“La facoltà di scegliere tra una agricoltura localmente centrata e ben integrata con gli ecosistemi e la cultura locale o, viceversa, una uniformata su modelli standardizzati che si vorrebbero applicabili indifferentemente in tutto il mondo ed orientati al profitto ed alla competitività produttiva e commerciale tra le grandi aziende è proprio una questione di sovranità nazionale, delle comunità e dei popoli. Ma è altrettanto una questione che dice molto della democrazia, del pluralismo, del rispetto e della biodiversità (anche culturale) che esiste o che non esiste nel mondo in cui viviamo”
Sergio Cabras*
intervista di Riccardo Troisi a Sergio Cabras
Il libro di Sergio Cabras, “Terra e futuro. L’agricoltura contadina ci salverà” (Eurilink), è un testo abbastanza corposo (450 pagine) e molto documentato che mette una di fronte all’altra l’agricoltura industriale e quella contadina. Il confronto è affrontato su quattro aree tematiche: le sementi, l’accesso alla terra, le politiche agricole e le leggi. Con una tesi di fondo: il prevalere del modello agroindustriale che spinge verso l’estinzione non solo l’agricoltura, ma la dimensione di vita e di economia contadina, non è dovuto a qualche “necessaria” o “naturale” tendenza evolutiva per cui i sistemi “più efficienti” sarebbero destinati ad affermarsi con sempre maggior successo e quelli obsoleti a scomparire, bensì a null’altro che a scelte e volontà politiche volte a favorire precisi interessi e con conseguenze gravissime per i popoli e per il pianeta. Abbiamo incontrato Sergio Cabras nella straordinaria comunità del Monte Peglia (Terni), nata dal recupero di diversi casali rurali abbandonati (leggi anche Oltre trent’anni di laboriosa occupazione), per rivolgergli qualche domanda.
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Qual è lo stato di salute oggi dell’agricoltura nel mondo?
Il modello dello sviluppo a tutti i costi, delle monocolture estensive, della Rivoluzione Verde caratterizzata da meccanizzazione, chimica e grande consumo d’acqua, degli Ogm, della finanziarizzazione speculativa di terra e derrate alimentari, commodities, è la versione agricola dell’allucinazione per cui si crede possibile ed auspicabile una crescita economica costante, obbligatoria e virtualmente infinita in un mondo che ha i suoi limiti naturali. Si tratta però di un sistema di vincitori e vinti in cui per moltissime persone non c’è posto se non come marginali e dimenticati. Di certo non c’è posto per quella parte contadina tuttora grandissima dell’umanità che non vive secondo questo modello e non si avvantaggia del suo progredire, né potrà parteciparvi degnamente neppure in futuro: sappiamo benissimo tutti che servirebbero tre o quattro pianeti perché tutta la popolazione mondiale possa vivere come nei paesi ricchi. Questo è il caso soprattutto per le popolazioni rurali tradizionali che non sono interamente coinvolgibili nell’economia di mercato globalizzata. Quelle popolazioni vengono allontanate o marginalizzate dalle stesse terre dove hanno sempre vissuto in seguito al crescente fenomeno del land-grabbing, che è solo uno degli esempi delle conseguenze del vedere la terra solo come una risorsa da mettere a reddito.
Un altro esempio, nel nostro contesto, sono le politiche di alienazione dei terreni del demanio agricolo che il nostro governo promuove per fare cassa, in misura peraltro risibile. In questo modo si perdono per sempre controllo e indirizzo d’uso su terreni agricoli, cioè anche ecosistemi e paesaggio, ma si perde anche la possibilità di sperimentazione per chi, senza mezzi finanziari, vuole ripopolare e coltivare le moltissime zone collinari abbandonate d’Italia. Intanto, frane e alluvioni ci mostrano sempre più spesso quali conseguenze sugli equlibri idrogeologici abbia l’abbandono del territorio da parte dei contadini.
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Il tuo libro è prima di tutto un’analisi delle differenze tra l’agricoltura contadina e quella industriale.
I caratteri distintivi tra i due modelli, radicalmente alternativi, sono delineati a più riprese nel libro, a cominciare dalla questione delle sementi che sta alla base sia della biodiversità che della possibilità di autonomia, autodeterminazione, sovranità alimentare dei contadini e delle comunità che consumano il cibo. Queste possibilità sono messe oggi fortemente a rischio dai diritti di proprietà intellettuale: il mercato globale dei semi è in mano per il 60 per cento alle tre prime aziende multinazionali, la Monsanto da sola ne controlla il 30 per cento, e per l’80 per cento alle prime dieci. Queste sono le stesse aziende che controllano anche l’agrochimica, per il 90 per cento a livello mondiale, e gli Ogm.
Il libro descrive il percorso, diversificato nelle diverse aree del mondo, lungo il quale si è arrivati a questa situazione e riporta alcune alternative, come la selezione genetica partecipativa, l’ipotesi BioLinux (sistemi Open Source sulle sementi) e le proposte in campo per una rinegoziazione complessiva sui diritti di proprietà intellettuale sui semi e sugli organismi viventi affinché i contadini abbiano il diritto di selezionare, riprodurre e vendere da sé i propri semi, con norme che garantiscano loro una sovranità, non privata a fini di profitto, ma collettiva e su base locale sulle sementi autoprodotte.
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Chi è dunque il contadino?
