L’opera filosofica di Teresa de Lauretis, docente universitaria in Italia e negli Stati uniti, resta uno strumento fondamentale per pensare il presente. “Sbirciare i suoi testi ci mette necessariamente in dialogo con autori come Althusser, Foucault e Derrida. Ma anche con la psicoanalisi, il cinema e la letteratura… – scrive Carolina Meloni, nel prologo della ristampa del libro (uscito in Spagna) Differenze. Tappe di un cammino attraverso il femminismo – De Lauretis è un raccoglitrice di diverse tradizioni filosofiche, politiche e femministe, transita e attraversa genealogie, intreccia e districa nozioni tanto complesse quanto contraddittorie… Fondamentali a questo proposito sono le sue analisi della differenza sessuale, la problematizzazione del soggetto del femminismo e dell’identità…”. Non è un caso che De Lauretis, nel suo esercizio di attraversamento dei confini, abbia rilevato i rischi di complicità del femminismo con le ideologie egemoniche. È stata lei tra le prime a riconoscere l’importanza del pensiero di alcune autrici nere, latine e chicane che smaschera l’arroganza teorica del femminismo anglo-europeo
“Se vivere la contraddizione è la condizione di esistenza di una soggettività femminista, analizzarla è la condizione di una politica femminista”
(Teresa de Lauretis)
Ci sono donne filosofe che emergono come una sorta di passaggio, che ci portano attraverso passaggi segreti, che ci conducono per mano attraverso concetti complessi e sviluppi teorici. Non è sempre facile entrare nella fitta foresta della filosofia. Ci sono autrici che viaggiano fino all’altra parte e ci rivelano tutto ciò che l’occhio strabico della storia non ci ha permesso di mettere a fuoco. Gloria Anzaldúa chiamava queste strane maestre nepantleras, “le attraversatrici di frontiere”, per la loro capacità di “diventare ponti”, di creare percorsi che uniscono genealogie diverse e costruiscono altre cartografie. Queste competenze teorico-politiche conferiscono loro anche una certa capacità profetica e rivelatrice del futuro. Questo tipo di metodologia-altra sarà definita da Teresa de Lauretis come “attraversamento dei confini”, nel senso di addentrarsi negli interstizi e nei margini dei discorsi egemonici, situandosi nelle loro crepe e contraddizioni.
Dobbiamo a de Lauretis quella lucida capacità di condurci sempre ai margini, di spingerci ai confini della teoria filosofica e del pensiero femminista. Sbirciare i suoi testi ci mette necessariamente in dialogo con autori come Althusser, Foucault e Derrida. Ma anche con la psicoanalisi, il cinema e la letteratura. Con tutti questi elementi, de Lauretis stringe una vera e propria alleanza concettuale che si concretizzerà nella sua concezione semiotica del genere. Ma, soprattutto, de Lauretis è un raccoglitrice di diverse tradizioni filosofiche, politiche e femministe; transita e attraversa genealogie; intreccia e districa nozioni tanto complesse quanto contraddittorie. Fondamentali a questo proposito sono le sue analisi della differenza sessuale, la problematizzazione del soggetto del femminismo e dell’identità, sempre intrappolata in quella macchina tecno-rappresentativa che è il genere.
Mettere in discussione l’idea di soggettività femminile
De Lauretis è stata una delle prime a rilevare la complicità del femminismo stesso con le ideologie egemoniche e gli apparati del sapere-potere. All’inizio degli anni Ottanta, molte voci cominciarono a denunciare le ombre che incombevano sulla casa del femminismo. Grazie alla lotta di autrici nere, latine e chicane, è stata smascherata l’arroganza teorica del femminismo anglo-europeo. Questo femminismo, nato dall’umanesimo imperialista e dall’Illuminismo, aveva manifestato fin dalle sue origini un marcato classismo e razzismo coloniale, ed era l’artefice delle più oscure esclusioni e complicità essenzialiste. De Lauretis farà eco alle proposte di Audre Lorde, Barbara Smith, Gloria Anzaldúa, Chandra Mohanthy e altri. E gran parte della sua teoria sul tema della coscienza femminista afferma di essere debitrice di quella tradizione, la tradizione delle altre silenziate, inappropriate, indigeste, anche per il femminismo stesso. Da qui la sua insistenza nel sottolineare l’importanza radicale delle sorelle nere e chicane in questi anni, alle quali attribuisce direttamente tutto il potenziale trasformativo che avrebbe portato all’inizio di una terza ondata.
