Si può ragionare a lungo su quali possono essere oggi le strade più capaci di favorire cambiamenti in profondità per la liberazione animale (alcune accennate in questo articolo ci sembrano discutibili), di certo è molto importante avere consapevolezza del crescente e storico uso che degli animali non umani è stato fatto nei secoli sia come forza-lavoro che come beni di consumo. Un saggio

La millenaria storia del rapporto tra umani e non umani è intrecciata profondamente con i rapporti economici (Mason 1993; McMullen 2016; Timofeeva 2018). Questo ha un effetto decisivo anche sul modo in cui la natura viene rappresentata a livello simbolico o ideologico nella nostra cultura. Non esiste società umana che non basi le proprie rappresentazioni del mondo animale sui rapporti economici che stanno alla base della sua riproduzione (Nibert 2002). Questo elemento è centrale sia per comprendere la continuità che nella storia del dominio ha caratterizzato lo sfruttamento degli animali a fini economici, quanto la discontinuità che il capitalismo ha introdotto in questa storia. Ciò appare evidente se consideriamo l’uso che degli animali non umani è stato fatto nei secoli come forza-lavoro e come beni di consumo.
La forza-lavoro animale
Gli animali sono stati storicamente utilizzati come forza lavoro in agricoltura, nei trasporti e in altre industrie. Tuttavia, a partire dalla modernizzazione capitalista, l’uso degli animali come forza lavoro è diminuito grazie all’aumento della tecnologia e dell’automazione. Ciò non significa che il fenomeno dello sfruttamento del lavoro animale non sia ancora presente in alcune parti del mondo, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo: nell’agricoltura di questi paesi, animali come cavalli, asini e buoi sono ancora utilizzati per arare i campi, trasportare merci e svolgere altri compiti. Ciò accade perché, dato lo sviluppo ineguale del capitalismo, in determinate circostanze l’uso di questi animali può rivelarsi meno costoso e più efficiente rispetto all’uso di macchine, soprattutto in aree con infrastrutture e risorse limitate. Appare tuttavia evidente come questo utilizzo venga ridotto strutturalmente dall’investimento tecnologico delle società industriali avanzate e come dunque queste forme di sfruttamento della forza-lavoro animale siano sopravvivenze di un passato che è stato già di fatto superato dalla modernizzazione capitalistica.
Questo tipo di sfruttamento degli animali come forza lavoro solleva problemi etici apparentemente non dissimili da ciò che accade per il lavoro umano: gli animali sono infatti spesso sottoposti a lunghe ore di fatica, a condizioni di lavoro massacranti e a cibo, acqua e cure veterinarie insufficienti. Inoltre, il loro impiego in lavori pericolosi e fisicamente usuranti può provocare lesioni o condurli alla morte. Va tuttavia notato che in una prospettiva marxista questa somiglianza riguarda solo l’aspetto esteriore del rapporto di lavoro: il tipico rapporto di lavoro capitalistico è quello umano e qualifica lo sfruttamento degli umani in senso diverso da quello degli animali non-umani. Dietro la somiglianza empirica c’è una differenza essenziale che solo l’analisi teorica può mostrare.
