Quando Israele non riesce uccidere i nostri bambini, si accontenta di uccidere la loro infanzia, scrive Areej Alrantisi nello splendido e tremendo racconto dell’8 agosto che abbiamo tradotto da Mondoweiss. Le notizie di oggi, 9 agosto, riferiscono che il fragile “cessate il fuoco” ottenuto dalla mediazione egiziana per ora tiene. Il bilancio dei palestinesi morti negli ultimi 4 giorni è fermo a 44 persone uccise, 15 di loro erano bambini, centinaia i feriti. Chi conosce poco la situazione della più grande delle prigioni del pianeta si chiederà: perché a Gaza muoiono tanti bambini? La risposta è semplice: nella Striscia vivono quasi due milioni di persone, quasi una ogni due di loro ha meno di 14 anni. L’erba cattiva continua a crescere e i governi, tutti i governi israeliani senza alcuna eccezione, sanno quando è tempo di falciare. Il primo novembre in Israele si vota, per la quinta volta in tre anni e mezzo, la campagna elettorale ha le sue regole. La prima è mostrare l’efficienza dei giardinieri

Dopo l’ultima aggressione israeliana a Gaza, nel maggio 2021, vivevo nella disperazione. Mi ci è voluto un anno intero per guarire e ricostruire, per riabilitare i sogni e le ambizioni che erano state fatti a pezzi con il turbinio dei massacri israeliani.
Nel 2021 Israele ha ucciso mia nonna di 67 anni, mio zio Raed, sua moglie Shaima e mio cugino di sette mesi, Ibrahim. Feriti gli altri diciassette parenti presenti nella stessa casa, tra cui 4 uomini, 3 donne e 10 bambini di età inferiore ai 13 anni. La metà di loro ha trascorso più di sei ore sotto le macerie, al buio, in attesa di morire.
È passato solo un anno. Le ferite hanno appena cominciato a rimarginarsi, lo shock è ancora vivo. Ho finito il mio ultimo anno di università e ho osato sperare in un futuro migliore.
Ma Israele aveva altri piani e avrei dovuto riconoscere il mio eccesso di fiducia.
Venerdì 5 agosto, il solo giorno della settimana riservato alle riunioni di famiglia e ai momenti gioiosi, mi sono seduto con il portatile dopo pranzo. Era una giornata normale finché non abbiamo sentito delle urla per le strade. Israele aveva preso di mira un combattente della resistenza.
Terrorizzato, ho chiuso il computer e mi sono precipitato a guardare le notizie. Non mi aspettavo che tutto sarebbe degenerato così rapidamente. Questi momenti terribili sono una ripetizione di ciò che abbiamo già vissuto il 14 novembre 2012, quando lo stesso orrore ha colpito Gaza e un altro combattente della resistenza è stato preso di mira.
Mi sono ritrovato con le mani nei capelli, incapace di credere a quello che stava succedendo. La notizia riportava che un bambino era stato ucciso in un improvviso attacco aereo israeliano. Sono seguite le immagini dei feriti, che avevano commesso la sola imprudenza di uscire in strada per sfuggire al caldo degli ambienti interni dopo che l’unica centrale elettrica di Gaza era stata chiusa a causa del divieto israeliano sulla Striscia .
Poi, tutto il nostro appartamento ha tremato per la forza d’urto dei bombardamenti vicini.
“Moriremo tutti?”, mi ha chiesto mia sorella, Alma, che ha 4 anni. Sembrava quasi imbarazzata.
«Non preoccuparti, questi sono fuochi d’artificio», ho risposto.
Alma ha vissuto due guerre ormai. Niente riesce a fregarla, e se le dico qualunque bugia mi prende immediatamente in giro. Quando Israele non è in grado di uccidere i nostri figli, si accontenta di uccidere la loro infanzia.
L’orologio segna le 20, l’ora esatta in cui ho letto il cognome della mia famiglia sulle notizie l’anno scorso, quando Israele ha commesso un massacro contro la mia famiglia nel sud di Gaza. Le ferite momentaneamente chiuse si sono riaperte, ed è tornato a farmi visita il vortice di ricordi del maggio 2021.
Le prime bombe sganciate venerdì scorso hanno spazzato i tentativi di normalizzare ciò che era accaduto l’anno passato. Tutti i miei tentativi di vivere la mia vita sono svaniti nel nulla al suono della prima esplosione. I miei tanti sogni e desideri ridotti alla speranza di non perdere nessun altro questa volta.
È strano come, in un batter d’occhio, tutti i tuoi piani possano diventare improvvisamente così insignificanti. Le storie che stavo scrivendo non sono nemmeno finite e la cerimonia di laurea che stavo pensando di celebrare ora sembra impossibile.
Le mie ambizioni sono state messe da parte da preoccupazioni più immediate: stare con la mia famiglia in modo da poter morire o sopravvivere insieme, continuare a indossare il mio hijab nonostante il caldo estremo, oppure eludere la richiesta di mia madre di procurarle un cucchiaio dalla cucina, perché anche restare solo un secondo a distanza potrebbe significare che uno di noi morirà e l’altro potrebbe vivere.

A volte per sopravvivere, devi morire
Sabato i miei occhi si sono riempiti di calde lacrime. Ho letto la notizia delle bombe esplose vicino alla moschea Imad Aqel, dove noi siamo soliti andare. I bambini uccisi lì erano i nostri vicini. Di nuovo, la stessa strada, gli stessi bambini, lo stesso panico che riaffiora – questa volta, da un ricordo più vecchio, quello della mia prima vera guerra.
Avevo otto anni quando, il 27 dicembre del 2008, alle due di notte, gli aerei da guerra israeliani hanno colpito la moschea di Aqel con due missili. I miei amici d’infanzia sono stati massacrati durante lo sciopero: Tahreer, Dina, Ekram, Jawaher e Samar Ba’alousha. I giorni meravigliosi che ho passato con loro restano impressi nella mia memoria per sempre. La mia famiglia ed io siamo sopravvissuti quella notte, cosa a cui nessuno dei paramedici e dei primi soccorritori poteva credere.
Il problema è che in ogni guerra che attraversi, ogni volta che provi a superare quello che è successo, i ricordi rinascono e rivivono.
Questa è la vita a Gaza. A volte, per sopravvivere, devi morire. E per vivere hai bisogno anche di morire.
A Gaza tutti hanno una storia come la mia, una storia che Israele preferirebbe manipolare e distruggere. Detestano le nostre testimonianze, vorrebbero distruggerle, se potessero, e con esse chi le racconta. L’hanno già fatto. Malgrado questo, raccolgo quel poco di forza ed energia che mi resta per mettere insieme queste parole. Non importa il dolore che mi costa, vale sempre la pena di raccontarle.
Fonte e versione originale in inglese: Mondoweiss. Surviving and dying in Gaza
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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