di Franco Berardi Bifo*
Viaggiando verso il Canada dove in questi giorni, all’università di London Ontario, si tiene un convegno sul pensiero italiano, mi sono fermato a New York, e ho passato una settimana in un albergo sulla Bowery nella zona in cui trentacinque anni fa vissi un periodo eccitante.
In questi pochi giorni ho avuto l’impressione che l’America sia prossima al collasso nervoso. E questa non è una buona notizia visto che si tratta pur sempre della più grande potenza militare (nucleare per la precisione) di tutti i tempi.
New York è una città santuario, come molte altre nel paese: istituzioni locali, scuole, musei hanno dichiarato che intendono sottrarsi agli ordini di deportazione e di violenza: questo determina una situazione di doppio potere, ovvero di guerra civile potenziale.
Sono andato a visitare il New Museum che sta sulla Bowery e non esisteva quando ci abitavo. C’è una mostra di Raymond Pettibon, un artista nato a Tucson nel 1957 che dagli anni ’70 disegna con un gusto rabbioso tardo-hippy che mi ha fatto venire in mente la rivista italiana Cannibale, e particolarmente i fumetti di Filippo Scozzari. Nella mostra sono esposte sue opere che dai suoi esordi vanno fino ai primi anni del nuovo secolo, quelli della guerra irachena.
Molte delle opere di Pettibon raffigurano scene che abbiamo visto nelle foto della prigione di Abou Ghraib nel 2004: gruppi di soldati nudi e sghignazzanti che circondano un prigioniero e gli ficcano il cazzo da qualche parte, ripugnanti facce di George Bush e così via.
La mostra, intitolata A Pen of All Work e curata da Gary Carrion-Murayari e Massimiliano Gioni, occupa tre dei cinque piani del museo e contiene circa ottocento disegni o dipinti oltre a diverse fanzine auto-prodotte negli anni del punk. La dissoluzione della retorica idealista e ottimista dell’America sconciamente puritana oggi ha un significato particolare e fa un effetto agghiacciante, mentre il fascismo americano oggi si dispiega in tutta la sua spaventosa aggressività.
Non sapevo che le cifre fossero già così enormi. 34.000 persone al giorno sono deportate alla frontiera e sbattute fuori dal paese nel quale vivono magari da venti anni. Me lo dice un’insegnante all’assemblea che si tiene a Topos domenica pomeriggio. Topos è una libreria alla periferia estrema tra Brooklyn e Queens, in un quartiere abitato da albanesi e portoricani. Un gruppo di compagni hanno affittato uno spazio che sta sulla strada. Sono le quattro del pomeriggio quando entro nella libreria: dai due finestroni entra la luce di un sole allegro di inizio primavera e c’è gente seduta che beve il caffè leggendo un libro. Sulla parete c’è una foto di David Bowie accanto a una foto di Totò. Non posso crederci: Totò in America? Ma certo mi dice uno, non è forse l’attore di un film di Pasolini che si chiama Uccellacci e Uccellini?
Poi ci trasferiamo nella sala accanto dove comincia ad arrivare gente. C’è una trentina di persone sedute intorno al tavolo in uno stanzone spoglio, sullo scaffale ci sono libri sulle culture indigene del nord e sud America. Insegnanti, lavoratori precari, molti immigrati di vario colore ed estrazione. La discussione riguarda in primo luogo il concetto di “sanctuary”. Santuario è un’istituzione o un organismo sociale di base o un’organizzazione non governativa che si propongono di proteggere le persone esposte alla violenza trumpista. Il giorno prima un’amica libanese mi aveva detto che sua figlia (tredici anni) è depressa e piange spesso e non riesce a dormire. Una coppia di amici palestinesi non ha potuto venire alla riunione: sono dovuti andare a trovare la sorella di lei, perché il nipote di nove anni nelle ultime settimane ha continui attacchi di panico. L’odio della minoranza razzista che governa il paese filtra in ogni luogo, in ogni momento del giorno e della notte.
