L’1 e il 2 dicembre 1999 scattava il coprifuoco a Seattle, capitale dello Stato di Washington. Migliaia di riservisti della Guardia nazionale si stavano dirigendo in quella che sembrava essere una semplice contestazione di un summmit, ma che riuscì a entrare nella storia dei movimenti e rivoluzionò il modo di leggere la globalizzazione. Le stesse cause contro cui alzò l’onda lunga delle mobilitazioni le ritroviamo adesso in trattati di libero scambio come il T-Tip. Contro cui si sta nuovamente alzando molta della società civile europea e statunitense, con un unico obiettivo: bloccarlo, come accadde quindici anni prima ai negoziati della Wto
di Alberto Zoratti e Monica Di Sisto
Fu scomodata persino la Guardia Nazionale. Alcune centinaia di migliaia di ingrati ed idealisti avevano scelto di rovinare la festa del Millenium Round che si sarebbe dovuta tenere a Seattle ai primi di dicembre del 1999, durante l’ultima ministeriale del secolo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto). Da allora, tra gas lacrimogeni, Teamsters e tartarughe, Seattle non sarebbe più stata ricordata solo per la Boeing e i Nirvana, ma per aver dato i natali al più grande movimento antineoliberista della storia. Quegli ingrati erano i figli delle promesse mancate degli anni novanta, allevati con le favole della “fine della storia” e del “there is no alternative” (riferito al sistema neoliberista) e con le promesse mancate del NAFTA, il trattato di libero scambio tra Canada, Stati Uniti e Messico concluso solo cinque anni prima e che già allora mostrava i limiti di un accordo che premiava i soliti, impoverendo i più.
Quell’accozzaglia di persone che per le strade di Seattle si alleò con alcune delegazioni dei Paesi del Sud del mondo che stavano all’interno della Conferenza ministeriale, fu la causa del collasso dei negoziati commerciali, tra gli sguardi sconsolati di un Renato Ruggero, allora direttore dell’Organizzazione, e di un Piero Fassino, a quel tempo Ministro per il Commercio con l’estero, forte sostenitore delle politiche liberiste della Wto e precursore della linea economica dei suoi nipoti, politici e anagrafici, del PD.
Quel movimento vedeva le sue radici in un testo tanto semplice quanto diffuso. “Contro il capitale globale”, scritto a quattro mani da due sindacalisti americani, Jeremy Brecher e Tim Costello, che in tempi non sospetti parlavano di “strategia lillipuziana”: un’azione coordinata, concertata e reticolare avrebbe permesso ai piccoli cittadini lillipuziani di fermare il gigante Gulliver del sistema economico dominante. Ma quel movimento aveva raccolto la sua forza anche dall’affondamento dell’Accordo Multilaterale sugli Investimenti (il MAI), che adesso troviamo rinnovato e sotto celate spoglie in Accordi come il TTIP, il suo cugino transpacifico TPP o in Trattati come il CETA, appena concluso con il Canada.
Il fil-rouge che ha unito e tutt’ora unisce questi acronimi, e che in Seattle vide il momento catartico per movimenti che fino a quel momento stentavano a collaborare assieme, è il tentativo di concentrare in modo sempre maggiore la ricchezza e le risorse dal basso verso l’alto.
Inversione di tendenza
Il crollo del muro di Berlino, e le rivoluzioni neoliberiste degli anni ottanta, avevano consolidato l’inversione di tendenza che ormai si stava registrando dalla fine del decennio precedente Il flusso della ricchezza, fino ad allora gradualmente redistribuita, cambiò il proprio corso cominciando a rientrare nelle casseforti da dove stava uscendo. Nulla di meteorologico, ma di banalmente concertato e deciso. Le politiche nazionali di liberalizzazione e privatizzazione, ma soprattutto il profilo della globalizzazione per come lo si stava conoscendo a livello internazionale (prima il GATT poi la WTO, quindi accordi regionali come il NAFTA, il tentativo del MAI e seguire tutto il resto), ha creato le condizioni per questa imponente inversione di tendenza, dove il più chiaro indice è stato per molti Paesi industrializzati l’ampliamento della forbice tra salari e profitti.