Tutti questi elementi, concetti e prospettive diverse costituiscono gli articoli che compongono Differenze. Tappe di un camino attraverso il femminismo (Madrid, Horas y horas editorial, 2024). Un totale di sei saggi, costituiti da conferenze e articoli, scritti nell’arco di un decennio, dal 1986 al 1996. Questi saggi si collocano storicamente in un periodo davvero effervescente per il pensiero femminista, quando i dibattiti sulla questione dell’identità, del colonialismo, della razza e dell’intersezionalità erano in pieno svolgimento. Questo periodo ha visto anche la nascita di una teoria inquietante che emergeva dai margini dei discorsi dominanti e delle sessualità egemoniche, una teoria la cui prima definizione è stata data dalla stessa Teresa de Lauretis: mi riferisco alla cosiddetta teoria queer, espressione usata per la prima volta nel 1991 dalla nostra autrice nel numero 3 della rivista Differenze.
Ma Differenze non è solo un riferimento indiscutibile di un clima intellettuale e politico all’interno del pensiero femminista, è anche una testimonianza del percorso personale e di vita dell’autrice. La stessa De Lauretis colloca questi saggi all’interno di una vita segnata da viaggi teorici e fisici, da deviazioni e attraversamenti reali e immaginari tra la natia Italia e gli Stati Uniti. Non è quindi un caso che il primo dei testi che compongono l’opera intraprenda una sorta di viaggio o itinerario personale rispetto alle genealogie femministe che attraversano l’autrice. Questo testo potrebbe essere collegato, con una sorta di filo rosso quasi impercettibile, all’ultimo, che, a mo’ di chiusura, raccoglie non solo le proposte principali dell’intero libro, ma anche le discussioni e i dialoghi tra de Lauretis e il cosiddetto femminismo della differenza, nella chiara tradizione italiana. Da Woolf alle filosofe della Libreria delle donne di Milano, da Lorde a Monique Wittig, ma anche Angela Davis o il femminismo marxista, Differenze ci immerge in una genealogia femminista frammentata, discontinua, variegata; un itinerario politico e personale che ci ha insegnato a costruire altre narrazioni, a visitare altre scritture, a onorare memorie diverse.
Ed è proprio la questione della differenza che darà il ritmo all’intera opera. Come sottolinea la stessa de Lauretis, che si colloca umilmente nella tradizione meno elevata della filosofia rispetto alla poesia, è urgente “affrontare alcune questioni essenziali nella definizione del femminismo e delle sue differenze”. In questi saggi, ci sono tre modi di affrontare queste differenze: da un lato, de Lauretis ci invita ad attraversare i confini della stessa teoria femminista, percorrendo le sue geografie, le sue complessità teoriche, filosofiche, concettuali, politiche e metodologiche. Dall’altro lato, e come diretta conseguenza di questa genealogia critica del femminismo, sono essenziali gli articoli sul paradosso del soggetto del femminismo, aperto a una soggettività eccentrica e decentrata. In questo modo, la questione dell’identità sarà soppiantata dall’analisi radicale delle condizioni di possibilità in cui il soggetto stesso emerge. Infine, grazie a de Lauretis, abbiamo superato i confini del sistema sesso-genere. Riprendendo il concetto foucaultiano di tecnologia del sesso, nel senso di un “insieme eterogeneo di saperi” o di un dispositivo che produce un corpo come corpo sessuato, de Lauretis si concentrerà sulla produzione normativa del genere. Il corpo, oltre a essere sessuato, è generato, originato, prodotto e modellato in una complessa tecnologia di genere in cui il materiale della carne, della pelle e della vita si intreccia con il discorsivo e l’ideologico di un campo sociale eterogeneo.