Prendo la parola per chiedere cosa potrà accadere se a un certo punto il governo centrale decide di attaccare qualche santuario. Si apre quindi una breve discussione sulla questione della violenza. Ci si deve preparare a reagire, a difendersi con le armi? Fin da quando ero ragazzo mi hanno insegnato che quando si tratta di difendersi dal fascismo l’uso della violenza armata è non solo legittimo ma necessario, e che a questo occorre prepararsi. Ma non sono tanto sicuro che questa lezione valga ancora, se non altro per il fatto che in questo paese le armi sono nelle mani dei bianchi elettori di Trump. Qualche mese prima delle elezioni disse che se il governo democratico avesse legiferato contro il diritto di comprare armi, il popolo del secondo emendamento avrebbe risposto con le armi.
La guerra civile non è una lontana possibilità nella realtà degli Stati Uniti di oggi. Tecnicamente il paese si trova già in condizione di doppio potere: interi settori dell’apparato statale (non solo le città santuario ma anche parti dell’FBI e dell’esercito) sono in rotta di collisione con il governo trumpista. Quanto alla violenza armata contro le minoranze, questo paese è in guerra da sempre.
Ora parla un ragazzo che si auto-definisce ex-black bloc. È un black bloc spiritoso che sostiene una tesi interessante. Le azioni del black bloc, lui dice, non sono intese a fare violenza, ma a colpire simbolicamente l’immaginazione collettiva, a isolare il potere e terrorizzare i suoi strumenti armati. Interessante tesi, gli dico, ma allora forse bisogna cominciare a ragionare in modo scientifico sulle modalità dell’azione simbolica evitando il pericolo di essere massacrati e anche quella di far del male a qualcuno.
Poi interviene un ragazzo che attacca il partito democratico, e la sinistra in generale, dicendo che Trump ha vinto grazie alla prepotenza del clan Clinton al servizio del potere finanziario. Gli dico che anche l’ascesa del nazionalismo in Europa è conseguenza del sistematico tradimento della sinistra che negli ultimi trent’anni si è messa al servizio della classe finanziaria facendosi strumento delle politiche neo-liberiste.
Poi sono dovuto partire per Toronto. Vado all’aeroporto JFK, aspetto in mezzo a una folla di poveracci che non viaggiano certo per turismo: vanno a trovare le famiglie lontane, vanno a lavorare da qualche parte. Saliamo sull’aereo dell’American Airlines, un aereo malandato che mi pare un Antonov degli ultimi anni sovietici. Si rolla sulla pista per mezz’ora poi si ritorna indietro. Scusate tanto problemi tecnici aspettiamo di ripartire. Finalmente si risale sullo sgangherato aereo, si rolla ancora un po’ poi si torna indietro. Il volo è cancellato, folla inferocita. Le impiegate hanno l’aria nervosa. Faccio la fila per sentirmi dire che parto domattina con un’altra compagnia. Air Canada. Penso che qualcuno mi pagherà l’albergo per la notte, come usa nei paesi civili, invece no.
Le impiegate di American Airlines mi mandano a Air Canada, quelli di Air Canada mi rimandano da American Airlines, mica siamo noi che abbiamo cancellato il volo. Ma American Airlines mi dicono non se ne parla: la cancellazione non è colpa loro ma è dovuta a problemi di traffic congestion.
Mi pagherò il fetido albergo per la notte, e mi sembra che le infrastrutture del paese siano messe veramente male: traffic congestion significa collasso circolatorio della mobilità. E mi sembra che tutti siano estremamente nervosi, rabbiosi, depressi. Sentimento di essere in trappola in una vita di merda, correndo avanti e indietro con quei ripugnanti bicchieri di plastica in cui questi poveretti che della vita non sanno niente bevono il loro schifoso caffè.
La mattina dopo parto per il Canada, e mi viene da pensare: finalmente la civiltà. Ma qui c’è poco da fare gli spiritosi, il paese del super controllo e della tecnologia pervasiva sta evidentemente sprofondando nel caos. Il caos è la nemesi della pretesa di perfetta sottomissione di un’umanità impoverita psichicamente oltre che socialmente. Avete visto Nebraska, lo struggente film in bianco e nero di Alexander Paine? Nella cittadina di Billings, Montana, il vecchio Woody Grant vuole andare in Nebraska per ritirare un milione di dollari, il premio che crede di avere vinto. Il figlio cerca di dissuaderlo, perché capisce che il padre rimbecillito dalla birra e dalla solitudine ha preso alla lettera una pubblicità di un giornale popolare. Ma non c’è modo di impedire al vecchio di perseguire il suo sogno. Il figlio decide allora di accompagnarlo in un viaggio che è un incubo triste attraverso la demenza dell’immensa provincia nord-americana, quella che Cormack McCarthy ha descritto in romanzi come Il buio fuori o Cavalli selvaggi. Paine racconta con commovente comprensione l’ignoranza, lo smarrimento, lo stordimento alcolico e farmacologico dell’umanità che ha portato alla presidenza americana un idiota aggressivo e razzista. Idiozia e razzismo son quel che è rimasto alla classe operaia, ridotta oggi a popolo: massa amorfa senza vita sociale, senza cultura e senza speranza.
