La retorica del riarmo europeo può essere letta anche come un tentativo disperato di tenere insieme un sistema in frantumi. Tuttavia qualsiasi crisi, vista dal basso, non è solo pericolo, ma anche occasione per cominciare a reinventare ciò che sembra immodificabile. Rifiutare l’Europa dei carri armati può essere oggi un primo passaggio con il quale favorire una profonda metamorfosi dell’immaginario. Esiste un vasto pensiero critico da cui attingere

L’Europa vive una crisi di irrilevanza geopolitica. Per decenni si è concentrata sul godimento di una sorta di “dividendo di pace”, dopo il 1989. Ma con lo spostamento degli interessi Usa verso altrove e il conseguente, progressivo disimpegno statunitense dalle questioni europee, il Vecchio Continente si scopre “sorpassato” dalla storia: incapace di sostenere il passo delle nuove potenze, politicamente frammentato, strategicamente dipendente dagli Usa e, al tempo stesso, attraversato da micidiali crisi interne (mediocrità politica, fascismo redivivo, scenari produttivi e culturali al ribasso, depressione energetica e del welfare, polarizzazione e disuguaglianza sociale). L’iniziativa russa in Ucraina ha agito da detonatore, facendo esplodere il senso di insicurezza e di perdita di controllo degli europei.
Sentendosi messi da parte dagli eventi globali, i leader UE invece di interrogarsi sul ruolo dell’Europa in un mondo multipolare, hanno adottato una postura difensiva e regressiva, tornando a vestire la vecchia armatura militare. È un riflesso tanto pericoloso quanto gretto: di fronte alla fine della propria centralità, l’Occidente si ripiega su un immaginario di dominio perduto, cercando di riaffermarsi con la forza anziché ripensarsi con creatività e adattamento.
È di Norbert Trenkle, del gruppo Krisis, il concetto di “esternalizzazione dell’autoritarismo”: proiettando tutta la violenza e l’irrazionalità fuori di sé (nel nemico), l’Occidente adotta risposte autoritarie e militariste al proprio interno. E così, in nome della sicurezza, si invocano politiche che limitano le libertà civili, si richiama un’unità nazionale acritica (chi dissente è accusato di disfattismo o di “fare il gioco del nemico”), si deviano fondi pubblici dai bisogni sociali al complesso militare. Il risultato è che i Paesi UE assumono dimensioni autoritarie, nazionalistiche o militaristiche per isolarsi dalla minaccia percepita. Questo è un chiaro passo indietro rispetto ai tanto declamati valori europei di pace e pluralismo che rischiano la decomposizione se consegnati a borghesi adunatine di piazza richiamate dal pifferaio mainstream. Come appunto accaduto di recente a Roma, dove non sono mancati fervidi proclami suprematisti, razzisti anche a dispetto dei genuini ideali di quei manifestanti mossi da un’immagine europea totalmente differente. Dunque, invece di innovare il proprio ruolo nel mondo, l’Europa cerca di conservare un potere in declino ricorrendo a strumenti di forza bruta e chiusura che appartengono a un’epoca passata.