Nell’analizzare il processo specifico di riproduzione del capitale, ad esempio, sarebbe del tutto fuorviante identificare il lavoro come mera erogazione di energia psico-fisica. Naturalmente, sia gli uomini che gli animali “lavorano” ed entrambi lavorano per il capitalista. Tuttavia, c’è un tratto specifico del lavoro umano, una funzione molto specifica del lavoratore nel suo rapporto con il capitalista che gli animali non possono assumere. Una diversa comprensione del ruolo svolto dai lavoratori e dagli animali all’interno della macchina del capitalismo non è quindi conseguenza di un pregiudizio specista: è la struttura stessa del modo di produzione capitalista a creare questa distinzione di ruoli e funzioni. Ignorandola, ignoreremmo semplicemente il modo in cui il capitalismo opera. Rosa Luxemburg, nonostante il suo amore per gli animali (Luxemburg 1993), critica Adam Smith per aver identificato lavoratori e animali descrivendo l’attività di questi ultimi come “lavoro produttivo”(Luxemburg 1951: 40). Benché il lavoro animale, proprio come quello umano, significhi “dispendio di una certa quantità di muscoli, nervi, cervello” (Marx 1962: 185), il problema qui non è la generica produzione di valori d’uso, cioè di prodotti utili al nostro consumo, che soddisfano un nostro bisogno; è chiaro che gli animali (non importa se autonomamente o guidati dalla mano umana) sono in grado di produrre valore d’uso. Il problema è che la fonte della valorizzazione del capitale è l’accumulazione di valore di scambio, cioè la proprietà di una merce di essere paragonata quantitativamente, non qualitativamente, ad ogni altra merce, e quindi scambiata con essa e in particolare con l’equivalente generale che è il denaro. Il lavoro animale, non essendo a sua volta venduto come merce sul mercato, non può incamerare né aggiungere valore di scambio alle merci (Stache 2019: 15). Solo il lavoro che incamera e aggiunge valore di scambio alle merci è lavoro produttivo in senso capitalistico.
Il punto è stato discusso ampiamente nella letteratura marxista riguardo il problema del lavoro schiavistico (Bellamy Foster-Holleman-Clark 2010; Nesbitt 2022) cui è possibile, almeno in parte, assimilare il lavoro animale1. Anche se questo tipo di lavoro potrebbe essere qualificato in termini di “plus-lavoro” che genera “plus-prodotto” – ad es. sostenendo che, pur non ricevendo un salario tanto lo schiavo quanto l’animale ricevono una parte di beni di consumo necessaria alla loro sopravvivenza ma inferiore al “valore” che hanno prodotto e che da questo “valore” aggiunto il loro proprietario ricaverebbe un “profitto” – ci troveremmo interamente in una situazione pre-capitalistica che, peraltro, non descrive in modo adeguato il modo in cui lo schiavismo e lo sfruttamento animale tradizionali vengono trasformati dal loro inserimento nel modo di produzione capitalistico. Si può anche sostenere che tanto lo schiavo quanto l’animale vengono “espropriati” del prodotto del loro lavoro – a prescindere dal fatto che in alcuni casi l’animale non avrebbe comunque interesse ad appropriarsi di ciò che gli viene sottratto – ma l’espropriazione nel caso del salariato riguarda il valore di scambio nella sfera della produzione e solo in forma indiretta, come rapporto sociale globale, la sua subordinazione al capitalista anche in termini di consumo.
Qui le espressioni “valore”, “profitto” e “espropriazione” hanno un senso impreciso che confonde i termini teorici della questione. Si dimentica, cioè, che l’analisi marxiana del valore è essenzialmente una teoria monetaria: il denaro non è un semplice mezzo che si sovrappone ai rapporti capitalistici, ma ne costituisce una forma essenziale e necessaria di manifestazione2. Tutta l’analisi del Capitale di Marx intende spiegare perché questi rapporti devono assumere questa forma. Ogni elemento della produzione capitalistica, infatti, deve apparire nella forma di merce, dunque essere dotata di un valore di scambio per poter entrare nel circolo di valorizzazione del capitale. L’insieme dei valori di scambio deve essere rappresentato nella forma di equivalente, cioè nel denaro che appare perciò, nella sua forma storicamente completa e sviluppata, tanto all’inizio quanto alla fine del processo. Questo vale anche per il lavoro che entra nella produzione sì sempre “agganciato” alla persona del lavoratore, ma come essenzialmente separata da questo. Si tratta di un punto centrale per due motivi tra loro