“La teoria femminista – dcie De Lauretis – non è solo una teoria dell’oppressione delle donne”, dobbiamo quindi assumere che la trasformazione critica del femminismo contemporaneo risiede nella possibilità di concepire una soggettività multipla e contraddittoria. Questo è il senso storico del pensiero femminista che de Lauretis propone. E tale è l’importanza teorico-politica dei saggi che compongono Differenze: situarsi sempre al di là della differenza sessuale come orizzonte di senso e riprendere il “paradosso della donna”, lungo il percorso già iniziato da Beauvoir. Grazie a de Lauretis, abbiamo imparato a decentrare, a mettere in discussione l’idea di soggettività femminile. Grazie a lei, siamo diventate consapevoli che solo scendendo nel fango di questa aporia intrinseca potremo intravedere un altro modo di fare politica femminista, di scommettere su una trasformazione sociale radicale dei nostri corpi, desideri e identità. E per questo è assolutamente necessario concentrarsi su un altro dei concetti fondanti della teoria femminista: il genere.
Intravedere un altro modo di fare politica femminista
Non è possibile separare la nozione di soggettività, che de Lauretis rielaborerà, dall’apparato ideologico-disciplinare che è il genere, così come lo analizza. Non c’è soggetto al di fuori del genere. “Non c’è ideologia se non dal soggetto e per i soggetti”, ci aveva già insegnato Althusser. E nella misura in cui tutta l’esistenza sociale è in gioco in quella sorta di significato intelligibile che ci dà l’incarnazione di un dato genere, possiamo affermare che l’unità dell’io è sempre mediata dal rispetto della norma di genere.
De Lauretis è stata una delle prime autrici contemporanee a identificare il genere come dispositivo normativo. Così facendo, è stata in grado di utilizzare e approfondire Foucault e lo stesso Althusser. Per quanto riguarda il primo, la sua teoria della sessualità come tecnologia, cioè come insieme di discorsi e pratiche tecno-sociali e bio-mediche che costruiscono e danno forma a un corpo sessuato, servirà a de Lauretis per parlare di una specifica macchina semiotico-discorsiva: il genere stesso come tecnologia, cioè non come proprietà dei corpi, ma come insieme di effetti politici e sociali che si verificano in un corpo. Per quanto riguarda la seconda, utilizzando il concetto di ideologia di Althusser, de Lauretis interpreta il genere come un’ideologia stessa, attraversata da forze economiche, elementi di produzione, discorsi e conoscenze, relazioni simboliche e immaginarie, ecc. Il genere fa parte del cosiddetto “apparato ideologico dello Stato”, cioè è costruito, regolato, amministrato e imposto nella famiglia, nella scuola, nel lavoro, nei discorsi medici e legali, nei media e così via. E, come ogni ideologia, il genere contribuisce alla formazione e alla creazione di soggettività.
Il genere è un apparato concreto, un meccanismo specifico. Una norma che funziona all’interno delle pratiche sociali amministrando il significato, autorizzando l’esistenza di certi corpi, dando legittimità a certe sessualità, rendendo visibili le identità che si sottomettono ai suoi mandati e alle sue regole, e allo stesso tempo patologizzando quelle che non rientrano nella norma. La tecnologia di genere produce, normalizza, regola, quantunque emargina, esclude, disprezza violentemente. Si concentra con la sua luminosità panottica sugli organi che vengono investiti e risignificati per l’interpretazione sociale. Come afferma Preciado, dalla modernità a oggi, c’è un’intera “epistemologia visiva” che governa la sessopolitica, che ci situa e ci costituisce, che ci fa interiorizzare e naturalizzare un’identità generizzata come condizione sine qua non dell’identità stessa. Un’epistemologia ottico-discorsiva che pone i corpi in primo piano sullo schermo attraverso i media, il cinema, la legislazione, le sentenze legali e mediche. La tecnologia di genere è, insomma, una complessa rete socio-politica, materiale e simbolica che frammenta il mondo in due, che segmenta e divide grazie a due categorie chiuse e antagoniste, categorie basate su una presunta differenza sessuale egemonica.