Il destino manifesto d’America appare oggi in una luce oscura. L’idealismo imperialista americano identificava questo destino con la diffusione della democrazia nel mondo. Ma questa pericolosa illusione funzionava nell’epoca in cui gli americani vincevano le guerre, mentre ora sono riusciti a perdere due guerre in un decennio e non riescono neppure a svincolarsene, come nel 1975 riuscirono a fare fuggendo in elicottero dal tetto dell’ambasciata di Saigon.
Ora il destino degli Stati Uniti è portare il pianeta e i suoi abitanti in un inferno di violenza, di depressione e di morte come dimostra la vittoria di Trump. Del resto questo destino è scritto nelle origini, e non c’è illusione imperiale che possa rimediarlo. All’origine della storia di questo paese c’è un manipolo di testardi fanatici puritani chiamati padri pellegrini che portarono la morte all’intera comunità Wempanoag sulle coste dell’attuale New England. Continuarono a seminare morte, dapprima contro il popolo indigeno delle grandi praterie, poi a milioni di africani strappati alle loro terre e sottoposti alla brutalità schiavista.
Sono un popolo che non sa vivere, che non sa nulla del piacere e della gentilezza, eppure vuole imporre dovunque il suo lifestyle. Un popolo di infelici rabbiosi e ignoranti che sprofondando nella miseria psichica e nella disperazione aggressiva a un certo punto si suiciderà. Ma i suicidi animati da fanatismo generalmente non lo fanno da soli: vogliono portare all’inferno quanta più gente si può. E la sola cosa in cui questo popolo è superiore è l’armamento.
Riuscirà l’umanità a evitare il destino manifesto cui vuole trascinarla la razza degli sterminatori? Non dipende certo dal partito democratico, che merita il disprezzo di cui è circondato. Non dipende neppure dalla costituzione, o dalle prossime elezioni, ammesso che alle prossime elezioni ci si arrivi mai. Dipende dall’intelligenza del variegato mondo del lavoro cognitivo, dai milioni da artisti, scienziati, sperimentatori che forse potremmo chiamare Silicon Valley Globale. In un’intervista uscita recentemente sul Sole 24 Ore, Jonathan Franzen, l’autore di The Corrections, Freedom e Purity, dice cose abbastanza banali accusando la Silicon Valley di avere provocato il rimbecillimento aggressivo degli americani.
Mi dispiace dirlo perché Jonathan Franzen è a mio parere uno scrittore grandissimo e i suoi romanzi ci permettono di comprendere l’impotenza aggressiva della classe media bianca, ma prendersela con Twitter o Facebook è una semplificazione che non aiuta né a capire né a cambiare. La tecnologia e i media possono funzionare come amplificatore di demenza aggressiva solo quando la demenza aggressiva è coltivata dai rapporti sociali, dallo sfruttamento e dalla povertà. Ma possono anche funzionare come fattore di liberazione, e la mia convinzione è che succederà solo quando i lavoratori cognitivi, che costituiscono il settore più avanzato e produttivo della classe operaia americana e mondiale, si renderanno conto del disastro e investiranno le loro energie nella direzione del sabotaggio e della riprogrammazione della macchina tecnica globale.
La catastrofe in cui gli Stati Uniti sono precipitati (e in cui sta precipitando il mondo) può culminare nell’apocalisse di un olocausto globale, ma può invece aprire la strada a una presa di coscienza della sola sezione di lavoro che può ancora evitare il precipizio, che può iniziare un processo di riscrittura del codice secondo regole diverse da quelle del profitto e della devastazione.
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