In tal senso, come non far riferimento a Israele, emblema del fronte egemonico occidentale in crisi? Per decenni avamposto dell’Occidente in Medio Oriente, Israele è sostenuto politicamente e militarmente da Usa ed Europa. Oggi vediamo come il genocidio in atto dei palestinesi – spesso giustificato in nome della sicurezza e di presunti “valori occidentali” contro il terrorismo – testimoni il livello spaventoso di corruzione etica e politica raggiunto da Israele e dai suoi sponsor euroatlantici. L’oppressione a Gaza e in Cisgiordania mostra al mondo immagini di devastazione e crimini coloniali che annientano la credibilità morale dell’Occidente. Il sostegno acritico a Israele è l’ennesima prova dell’ipocrisia occidentale: proclami universali di diritti umani da una parte, ma complicità con l’oppressione coloniale dall’altra. Frantz Fanon, il grande pensatore anticolonialista, ci allertava contro i miti umanisti europei che sottendono la violenza: «Lasciamo questa Europa che non la finisce più di parlare dell’uomo pur massacrandolo dovunque lo incontra, a tutti gli angoli del mondo». Oggi, queste parole risuonano ancora: nelle guerre per procura, nel razzismo sistemico, nelle disuguaglianze globali, riconosciamo la coda avvelenata dell’ideologia di dominio occidentale. L’Europa, incapace di fare davvero i conti con il proprio passato coloniale, rischia di replicarne gli schemi: quando estende la sua influenza militare ad Est (allargamento Nato) o quando sostiene l’occupazione israeliana ripropone dinamiche di espansione ed esclusione tipiche dell’imperialismo storico.
Come siamo arrivati a questa situazione? Come l’Europa – che si fa vanto della custodia di princìpi democratici e cosmopoliti – ricade nella trappola di un pensiero così tecnocratico e regressivo? Questa involuzione può esser messa a fuoco dall’analisi di Cornelius Castoriadis sull’immaginario capitalistico occidentale. Secondo l’intellettuale greco-francese, tanto le società capitaliste liberali quanto quelle burocratiche di stampo sovietico condividevano un medesimo immaginario centrale: la volontà di padronanza razionale illimitata sulla natura e sulla società. L’Occidente moderno ha coltivato il mito che grazie alla tecnica, all’economia e alla scienza si possa ottenere un controllo totale sul corso della storia e sul mondo naturale. Questo “desiderio di dominio razionale” è divenuto una sorta di religione laica: si è assunto che lo sviluppo economico e tecnologico siano valori in sé, che il calcolo razionale (del profitto, dell’efficienza) possa risolvere ogni problema umano. Castoriadis critica ferocemente questa prospettiva, definendola un immaginario eteronomo che asservisce la società a entità astratte (il mercato, lo Stato pianificatore, la tecnica) e soffoca la vera autonomia collettiva. Nel contesto attuale, vediamo all’opera proprio la razionalità tecnocratica priva di immaginazione che Castoriadis disapprovava. Di fronte a sfide complesse – crisi geopolitica, crisi ecologica, crisi sociale – le élite occidentali reagiscono come ingegneri sociali dall’occhio freddo: spostano bilanci, progettano alleanze militari, innalzano muri burocratici, il tutto trattando la società come un meccanismo da registrare e correggere. Ma questa razionalità strumentale manca totalmente di visione d’insieme e di senso. È, in effetti, un immaginario sterile che non sa offrire significati condivisi né prospettive di emancipazione. Secondo Anselm Jappe, uno dei teorici della Wertkritik (critica del valore) e del gruppo Krisis, il capitalismo può anche aver migliorato il benessere materiale in parte del mondo, ma ha creato un’immensa sensazione di vuoto, colonizzando ogni sfera della vita e trasformando tutte le attività dotate di senso in semplice consumo di merci. Questa analisi coglie nel segno la crisi di significato che attanaglia l’Occidente. Da tempo le nostre società sperimentano un malessere profondo, un’insignificanza crescente: il benessere materiale non ha portato felicità né coesione, la crescita illimitata ha distrutto legami sociali e ambiente, l’individualismo consumista ha lasciato macerie morali. Eppure, di fronte a questa crisi, i governanti non sanno far altro che accelerare sulla stessa strada fallimentare, ora con la scorciatoia bellica. È come se di fronte al senso di vuoto, l’Europa cercasse rifugio in un ritorno del rimosso: il nazionalismo e il militarismo, appunto, che dovrebbero restituire un’identità e una direzione storica. Ma è un tragico autoinganno.