connessi: da un lato, il lavoro che crea nuovo valore non è il lavoro concreto, qualitativo, speso per produrre la merce x o y, bensì il lavoro astratto, quantitativamente rappresentato dal denaro che ne esprime il valore di scambio. Dall’altro, Marx sottolinea che se il lavoratore non fosse giuridicamente libero di vendere la propria forza-lavoro, e dunque per un tempo limitato, sarebbe uno schiavo e questo renderebbe impossibile il fenomeno specificamente capitalista della “valorizzazione del valore”, cioè dello scambio ineguale tra salario e utilizzo della forza-lavoro, che è alla base della produzione di plus-valore. Si tratta di un punto fondamentale. La forza-lavoro ha infatti un valore che si esprime nel salario, cioè nella parte di capitale investito che Marx chiama capitale variabile. Nel caso degli schiavi umani e animali, il loro lavoro non è separabile dalla loro esistenza corporea, né in linea di principio, né di fatto: l’animale, come lo schiavo, ha un valore ma questo valore non è quello della sua forza-lavoro, non è quindi esprimibile come capitale variabile, poiché rientra piuttosto nell’investimento in mezzi di produzione.È cioè integralmente capitale costante. L’animale, come lo schiavo, è ridotto a macchina e la sua azione non è diversa da quella dell’ingranaggio, non aggiunge valore di scambio, semplicemente trasferisce il proprio valore di scambio intrinseco alla merce che qui vi riappare in forma di costo3. In nessun luogo è possibile distinguere un valore specifico della forza-lavoro schiavistica o animale, né un rapporto determinato tra il tempo di lavoro e l’investimento di capitale che li concerne: il “padrone” spende per il loro acquisto e la conservazione della loro esistenza come farebbe per le macchine, a prescindere cioè che essi lavorino o meno. È chiaramente nel suo interesse che essi lavorino sempre ma, appunto, il denaro che egli investe non ha nessun rapporto strutturale con l’erogazione di lavoro. Nel rapporto salariato, al contrario, l’investimento di capitale non riguarda la persona del lavoratore ma solo la disponibilità della sua forza-lavoro per il tempo richiesto dalla produzione di merci. E solo per quella. Perché è qui che la duplice natura del lavoro e del valore si manifesta.
Se il valore e l’espropriazione hanno un senso specifico nel caso del salariato poiché concernono non il lavoro empirico e la merce particolare prodotta con il suo specifico valore d’uso, bensì questo stesso lavoro e questo valore in quanto quote aliquote del lavoro sociale e del valore di scambio complessivo, lo stesso deve dirsi del profitto che va distinto dalla produzione di plus-valore. Nel terzo libro del Capitale Marx chiarisce, seppure in forma solo abbozzata, questa differenza. La schiavitù umana e animale nel capitalismo garantisce infatti un profitto pure se questo lavoro non produce plus-valore. Lo stesso Marx fa l’esempio-limite di aziende che investono solo in capitale costante, un esempio puramente teorico: nelle aziende fondate sul lavoro schiavistico e animale, infatti, una componente, per quanto minima, di lavoro salariato, e dunque di plusvalore, non è eliminabile. Il punto è che il plusvalore prodotto e incamerato come profitto dal capitalista non è quello prodotto dalla singola azienda. I vari rami dell’industria contribuiscono infatti, ognuna in modo diverso, alla massa complessiva del plusvalore ed è questa che viene poi divisa tra i capitali particolari in forma di profitto. Ciò avviene attraverso il saggio di profitto (cioè il rapporto tra plusvalore e la somma del capitale costante e del capitale variabile) che pur essendo diverso per ogni industria e ramo produttivo, assume una forma media che elide le differenze tra queste e garantisce ad ogni capitalista un ritorno dal proprio investimento. Queste differenze sono determinate dalla composizione organica del capitale, cioè da quanta parte dell’investimento è dovuta al capitale costante e quanta al capitale variabile. Esistono dunque aziende e rami della produzione che aggiungono una maggiore quota alla massa generale del plusvalore ma ai capitali investiti nei diversi settori dell’economia è garantito un saggio medio di profitto di cui essi possono beneficiare a prescindere da quanto plus-valore siano stati in grado di produrre. Le merci schiavistiche sono così in grado di “catturare” parte del plus-valore prodotto in altri rami dell’industria e dunque fare un profitto (Nesbitt 2022: 35).