Un mondo cambiato
Dal quel 1999 e dagli anni che seguirono, con eventi come la riunione annuale di Fondo Monetario e Banca Mondiale a Praga nell’ottobre del 2000 o il Summit del G8 genovese nel luglio del 2001, il mondo è totalmente cambiato, almeno nei suoi termini generali. I Paesi emergenti sono diventati non solo un fenomeno economico, ma anche un protagonista politico nei posti dove qualcosa, ancora, si decide. Il crollo del 2006 ha mostrato come un mercato senza limiti sia la causa di una crisi sistemica che colpisce tutto, dall’economia alla finanza, passando per il clima, l’ambiente e i diritti sociali. Ma quello che non cambia è l’offensiva delle lobbies economiche per imporre le proprie esigenze sulle aspettative dei più.
La crisi, per loro, è un’opportunità di consolidare il proprio privilegio. Come spiegava bene Naomi Klein nella sua Shock economy, sfruttare i momenti difficili per concentrare potere e ricchezza è una pratica assai diffusa, troppe volte svolta da Governi compiacenti e da un settore privato troppo ambizioso. Quanto sia permeante e condizionante il potere delle lobbies economiche presso i Ministeri o le varie direzioni generali della Commissione Europea è oramai cosa nota. Il lavoro svolto da organizzazioni come Corporate Europe Observatory (CEO), attraverso pubblicazioni come Lobbycracy ad esempio, è una finestra aperta sulla realtà. Ma la pressione dell’offensiva dei gruppi di interesse è, oggi come non mai, fuori controllo, almeno degli organismi democraticamente eletti.
E accordi di libero scambio come il TTIP, il trattato transatlantico tra Unione Europea e Stati Uniti; il TPP, quello transpacifico tra Stati Uniti e altri undici Paesi del Pacifico; il TISA, sulla liberalizzazione dei servizi; o il CETA, l’accordo tra Canada e Unione Europea (giusto per citarne alcuni) sono lo strumento usato per disarticolare diritti sociali, regolamentazioni, controllo democratico dell’economia, per mettere lo sviluppo delle comunità in mano ai mercati e alle grandi aziende.
Il T-tip. Un esempio solare
Il trattato transatlantico tra Unione Europea e Stati Uniti è forse uno degli esempi più significativi. Con le regolamentazioni come principale obiettivo, il rischio è disarticolare sistemi di protezione sociale, economie locali, cibo di qualità, in nome di una globalizzazione dei mercati e di una competizione sempre maggiore.
Utilizzando modelli econometrici con criticità evidenti, al punto che molti analisti di UNCTAD ne evidenziano i limiti, negoziati come quello sul TTIP vengono presentati come panacea per una crisi ormai sistemica, provando a far passare nell’opinione pubblica la convinzione che sia l’unica possibilità che abbiamo (There is no alternative).
Per far questo vengono evidenziati solo i presunti benefici, peraltro senza specificarli meglio (ad esempio non chiarendo che l’aumento percentuale del PIL, attorno alo 0.5% sarebbe medio, e a partire dal 2027), o tacendone gli impatti potenzialmente negativi, come il crollo degli scambi commerciali tra i Paesi membri dell’UE a vantaggio del commercio transatlantico o l’aumento esponenziale di prodotti agroalimentari a costo ridotto, che mettere in crisi interi comparti, anche e soprattutto di qualità.
Ma ancor peggio è la manipolazione sui capitoli negoziali. Dichiarando che i servizi pubblici sono esclusi dalla liberalizzazione, il Governo italiano e la Commissione europea provano a smorzare le legittime preoccupazioni dei cittadini. Peccato che nel “Mandato negoziale” concesso ai negoziatori questa esclusione non ci sia e che gli unici servizi dichiaratamente non negoziabili siano quelli audiovisivi.