Abbiamo bisogno di un’immagine autentica ma aggiornata del contadino come una figura specifica di lavoratore, ma di essere umano, che smette di essere ciò che è, attore di una propria cultura/economia/interazione con gli ecosistemi/condizione di vita a tutto tondo, nel momento in cui diventa solo un produttore della merce-cibo. Le conseguenze diventano evidenti nell’esame attento che viene fatto della Pac, la Politica Agricola Comunitaria europea, e delle attuali normative igienico-sanitarie. Le politiche agricole europee, a cui è destinata metà dei fondi dell’Ue, e nazionali seguono il principio per cui in questo mondo, dominato dal mercato globale, sono le aziende più competitive quelle che devono essere sostenute. Ma la domanda è: fino a che punto e in quale senso aziende il cui reddito è dato mediamente per il 70 per cento proprio dai sostegni pubblici possono essere considerate “competitive”? Non siamo invece di fronte ad attività che si reggono quasi interamente su questo aiuto finanziario e che altrimenti non sarebbero in grado di stare in piedi?
La realtà a cui ci troviamo di fronte è che l’agricoltura, nella sua versione industriale, ha perso la sua ragion d’essere tradizionale, che è sempre stata quella di fornire del buon cibo per la gente e di gestire terreni ed ecosistemi in modo tale da conservarne la fertilità per le generazioni a venire. Ora, nell’economia finanziaria dei paesi sviluppati, il suo ruolo è stato trasformato fino a farla diventare soprattutto la giustificazione per una serie più ampia di attività economiche, spesso ad essa estranee, come le industrie di macchine agricole, le compagnie petrolifere, l’industria agrochimica/petrolchimica, le società finanziarie, quelle di assicurazioni, banche, istituti di ricerca ed università, aziende biotech e sementiere, agenzie di assistenza tecnica e di marketing, lavoro per i sindacati, per tecnici, consulenti e professionisti, la grande distribuzione organizzata dei supermercati, le industrie alimentari di trasformazione, le aziende di trasporti e così via …
È questo il vero business di quel settore dell’industria che viene ancora impropriamente chiamato “agricoltura” e che viene artificialmente tenuto in vita nonostante la sua antieconomicità energetica ed ambientale nei paesi sviluppati. Un business collaterale che può esistere solo intorno a questo modello agricolo e non lo potrebbe invece con quello contadino; ed una produzione di cibo i cui prodotti possono reggere sul mercato solo perché non vi vengono compresi nel prezzo finale i costi ingentissimi delle ricadute collaterali, ambientali e sociali, mentre anche quelle (stavolta invece positive quanto a sostenibilità, biodiversità, tutela dei territori, occupazione…) dei prodotti contadini non possono essere inserite nel prezzo. Di conseguenza, l’agricoltura industriale diventa il modello unico della produzione alimentare nei paesi sviluppati e perciò le norme sulla produzione alimentare, la trasformazione e la vendita vengono fatte unilateralmente a misura di questo stesso modello, in particolare sotto l’aspetto igienico-sanitario per cui vengono imposti investimenti in strutture ed attrezzature che, per le piccole aziende, non sono possibili né potranno rientrare.
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Per questo le produzioni contadine sono penalizzate….
Sì, sono produzioni emarginate dal mercato e portate al limite dell’illegalità, quando si tratta di vendere i loro prodotti trasformati artigianalmente in azienda. Ciò con giustificazioni di “sicurezza alimentare”, nonostante il fatto che, se guardiamo a ciò che effettivamente accade, troviamo che negli ultimi decenni in Europa i veri pericoli per la salute dei consumatori sono venuti sempre e solo dalle grandi produzioni agroalimentari industriali e non dai cosiddetti “retrogradi” piccoli agricoltori. L’ultimo capitolo del libro è perciò dedicato ad una analisi delle leggi nazionali e dell’Unione Europea e ciò che ne emerge è che, pur restando nel quadro dei principi dichiarati nei regolamenti vigenti, sarebbe perfettamente possibile riconoscere il carattere distintivo dell’agricoltura contadina e permettergli spazi adeguati di agibilità legale; e che pertanto le scelte che verranno o che non verranno prese, rispetto a ciò, dipendono esclusivamente dalla volontà politica di prenderle o meno da parte dei politici in carica a Bruxelles e di quelli a livello nazionale.
L’agricoltura contadina è spesso chiamata “agricoltura informale”, ma, se per sistema formale dobbiamo intendere quello centralizzato, regolato da leggi, regolamenti di vendita, registrazioni obbligatorie sia delle sementi che delle aziende, diritti esclusivi di proprietà, standards uniformi concepiti a misura della lavorazione e della distribuzione industriali…, il settore “informale” potrebbe essere meglio definito come un sistema auto-controllato dai contadini, organizzato su base locale ed, anche per questo, integrato con le necessità dei consumatori. Che invece di essere relegato nel “sommerso” dovrebbe venir riconosciuto e sostenuto con leggi e politiche adeguate, anche in virtù delle molteplici ricadute positive che può avere per tutti.
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* Sergio Cabras è un neo-contadino olivicoltore; è andato in campagna da Roma nei primi anni ’80 unendosi al fenomeno delle occupazioni di terreni e casolari demaniali sul Monte Peglia in Umbria; partecipa attivamente alla Campagna popolare per una legge sull’agricoltura contadina.
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DA LEGGERE
L’agricoltura riguarda tutti, ogni giorno
Siate generosi con chi lavora la terra
Zappatori e zappatrici senza padroni
L’articolo ed il libro relativo dimostrano che questo è il futuro agribusiness dell’Italia ma se lei lo porta all’Expo,si scorna perchè non vogliono l’energia dell’acqua.del mare,dei piccoli frutti dei boschi ,dei frutti e piante dimenticate,degli animali allevati con mangimi alghi,non vogliono il pesce allevato.Va all’Expo e ritorna con agri cul de sac.
Molto interessante, siamo perfettamente in sintonia.