Il feticcio della merce-animale
Nel caso degli animali – e degli schiavi umani – il processo di soggezione non si realizza dunque tramite il lavoro ma è già dato all’inizio. E non si realizza per mezzo dello scambio ineguale tra forza lavoro e salario ma attraverso la violenza diretta, ciò che Marx chiama dominio, violenza diretta e brutale. È attraverso questa stessa violenza che l’animale è ridotto a bene di consumo, in questo caso quindi non come mezzo di produzione ma come esito del processo produttivo: la merce-animale.
Il capitalismo ha così portato alla mercificazione dei corpi degli animali e al loro sfruttamento a fini economici ad un livello quantitativamente mai visto prima. Ma anche in questo caso al millenario uso degli animali come oggetti di consumo e come merci il capitalismo aggiunge un tratto caratteristico, potremmo dire un salto qualitativo nello sfruttamento animale, e la teoria di Marx appare nuovamente centrale per la comprensione di queste dinamiche. Il capitale si riferisce alla ricchezza utilizzata per produrre beni e servizi, mentre le merci sono beni o servizi prodotti per essere venduti sul mercato. Marx sottolinea come nel capitalismo il capitale e le merci siano intrecciati e che influenzino reciprocamente la produzione e lo scambio, che il movimento complessivo dell’economia non sia guidato dalla produzione di merci per la soddisfazione dei bisogni (merce-denaro-merce), bensì che i bisogni stessi diventano funzione della crescita di capitale (denaro-merce-denaro): la ricerca del profitto spinge cioè la produzione di merci, che a sua volta genera altro capitale attraverso la loro vendita sul mercato. Il ciclo costante di produzione e scambio crea una spinta infinita per i capitalisti ad accumulare più capitale e produrre più merci, portando all’espansione del mercato e alla crescita dell’economia. Questo significa che anche la mercificazione degli animali non è conseguenza della soddisfazione di bisogni umani, bensì è effetto dell’accumulazione ed espansione di capitale: la crescita dello sfruttamento dei corpi animali è cioè parallela alla crescita del movimento di autovalorizzazione del capitale come rapporto sociale impersonale, oggettivo, meccanico, disumano e disumanizzante.
Marx osserva infatti che le merci non sono semplicemente beni fisici, ma incarnano anche relazioni sociali e dinamiche di potere, poiché i lavoratori e i capitalisti interagiscono nella produzione e nello scambio delle merci. In questo modo, le merci riflettono la lotta di classe sottostante alla società capitalista. Al di sotto di questa lotta è certo presente anche il rapporto antropocentrico e specista che impedisce di riconoscere l’ingiustizia dello sfruttamento animale. Ma questo stesso rapporto, che nei millenni viene giustificato attraverso le più diverse ideologie religiose e spiritualistiche, appare qui spogliato di qualsiasi motivazione che non sia riducibile alle pure leggi dell’economia considerate “naturali” e inviolabili. Marx chiama questa inversione di rapporti, per cui il movimento delle merci occulta i rapporti sociali, “feticismo delle merci”.
