fatti. Numerosi uomini rimangono spiacevolmente sorpresi quando trovano nell’universo divino qualcosa, non importa se viva o morta, che in qualche modo non possono mangiare o rendere – come dicono – utile ai propri fini» (J.Muir. Il posto dell’uomo nell’universo, 1916).
Il rischio evidente di una postura antropocentrica è quello di perdere di vista le relazioni vitali che legano indissolubilmente tra loro ogni entità sulla faccia della Terra.
Il rischio successivo è quello di perdere il senso del limite nella smania di sfruttare al massimo i sistemi naturali che, per quanto immensi e munifici, non sono illimitati o, per usare un’espressione oggi in voga, sono iscritti in “confini planetari”. Infine, il pregiudizio antropocentrico porta a sopravvalutare e mitizzare le capacità di controllo/dominio dei processi naturali da parte dei gruppi dominanti del genere umano. E qui entrano in scena gli strumenti della governance del mondo: le tecnoscienze e – in particolare – l’economia.
Serve quindi iniziare cercando di capire quali sono le origini dell’approccio riduzionistico e utilitaristico.
Lo abbiamo chiesto ad un filosofo morale, Roberto Mancini, che studia le antiche aporie della cultura prevalsa nell’Occidente e a Luigino Bruni, storico del pensiero economico che da studioso di teologia sa cogliere la dimensione non economica del «ricevere, custodire, accudire, gestire» la casa comune. Ma prima ancora abbiamo fatta nostra la tesi ecofemminista, sostenuta qui dall’economista e sociologa tedesca Claudia von Werlhof, secondo cui vi è un progetto utopico (nel senso letterale negativo di u-topos = nessun luogo concreto dell’abitare) portato avanti da un mondo androcentrico, che pensa di poter fare «senza madri – senza Madre Natura». Un mondo post-umano di cui le tecnologie geo e bio ingegneristiche sono la punta della lancia. Di Claudia von Werlhof riportiamo anche un estratto di un saggio già apparso nella rivista DEP di Ca’ Foscari, dove, partendo da Rosa Luxemburg, viene spiegato il processo di «accumulazione originale permanente» nelle fasi coloniali e imperiali del capitalismo. Segue il saggio della sociologa Alice Dal Gobbo che iscrive la prospettiva ecofemminista nei movimenti che si oppongono alla modernità capitalistica come «un unico grande progetto di dominio su scala globale».
LEGGI IL SAGGIO DI ALICE DAL GOBBO:
Le evidenze della crisi ecologica da mezzo secolo a questa parte, almeno, sono così evidenti per cui anche le teorie economiche hanno dovuto ripensarsi. Aldo Femia, economista, primo ricercatore all’Istat, e Tommaso Luzzati, economista, della European Association for Ecological Economics, ci introducono nella perigliosa navigazione della economia ecologica. Mentre con Paolo Cacciari, giornalista attivo nei movimenti ecologisti, entriamo nell’attualità dei processi in corso. Il punto di riferimento sono gli studi ecomarxisti della Monthly Review diretta da John Bellamy Foster, di cui traduciamo un saggio illuminante sulla finanziarizzazione degli ecosistemi. Aldo Femia, che fa parte del Comitato di Esperti di Contabilità delle Nazioni Unite e del Comitato per il Capitale Naturale italiano, e il suo avatar, Alfio Metadatis, ci illustrano con due saggi di rara precisione i meccanismi logico-contabili con cui gli ecosistemi e i servizi ecosistemici vengono a far parte della contabilità nazionale. Infine, affrontiamo i tre casi concreti, forse i più emblematici, della grande “operazione capitale naturale”: l’acqua, con il giurista Roberto Louvin; i certificati di emissione della CO2, con Riccardo Liburdi, responsabile della Sezione italiana del Registro per l’Emission trading system dell’Unione Europea; Aldo Femia sugli espropri dei popoli indigeni per conservare la biodiversità.
La storia, certo, avrebbe potuto andare diversamente. Il successo del capitalismo è stato travolgente, ma fondato sull’espropriazione violenta e sulla privatizzazione dei beni comuni. Per chiudere abbiamo cercato di capire, con Nicola Capone, filosofo del diritto attivo nei movimenti dei commons, come funzionano i dispositivi giuridici proprietari e come sarebbe possibile una costituzionalizzazione dei beni comuni.
Una noticina polemica su come solitamente (non) viene affrontato nella pubblicistica mainstream il nodo del capitale naturale chiude la monografia.
[Il collettivo di redazione della rivista Quaderni della decrescita]
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