Gilles Deleuze stesso notava con lucidità che “tutto è razionale nel capitalismo, tranne il capitalismo stesso”. L’economista può spiegare razionalmente i meccanismi del mercato, il generale può pianificare razionalmente una guerra, e tuttavia il risultato complessivo è delirante, folle. In altre parole, la ragione tecnocratica occidentale è solo la facciata di un’irrazionalità profonda. Deleuze osserva che ogni società è attraversata da desideri e spinte inconsce: “Sotto ogni ragione c’è delirio” e il capitalismo moderno non fa eccezione. Anzi, in esso i fattori deliranti (brama di potere, di profitto, volontà di sopraffazione) si combinano in modo particolarmente perverso con la razionalità strumentale. Ad esempio, ciò spiega perché intere popolazioni possano arrivare a desiderare la propria repressione: c’è, dice Deleuze, una sorta di “amore disinteressato per l’apparato oppressivo” che porta la gente ad accettare – persino volere – misure di controllo che sviliscono e impoveriscono. Pensiamo a un certo orgoglio bellicista che può pervadere l’opinione pubblica all’inizio di una guerra, o al consenso per leggi speciali di sicurezza che restringono libertà: è la dimensione desiderante e irrazionale che entra in gioco, travestita da necessità razionale (“dobbiamo difenderci, dobbiamo sacrificarci per la patria” ecc.). Questa diagnosi deleuziana sembra descrivere perfettamente la psicologia collettiva occidentale odierna: per paura del nemico o per risentimento, molti finiscono per abbracciare proprio quel meccanismo oppressivo che li danneggerà – ad esempio accettando i tagli al welfare e l’economia di guerra come prezzo da pagare per sentirsi al sicuro. Il dominio tecnocratico, insomma, regge non solo grazie alla forza ma perché fa leva su un immaginario impoverito, su desideri manipolati.
Il capitalismo globale è entrato da decenni in una fase di crisi fondamentale e irreversibile. La caduta della redditività, i limiti interni del sistema (automazione, saturazione dei mercati) e le crisi ecologiche ed energetiche segnano la fine della possibilità di uno sviluppo illimitato. Di fronte a questi limiti, l’unica risposta del capitale è la “fuga in avanti”: finanza fittizia, debito, e – implicitamente – distruzione e conflitto. In effetti, quando la valorizzazione economica arranca, la tentazione della via d’uscita militarista riemerge storicamente: le guerre possono distruggere il capitale in eccesso, aprire nuovi mercati (ricostruzione), compattare le popolazioni attorno a un progetto quando non ci sono più progetti di prosperità credibili. Non a caso due guerre mondiali scoppiarono dopo periodi di globalizzazione e crisi economica (la Belle Époque prima del 1914, e la Grande Depressione prima del 1939). Oggi, con la policrisi che affligge l’Occidente, tornano i tamburi di guerra. La retorica del riarmo europeo può essere letta anche come un tentativo disperato di tenere insieme un sistema in frantumi. Invece di riconoscere che il modello neoliberista-finanziario è finito, le classi dirigenti preferiscono militarizzare i problemi, creando un nemico esterno per deviare il malcontento interno. Ma in ultima analisi, questa è una non-soluzione che aggrava tutti i problemi: non elimina la stagnazione economica (anzi distoglie risorse da investimenti produttivi sostenibili), aggrava la frattura sociale interna, e aumenta l’insicurezza globale.
Di fronte a questa fosca diagnosi, sorge spontanea la domanda: esiste una via d’uscita? Come sfuggire a questo immaginario di dominio occidentale morente, che però ancora miete vittime e rischia di trascinarci in nuovi conflitti? La buona notizia è che il pensiero critico evocato in queste considerazioni converge sull’idea che sia necessario un immaginario radicalmente nuovo per costruire pace e convivenza in una società complessa. Pur provenendo da esperienze diverse, tutti denunciano l’insufficienza dell’immaginario esistente e indicano la necessità di inventare concetti e orizzonti alternativi. Già Fanon, al termine de I dannati della terra, lancia un appello accorato: «Per l’Europa, per noi stessi e per l’umanità, compagni, bisogna rinnovarsi, sviluppare un pensiero nuovo, tentare di metter su un uomo nuovo». L’uomo nuovo fanoniano rappresenta proprio il superamento dell’umanesimo ipocrita dell’Europa coloniale, in favore di un’umanità diversa, riconciliata, liberata tanto dall’oppressione coloniale quanto dall’alienazione capitalistica.