La mercificazione dei corpi animali attraverso cui il feticismo della merce invade la nostra rappresentazione del vivente non umano e normalizza la violenza su di esso, passa senz’altro attraverso un’accurata e sistematica opera di occultamento della violenza stessa, ciò che Carol Adams chiama “il referente assente” (Adams 2010). Ad esempio, nell’industria della moda, i media promuovono spesso l’uso di pelli e pellicce di animali in abiti e accessori: questi ultimi finiscono per incarnare nella vita quotidiana e quindi perpetuare l’idea che gli animali siano semplici oggetti da usare per il piacere e la vanità umana. Nell’industria alimentare, le pubblicità promuovono il consumo di carne, latticini e altri prodotti animali, nascondendo attraverso diverse strategie l’orrore degli allevamenti, rafforzando così l’idea che i corpi degli animali siano semplicemente portatori “naturali” (a volte addirittura “felici”) di nutrienti da consumare per il sostentamento e il piacere del palato. I media spesso ritraggono gli animali come oggetti di intrattenimento, ad es. nella promozione di circhi, zoo, produzioni cinematografiche ecc.; attività che comportano diverse forme di abuso, con animali che vengono prelevati dal loro habitat e costretti a esibirsi per puro divertimento umano, spesso in condizioni di vita anguste e inadeguate ai loro bisogni biologici e sociali. Occorre anche sottolineare, però, che l’attivismo per i diritti animali ha sempre più costretto l’industria culturale a tenere in considerazione, seppure ancora in modo insoddisfacente e contraddittorio, le esigenze etologiche e relazionali degli animali non umani, arrivando anche a produrre spettacoli o pellicole che rifiutano il principio dello sfruttamento animale o, addirittura, lo criticano apertamente.
In nessun ambito economico, tuttavia, lo sfruttamento animale raggiunge livelli di crudeltà paragonabili a quelli dell’industria alimentare. Nelle industrie della carne, dei prodotti lattiero-caseari ecc., gli animali non umani vengono allevati e utilizzati per i loro corpi attraverso pratiche brutali e depersonalizzanti. L’allevamento in fabbrica, che confina un gran numero di animali in condizioni di vita inimmaginabili, si è diffuso nel settore al fine di massimizzare la produzione e minimizzare i costi. L’industria della carne contribuisce tra l’altro anche al degrado ambientale attraverso l’emissione di gas a effetto serra e altri inquinanti derivanti dall’agricoltura animale, la deforestazione per creare più terreno per il pascolo e la produzione di mangimi e l’uso massiccio di antibiotici e altre sostanze chimiche (Boggs 2011; Foster – Burkett 2016). Anche in questo caso, il valore di mercato dei prodotti animali è determinato dalla legge di riproduzione del capitale, piuttosto che dal benessere degli animali stessi. La loro riduzione a massa anonima, la negazione di bisogni basilari non solo di tipo fisico ma anche psicologico e relazionale, è direttamente proporzionale all’accumulazione di capitale che questa loro riduzione a materia prima priva di coscienza rende possibile. Il mercato dei prodotti animali, come la carne, i latticini e la pelle, ha così spinto l’allevamento, la crescita e l’uccisione di miliardi di animali per scopi alimentari oltre ciò che l’umanità ha saputo compiere nei confronti del vivente non umano da millenni. Non a caso, l’industria della carne, del pescee dei loro derivati svolge un ruolo significativo nel capitalismo in quanto protagonista del mercato alimentare globale. Il mercato della produzione, della distribuzione e della vendita di prodotti alimentari animali e di derivazione animale è dominato da poche grandi aziende multinazionali4. Queste aziende danno priorità all’efficienza e al profitto, a scapito non solo del benessere degli animali e della sostenibilità ambientale ma anche dei diritti dei lavoratori, condizionando le scelte politiche di interi paesi.
