È tempo di dare fiducia, speranza, confortare le nuove generazioni che lottano per il clima. La loro ribellione può passare per la terra: dagli orti, perfino quelli sui balconi, allo conservazione e allo scambio dei semi

Il 22 maggio è stata la Giornata Mondiale per la Biodiversità. Qualche giorno dopo, il 24 maggio, è stata la nuova giornata nelle piazze del mondo, anche qui in Italia, di mobilitazione contro i cambiamenti climatici. Abbiamo letto che si sta consumando la Sesta estinzione di massa nella storia geologica del nostro pianeta. Una perdita di biodiversità che nell’Antropocene, questa nostra era, dominata dalla specie homo sapiens senza altri competitori di specie animali, stiamo concorrendo a determinare sempre più velocemente.
Il pensiero ecologista, da sempre, si interroga sulle connessione tra i nostri comportamenti e ciò che accade intorno a noi. Pensatori come Gregory Bateson hanno messo in rilievo di come il nostro stesso modo di percepire il mondo, lo cambi, altri come Fritjof Capra hanno individuato il “punto di svolta” oltre il quale non si può più tornare indietro. Barry Commoner invitava a “chiudere il cerchio” ovvero a ripristinare quegli equilibri tra la nostra economia e l’ecologia spezzati da tempo. Insomma, omettendo solo per brevità di spazio, altri fondamentali contributi, il pensiero ecologista sin dagli anni Sessanta ha anticipato quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Un clima sempre più caldo, gli oceani di plastica, le foreste tropicali ridotte in maniera drammatica. Non sono mancati autorevoli analisti che hanno dichiarato la fine dei giochi. La Terra ce la siamo divorata, abbiamo già esaurito le risorse che avremmo dovuto lasciare in eredità alle future generazioni. Ricordiamo una associazione ecologista che si chiamava Kronos 1991, il suo nome originava dalla data, fatidica, entro la quale o si faceva marcia indietro oppure la corda si rompeva. Dunque, non c’è stata né mancanza di analisi, né lucidità di visione nel campo ecologista. Un pensiero che si è voluto olistico, il motto accettato presso tutti i movimenti verdi è stato “pensare globalmente, agire localmente”.
Generazioni di militanti si sono succedute, molteplici battaglie sono state combattute, alcune vinte insperabilmente: quella sull’acqua, per esempio, altre perdute, caccia e pesticidi, il discorso nucleare chiuso nel nostro Paese. Quanti comportamenti che erano addirittura sconosciuti sono diventati prassi normale: la raccolta differenziata, per esempio. E dunque, perché ne siamo alla Sesta estinzione di massa della biodiversità, parola difficile, diciamo dell’estinzione di milioni di specie vegetali, animali, una volta rigogliose, adesso condannate a sparire.
Il movimento ecologista, nel suo complesso, è stato come un movimento di umani che hanno”scoperto” la Terra, ne hanno scoperto la finitezza, i limiti, quello ecologista è stato spesso definito come un pensiero del limite. La terra, però, è anche quella che calpestiamo. La terra è soprattutto qualcosa di friabile sotto i nostri piedi. La terra è il terriccio scuro detto humus, parola che cela la stessa radice di humanus, e su questo punto, si è fatto molto ma non abbastanza.
Si può fare di più che coltivare senza veleni… Di fronte agli sconvolgimenti in atto bisogna dare a tutti la possibilità di cimentarsi con buone, possibili, immediate, piccole pratiche di salvataggio. Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera da un socio bergamasco della mia associazione, Civiltà Contadina. La conservo, breve ed illuminante. Questo nostro socio, molto semplicemente, presso il suo piccolo podere, liberato dai veleni, coltivato con amore, ricavò un piccolo stagno artificiale e dedicò un pezzo dell’orto interamente al selvatico. Il risultato, descritto nella lettera, fu che, nel giro di poche stagioni, ritornarono le rane, i ricci, le lucciole, uccelli di passo si fermavano e sostavano. Rivide le libellule, serpentelli, scoiattoli… Non ci vuole molto.
Attraversando la frontiera tra Austria e Italia, si spengono i cinguettii degli uccelli: noi gli spariamo in maniera massiccia e incontrollata. Ricavare tante oasi dove la microfauna selvatica possa stare in pace è un rimedio. Le poche rondini, ne conto nei paesini della mia valle non più di una dozzina per abitato, sopravvivono tutte sui campanili delle chiese o sulle vecchie torri. Difenderne i nidi, sotto i nostri tetti, serve a permettere loro di vivere e ritornare.
Il pensiero ecologista non si è fatto pensiero della terra, verde ideologicamente e per nulla o troppo poco marrone. Personalmente mi vergogno se non porto con me almeno qualche piantina, fosse una fragola o una melissa soltanto, quando mi invitano a parlare. La Terra è soprattutto quella che si coltiva.
Dare fiducia, speranza, confortare le nuove generazioni che lottano per il clima, deve passare dagli orti e in mancanza, dai balconi. Adottare, tramite le associazioni di seedsaver, qualche ortaggio destinato all’estinzione, significa opporsi, ogni giorno, nella quotidiana cura di qualcosa che si vede germinare e crescere sotto i nostri occhi, all’estinzione, portando in salvo un pomodoro, un cetriolo, un fagiolo. Sappiamo chi sono i nemici, sappiamo cosa sono le leggi della Grande distribuzione organizzata che hanno espulso dal mercato e dunque dai campi, migliaia e migliaia di antiche verdure. Sappiamo che ovunque si possa coltivare, partendo da un balcone, si può frenarne l’estinzione. Non dimenticando che la perdita della biodiversità è perdita di biodiversità culturale, linguistica, non dimentichiamo che le “monoculture della mente” si sono originate nei campi. La sparizione di pratiche millenarie di coltivazione e allevamento hanno comportato anche la sparizione di tutto l’incredibilmente ricco patrimonio folclorico che queste pratiche generavano. La biodiversità è nel riconoscere all’altro da sé il diritto alla vita. La biodiversità è nella profonda percezione della gioia nell’individuare grazie non solo nella delicatezza di una farfalla ma anche in un cervo volante o in un calabrone. Pronunciare questa parola senza associarla alla ricchezza di colori, di pelli diverse, di pensiero differenti dal nostro, svuota questo concetto di significato. Coniugare l’armonia tra ciò che siamo e sappiamo, il nostro interiore “coltivato” e ciò che invece è esterno e dunque “selvatico”, forestiero, proveniente dalla foresta e dunque “pericoloso” foriero di insicurezza, abbattere questo confine tra il dentro ed il fuori, riconoscere al vegetale, all’animale, riconoscendolo, prima di tutti, agli esseri umani, ad esistere e vivere e sognare esattamente come vorremmo fosse riconosciuto a noi, è affrontare dal giusto verso la questione della biodiversità che è la diversità, in fondo. Quella diversità minacciata dai nuovi fascismi risorgenti. Non è un caso che il pensiero suprematista non riconoscendo l’altro da sé, nega i cambiamenti climatici e persevera nello sterminio della fauna selvatica.
Un nesso profondo tra il riconoscimento e la necessità delle diversità nel nostro vivere quotidiano, tra il nostro “dentro e fuori casa” magari un bellissimo e variegato, profumato e colorato balcone, riduce il gap tra il nostro essere umani tecnologici e il meraviglioso selvatico che, nonostante tutto, ancora abita, fuori da noi.
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