Le voci e le ferite razzializzate di autrici come Lorde, Moraga, Mohanthy risuonano nei testi di Lauretis, così come la cosiddetta teoria “epidermica razziale” di Franz Fanon, per il quale lo sguardo dell’altro si impianta nella pelle e nella carne, come una soluzione chimica, come una tintura che ci macchia e ci colloca su quella frontiera simbolico-politica che separa il mondo egemone dai suoi confini e dalle sue ombre. Questi cosiddetti “impianti somatici”, che sono anche fantasmatici, immaginari, fittizi, come sottolinea Preciado, si installano sotto la pelle, ci segnano dall’interno, come schegge, come tracce corporee mnemiche, strati e strati di un palinsesto in cui sono sedimentate tutte le nostre differenze. Perché come la razza e il colore della pelle, il genere è un trauma, una ferita storica che spunta sotto il livido della pelle ammaccata, come ci ha insegnato Lorde.
Siamo queste soggettività incarnate, ingenerate, ferite. De Lauretis parlerà anche di impianto di genere, utilizzando tutto il potenziale metaforico di questa parola che contiene una vera e propria connotazione botanica di innesto, di ciò che viene letteralmente installato sotto la nostra epidermide, come un vero seme che cresce dall’interno; ma anche nel senso medico di protesi o artefatto che viene collocato e incorporato, inserito artificialmente per incitare un funzionamento organico. Così, siamo quei corpi impiantati, innestati in categorie chiuse che lasciano i segni della razza, della classe e del genere e che formano una sorta di techné, di produzione anatomica, di artificio simbolico attraverso cui ci riconosciamo come soggetti. Questa è la nostra più intima e profonda contraddizione esistenziale. Ma è, allo stesso tempo, il nostro imperativo politico. È, insomma, la nostra scommessa rivoluzionaria se vogliamo superare i confini del genere e immaginare altre modalità di incarnazione.
Nel bel testo sulle genealogie femministe che apre il volume, de Lauretis confessa di trovare il passato più accogliente del futuro. Conclude però citando Angela Davis, per la quale la difficoltà maggiore per una militante sta nel dare gli strumenti necessari per affrontare il presente. Fornire, insomma, risposte capaci di “illuminare anche il futuro”. Differenze è stata e continua ad essere una sorta di faro o proiettore che ha aiutato molti di noi a guardare le cose in modo diverso, ad affrontare le nostre lotte e i nostri concetti da una prospettiva radicalmente diversa, a sfidare certe categorie che non facevano altro che rinchiuderci tra le mura della casa del padrone. Nei suoi testi abbiamo trovato quell’eredità frammentata che fa del femminismo una casa abitata da un’infinità di soggetti, identità e corpi. Un’eredità che ci ha permesso di andare oltre quei nodi aporetici in cui l’universalismo teorico e l’essenzialismo categoriale ci avevano rinchiuso.
Fuori campo, è l’espressione tratta dalla teoria cinematografica che de Lauretis usa per incidere sullo spazio che non è visibile ai quadri della rappresentazione e dell’intelligibilità. Differenze ci colloca sulla scia di un pensiero femminista fuori dal campo; un filosofare che non si occupa della costruzione di sistemi, ma del faticoso compito di dissotterrarne le fondamenta; un femminismo teorico-politico che opera dai margini dei discorsi egemonici e ci conduce in un altro luogo. Anzaldúa ha detto che ci sono donne scrittrici, artiste, accademiche che trasmettono conoscenza, una conoscenza dirompente la cui forza emerge come germogli verdi nelle rocce e nei sistemi eretti come inamovibili. Tale è la cassetta degli attrezzi che la de Lauretis ci ha lasciato in eredità in questo libro, tali sono i suoi concetti che demoliscono le essenze, i martelli che smantellano le identità, gli impianti che germogliano in altre soggettività, ancora non definite, ma che annunciano un futuro di speranza.
Carolina Meloni González è professoressa di Filosofia presso l’Universidad de Alcalá de Henares
Questo articolo è stato pubblicato su El Salto e qui con l’autorizzazione dell’autrice. Traduzione per Comune di Donatella Donato.
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