Lo stesso vale per le regole sugli Organismi geneticamente modificati (OGM) la cui armonizzazione (assieme alle altre su altri standard) verrebbe demandata ad un organismo ad hoc che vedrebbe la luce a Trattato concluso e ratificato dal Parlamento Europeo e su cui lo stesso Parlamento avrebbe controllo limitato. A guardare le risultanze del CETA, considerato un accordo modello per lo stesso TTIP, le preoccupazioni sugli Ogm non si placano, perchè sia gli obiettivi che i termini di riferimento ricordano troppo da vicino l’approccio statunitense al rischio che non il principio di precauzione su cui si dovrebbe appellare l’Unione Europea.
Mentre sugli investimenti si proporrebbe un regime di protezione degli investitori talmente ampio che rischierebbe di condizionare persino l’operatività dei Governi e dei Parlamenti. Anche la versione più soft che vorrebbe sostenere l’Unione europea non considera l’enorme vantaggio che sarebbe comunque concesso alle imprese multinazionali straniere rispetto alle aziende locali e nazionali e l’indebolimento che risulterebbe su normative di protezione sociale, ad esempio sui diritti sindacali e di lavoro.
Bloccare il TTIP. Ben più che un obiettivo simbolico
Fermare il negoziato è non solo un obiettivo legittimo, ma assolutamente doveroso. Per fare parallelismi forse forzati, il TTIP rappresenta nello scenario globale una sorta di Kobane economica, è la soglia da non oltrepassare, è il confine da difendere strenuamente, perchè se passasse consoliderebbe per il futuro un nuovo profilo di accordi di libero scambio molto concentrati su standard e regolamentazioni che toccano mondi anche distanti dal banale scambio commerciale. Sebbene esistano già precedenti (quello con Singapore ed il Canada sono due esempi chiari), nessuno presenta questa magnitudine.
Bloccare il T-tip significa riprendere in mano l’eredità di Seattle, riaprire le pagine del libro di Brecher e Costello per riscoprire cosa significa, nel terzo millennio, essere cittadini e cittadine consapevoli. La strategia lillipuziana parla di reti, di mobilitazioni, ma anche di iniziativa dei singoli con ogni mezzo necessario.
Da ottobre è stata messa in piedi da parte di Governi, Commissione Europea e settori delle imprese una campagna di marketing sul TTIP che vedremo crescere nei prossimi mesi. E’ fatta di spot in televisione, di interviste alla radio o in trasmissioni televisive, di incontri pubblici organizzati dal Governo e dalle imprese in cui si evita il più possibile il contraltare della società civile. Di comunicazioni parziali o manipolate, come quella del Presidente della Commissione Agricoltura della Camera sui numeri dell’import agroalimentare dagli Stati Uniti, o quelle sull’impatto sulle piccole imprese, sull’inclusione dei servizi nel negoziato o sull’abbassamento degli standard qualitativi sul cibo che mangeremo.
Ma anche di banalizzazione di chi non è d’accordo, definito come “antiamericano” o “irrazionale”, in una deriva che non rende merito di quello che dovrebbe rappresentare un Parlamento. Anche nella sua concezione liberale.
La campagna Stop TTIP Italia sta lentamente smontando la mitologia del T-tip a partire dagli stessi dati e documenti proposti dal Governo, sta organizzando e sta partecipando a iniziative di sensibilizzazione in tutta Italia. A quindici anni da Seattle è cambiato un mondo, ma la tutela dei diritti delle persone, delle comunità e dell’ambiente dagli interessi delle grandi imprese rimane uno degli obiettivi prioritari di una mobilitazione diffusa e reticolare. Senza doppi fini, ma con la determinazione di fermare, costi quello che costi, l’ennesima svendita al primo compratore di turno.
daniela degan dice
grazie Monica, grazie Alberto,
ottimo lavoro. Siamo sempre nel cuore e nell’anima dei lillipuziani.
Alcune settimane fa alla assemblea nazionale contro il TTIP vedere tanti lillipuziani che continuano nei loro territori a lavorare con la stessa forza e la stessa metodologia e chiarezza di iDEE mi ha dato una marcia in più, mi ha sollevato il cuore …. ci siamo sempre, ovunque.
buona giornata di resistenza,
come sempre da tutti questi anni.
Daniela
iolanda dice
la memoria storica è un’arma potente che ci permette di attraversare il passato per cambiare la realtà presente, grazie !