Contro la bêtise del capitale
La crisi ambientale e gli sviluppi tecnologici portati dal capitalismo stanno aprendo scenari nuovi sia alla lotta ambientale che alla liberazione animale, perché la razionalità del sistema appare sempre più contraddittoria e assurda, sempre più tendente a un’autodistruzione stupida, bestiale. Il consumo medio globale di carne è quintuplicato dagli anni ’60 del secolo scorso ad oggi, e le proiezioni sono in ulteriore aumento.5 Eppure, secondo stime conservative, l’allevamento è responsabile del 14,5% delle emissioni di gas serra ed è concausa di una serie di altri effetti dannosi per il clima, la salute degli ecosistemi e dei loro abitanti umani e non, come la massiccia deforestazione, la creazione di zone morte negli oceani, l’aumento dell’antibiotico-resistenza negli esseri umani e la diffusione di pandemie zoonotiche.6 Alcune fra le possibili soluzioni al problema nate proprio in seno allo sviluppo scientifico e tecnologico capitalistico, come la carne coltivata, vengono osteggiate dagli interessi particolaristici e nazionali dei produttori zootecnici tradizionali organizzati in associazioni di categoria che fanno pressione sui decisori politici.7 Sotto la maschera della “libera concorrenza”, il vero volto del capitale è l’accentramento progressivo di mezzi, risorse e investimenti e un protezionismo economico a tutela degli interessi della classe dominante, che castra le forze nate dal suo stesso dominio. Contro questa clamorosa bêtise del capitale, non a caso, i recenti sviluppi nell’ambito della filosofia antispecista, dei diritti animali e della liberazione animale si stanno progressivamente allontanando dalla matrice liberale (Singer 2015, Regan 2004, Francione 2000, Garner 2005) e si sta affermando nell’attivismo una convergenza con il socialismo (Sanbomatsu 2011, Rude 2013, BündnisMarxismus und Tierbefreiung 2018, Maurizi 2021).
Da un lato, il socialismo e la liberazione animale rimangono due ideologie politiche distinte che nel secolo scorso hanno avuto, salvo rare eccezioni, pochi momenti di convergenza. Anzi, la tendenza industrialista e sviluppista della III Internazionale e dello stalinismo ha comportato un rifiuto aprioristico della considerazione dei bisogni degli animali non umani (Benton 1993; Best 2014).
Dall’altro, il socialismo in quanto sistema politico ed economico che mira a creare una società più equa e giusta, distribuendo la ricchezza e le risorse in modo più uniforme tra la popolazione, attraverso la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e distribuzione e un ruolo maggiore dello Stato nel regolare e dirigere l’economia appare sempre più uno strumento indispensabile per realizzare le condizioni necessarie, anche se non sufficienti, per la liberazione animale. Questa convergenza sembra realizzarsi a partire da due lati opposti.
Molti socialisti iniziano a considerare lo sfruttamento degli animali come una forma di oppressione strettamente connessa ad altre forme di oppressione, come lo sfruttamento di classe, l’oppressione di genere e il razzismo. Sostengono così che per creare una società più equa è necessario non solo affrontare la disuguaglianza economica, ma anche altre forme di oppressione, tra cui lo sfruttamento degli animali. L’idea di una società “giusta” non può realizzarsi se non vengono superate tutte le forme tradizionali di discriminazione che il capitalismo non ha cancellato ma solo utilizzato ai propri fini.
Allo stesso modo, molti animalisti stanno comprendendo come lo sfruttamento degli animali sia il risultato di un sistema capitalista e come la lotta contro questo sistema non possa passare, come è stato finora, attraverso il semplice convincimento “morale” degli individui in quanto consumatori ma debba affrontare il nodo centrale dei rapporti di produzione, del modo in cui la società organizza e distribuisce assieme alla ricchezza anche il suo rapporto con la natura e, conseguentemente, la sua rappresentazione del mondo non-umano. Sempre più animalisti sostengono che un sistema socialista, con la sua attenzione alla proprietà e al controllo collettivi, sarebbe più adatto ad affrontare lo sfruttamento degli animali e a fornire loro maggiori tutele, che l’idea di “uguaglianza” tra umani e non-umani non potrà mai affermarsi se non viene prima realizzata una società umana egualitaria e solidale. Come nel caso della carne coltivata, il capitale potrà certamente venderci la corda con cui lo impiccheremo; ma non farà tutto il lavoro per noi. Nessuna soluzione interna alla logica di privatizzazione dei mezzi di produzione e distribuzione potrà fermare, da sé, lo sfruttamento e la mercificazione del vivente. Il rischio, infatti, è che le spese della sua attuazione vengano messe in conto alle classi e ai gruppi dominati; che la tendenza all’autovalorizzazione del capitale, che ne comporta la crescita tumorale ai danni di tutta la natura, ne neutralizzi gli effetti positivi; infine, che l’esclusione della maggioranza dalla sfera della produzione riproduca bisogni falsi e indotti, e che eterni subalternità e ordinamenti sociali gerarchici e autoritari niente affatto compatibili con qualsivoglia progetto di liberazione.
