di George Monbiot*
Senza la collettività la politica muore. Ma le comunità sono sparse come polvere nel vento. Al lavoro, a casa, in entrambi i casi praticamente e figurativamente, atomizzate in piccole unità.
La politica, di conseguenza, è vista dalla maggior parte della gente come una “forza esterna”, noiosa e irrilevante nel migliore dei casi, oppressiva e spaventosa nel peggiore. È manipolata dall’alto piuttosto che controllata e sviluppata del basso. Ci sono le eccezioni – le campagne di Sanders e Corbin per esempio – ma anche queste sembrano solo superficialmente impresse nell’immaginario collettivo, se messe a confronto con i massicci consensi che raccoglievano in passato, e le cui forze si sgretolano alla prima folata di vento velocemente come sono state radunate.
È con le polveri delle comunità distrutte che gli anti politici creano turbini, sollevando imponenti e infernali tornadi di demagogia ed estremismo. Questi uragani minacciano di radere al suolo qualsiasi struttura sociale esistente.
Quando le persone sono isolate e spaventate, sono istintivamente portate a difendere i propri interessi a scapito del bene comune. In altre parole, sono forzati ad allontanarsi da sentimenti naturali nell’uomo come empatia, fratellanza e gentilezza, e vengono dirottati verso valori estrinsechi quali potere, fama e status sociale. Il problema creato dalla politica individualista si sta auto-perpetuando.
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Al contrario, un modello politico basato unicamente sulle forniture statali può lasciare la popolazione dipendente, isolata e fortemente vulnerabile ai tagli. Lo stato del welfare rimane essenziale: ha alleviato situazioni di miseria e squallore che la gente di oggi neanche si immagina. Ma può al contempo inavvertitamente erodere le comunità, accatastando le persone in silos serviti isolatamente, indebolendo i loro legami con la società.
Quella che presento è la terza, nella mia personale serie, di possibili soluzioni alle molteplici crisi che stiamo fronteggiando. Essa esplora i modi per mezzo dei quali è possibile restaurare la politica attraverso la ristrutturazione delle comunità. Ciò non significa prosciugare le riserve statali, ma integrarle con “qualcosa” che non appartiene né allo stato né al mercato, qualcosa che esiste in una differente sfera della società, una sfera che abbiamo lungamente trascurato.
Ci sono centinaia di esempi diversi che mostrano come ciò può avere inizio, come cooperative, fondi fiduciari, associazioni di produttori agricoli, assemblee comunitarie, università gratuite, banche del tempo, città turistiche ad uopo, ristoranti di street food a prezzi economici, valute locali, circoli per la terza età (in cui gli anziani possano condividere e socializzare), adibire le strade a parchi giochi temporanei (come nel caso del progetto Playing Out), servizi laici (come le assemblee domenicali Sunday Assembly), festival delle lanterne, sale giochi e hot spot tecnologici.
Trasformare queste iniziative in un più ampio social revival significa creare ciò che i professionisti chiamano thick networks (fitta rete): progetti che fanno proliferare, mettono in pratica idee e imprese lungi dall’essere attuabili realmente al momento della loro formulazione teorica. Con ciò si crea cultura della partecipazione appetibile e adatta a tutti, e non solo a persone espansive e normalmente attive socialmente.
Uno studio è stato commissionato dal distretto amministrativo londinese di Lambeth con lo scopo di identificare come questi thick networks vengono preferibilmente sviluppati. Il processo ha inizio tipicamente con progetti che vengono denominati lean and live (testualmente fare affidamento e vivere); partendo con risicate risorse economiche, evolvendo rapidamente, attraverso collaudi ed errori. Non vengono sviluppati da singoli individui eroi della comunità, ma per mezzo della collaborazione di tutti. Tali iniziative creano l’opportunità di “micro-partecipazione” attiva di tutta la cittadinanza; chiunque può decidere se e quando partecipare, a piacimento e senza troppo impegno.
Quando abbastanza progetti prendono piede, automaticamente catalizzano maggiori attenzioni e coinvolgono maggiormente, generando società, cooperative e iniziative ibride, che creano impiego e reddito. Il punto di svolta avviene quando il 10-15 per cento dei facenti parte della comunità trova un lavoro stabile. A questo punto la comunità comincia a prendere forma innescando una reazione a catena che genera imprese sociali e nuove attività, che raggiungono il resto della popolazione. L’aiuto reciproco che queste iniziative diffondono funziona come seconda rete sociale di sicurezza.
Secondo le stime il processo di formazione durerebbe tre anni. I risultati sono comunità virtuose e attraenti, che generano occupazione, eco-sostenibili e socialmente coese, nelle quali ogni cittadino è direttamente coinvolto nelle decisioni da prendere per il bene della comunità. Questo per me è l’obbiettivo a cui ogni comunità dovrebbe aspirare.
Il caso esemplare è la città di Rotterdam, dove, in risposta alla chiusura delle biblioteche pubbliche, nel 2011 un gruppo di residenti ha creato autonomamente una sala lettura in un edifico precedentemente adibito a bagno pubblico. Tutto è cominciato durante un festival cinematografico, poi diventato permanente. L’evento, da luogo dove la gente può incontrarsi per discutere, leggere e imparare nuovi mestieri, ha presto cominciato con l’aiuto di tutta la comunità a generare ristoranti, workshops, cooperative, progetti ecologici, centri culturali e botteghe di artigiani. Questi progetti hanno poi ispirato altre persone a mettersi in proprio. Da una stima risulta che ci sono ora 1.300 progetti civici del genere in città. Forti cooperazioni e comunità sono oramai la normalità. Cittadinanza e governo appaiono entrambi trasformati.
Esistono molti altri progetti con questo potenziale. Walthamstow, nell’east London, potrebbe essere un altro esempio di trasformazione similare alla precedente: caffè, progetti di ristoranti, workshops e piani di moderazione del traffico iniziano a plasmare una una comunità. Il progetto Incredible Edible, nato a Todmorden, nell’ovest dello Yorkshire, che prevede la coltivazione di frutta e verdura in spazi pubblici e angoli verdi inutilizzati (leggi anche Città autosufficienti in frutta e verdura), è poi sfociato in molteplici attività e ha cambiato le sorti del paese, generando lavoro e programmi di formazione. Un piano di riutilizzo degli spazi inutilizzati nella città spagnola di Saragozza ha dato vita a parchi, parcogiochi, campi da basket e orti, generando circa 110 nuovi posti di lavoro in tredici mesi.
La rivitalizzazione delle comunità non è il sostituto dello stato, ma ne riduce i costi. Lo studio di Lambeth sostiene che il supporti a progetti di partecipazione del genere detto sopra costi circa 400.000 euro per 50.000 residenti: approssimativamente lo 0,1 per cento della spesa pubblica. Questa spesa è ripagata abbondantemente dalla riduzione dei costi della sanità e ammortizzatori sociali, dalla riduzione della criminalità, dovuta anche da dipendenze da alcool e droga.
La cultura della partecipazione stimola la partecipazione politica. In realtà essa è partecipazione politica. Crea solidarietà sociale attraverso una visione più ottimistica della vita. Genera speranza dove questa è assente. Permette alla popolazione di riprendere controllo della società.
Ma, cosa ancor più importante, è alla portata di tutti, di qualsiasi provenienza e inclinazione politica. Comincia col generare una vita sociale più sopportabile, fondata su vali genuini. Ricostruendo la società dalle basi, si potranno forse indurre partiti e governi ad agire come i cittadini si aspettano. Possiamo farlo. E non ci serve il permesso di nessuno per cominciare.
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