Ma è probabile che siano i socialisti a dover prendere l’iniziativa e, pur nell’autonomia delle lotte, offrire la visione d’insieme sociale e politica in grado di fare spazio alla liberazione animale. La visione materialistica che è alla base del marxismo, infatti, sembra implicare un recupero dell’animalità umana, un superamento definitivo dell’antropocentrismo e dello spiritualismo tradizionali (Engels 1962), attraverso il recupero di un naturalismo integrale che torni a collocare di nuovo l’essere umano su un piano di immanenza ed uguaglianza con il resto del vivente. Su questo occorrerebbe recuperare una diversa dialettica della natura, una nuova concezione che veda nella ragione umana una forza naturale in grado di relazionarsi al resto della natura non nella forma del cieco dominio ma in quella della solidarietà al di là dell’appartenenza di specie. Un materialismo solidale (Maurizi 2021) che, per dirla con Adorno e Marcuse, rovesciasse paradossalmente il pregiudizio antropocentrico che sta al cuore della tradizione spiritualistica: non è sfuggendo alla natura per inseguire i sogni di una verità trascendente che l’essere umano celebra la propria diversità e si sublima in un essere superiore; è, al contrario, quando la ragione si riconosce attraversata dall’alterità animale e si realizza come una forma di vita condivisa che l’universale cessa di essere il marchio di fabbrica del dominio e dell’orrore e si traduce per la prima volta nella storia naturale in una legge che garantisce la giustizia reale, il libero sviluppo di tutti e di ciascuno. Oltre l’appartenenza di specie, al termine di ogni domino di classe.
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1 Per una discussione critica di questo paragone e, in generale, per un’analisi delle diverse posizioni “di sinistra” sullo sfruttamento animale cfr. Stache 2019.
2 Per questo quando si prova a tradurre il concetto di sfruttamento utilizzando altri parametri, come il tempo (Wadiwel, D. J. 2020), per forzare il paragone tra lavoro umano e lavoro animale l’analisi economica diventa generica e astratta.
3 Da qui l’importante tentativo di ridurre i costi di manutenzione e intensificare il lavoro fino allo sfinimento e alla rapida sostituzione dell’individuo da parte del padrone-capitalista. Marx sottolinea la totale assenza di scrupoli del capitalismo schiavista e questo non può che considerarsi un tratto tipico anche dell’industria animale (Bellamy Foster-Holleman-Clark 2010).
4 Mighty Giants: Leaders of the Global Meat Complex | IATP
5 Global meat consumption, World, 1961 to 2050 (ourworldindata.org)
6 Livestock’s long shadow: environmentalissues and options (fao.org); TacklingClimateChangethroughLivestock (fao.org); Gli allevamenti intensivi sono un disastro per l’ambiente e per la nostra salute – L’Espresso (repubblica.it)
7 Stop a cibo sintetico, Coldiretti esulta: “Protegge Made in Italy” – LaPresse
Articolo estremamente interessante, da meditare. Peccato per la bibliografia solo in inglese!
Versione francese
Animaux et capital
https://tlaxcala-int.blogspot.com/2023/05/dario-mannimarco-maurizi-animaux-et.html