In modo analogo, Castoriadis insisteva sulla necessità di rompere l’immaginario istituito e aprire spazi all’immaginario radicale: cioè, alla capacità creativa della società di darsi altri fini, altri significati, altre forme di organizzazione. Egli sosteneva il progetto di autonomia: le società devono poter deliberare sui propri obiettivi ultimi, invece di lasciarsi trascinare da pseudo-leggi economiche o tecnocratiche. Ciò implica anche recuperare dimensioni qualitative: la cura dell’ambiente, la solidarietà, la partecipazione diretta, la pluralità culturale, tutti elementi che cozzano con la fredda razionalità strumentale dominante. Immaginare la pace, in questa prospettiva, significa prima di tutto immaginare un altro modo di vivere. Non si può costruire una pace duratura semplicemente bilanciando potenze militari o firmando trattati dall’alto, se sotto persiste la logica competitiva e predatoria. Occorre un’altra visione del mondo, dove la sicurezza non derivi dalla minaccia e dalla deterrenza, ma dalla giustizia e dalla cooperazione.
Lotte sociali, movimenti all’insegna di “Welfare, non warfare”, dell’insegnamento resistente che proviene da donne e uomini della Palestina liberata e libera, delle rivendicazioni giovanili per un futuro senza odi né muri, spingono a riflettere su come spezzare l’incantesimo della violenza astratta del capitale e ricostruire un rapporto diverso tra gli esseri umani, con la terra (“t” minuscola e maiuscola).
L’Europa, dopo l’orrore di due guerre mondiali, seppe immaginare la riconciliazione, il welfare state. Quei progetti oggi mostrano la corda, non è più sufficiente “pace interna” europea, ma pace globale, fondata su un ordine multipolare cooperativo. Significa innanzitutto fare autocritica: riconoscere i crimini coloniali, le ingiustizie del passato e del presente, e porvi rimedio con atti concreti (dalla decolonizzazione dei rapporti economici alla risoluzione diplomatica dei conflitti regionali in cui l’Occidente è coinvolto). Significa ridurre drasticamente le spese militari per investire in un vero “dividendo di pace”: sanità, istruzione, conversione ecologica delle economie, solidarietà internazionale. Non è utopia ingenua – utopistico è piuttosto credere che aumentando gli armamenti si otterrà la sicurezza. La vera sicurezza ontologica per le persone non può venire da muri militarizzati, ma da una società che garantisca dignità e senso a tutti.
Smontare la narrazione dominante del riarmo è un primo passo necessario per evitare che l’Europa sprofondi in un futuro di conflitto e declino civile. Questa narrativa si rivela, alla luce della critica, per quello che è: una risposta regressiva e dettata dalla paura, che tenta di esorcizzare la crisi dell’Occidente riproponendo vecchi miti (il nemico barbaro alle porte, la salvezza nelle armi, l’unità forzata contro l’altro). Le testimonianze che raccolgo sono un invito a voltare pagina. Sta a noi raccogliere queste intuizioni e tradurle in pratica politica. Invece di un’Europa armata e impaurita, possiamo lottare per un’Europa disarmata e solidale, capace di contribuire a un mondo multipolare equilibrato. Questo richiede coraggio intellettuale e morale, ma la posta in gioco è altissima: riscattare l’Occidente da se stesso, liberandolo dal suo immaginario di dominio, e aprire finalmente lo spazio per un’era nuova di pace, autonomia e coevoluzione tra i popoli. Le crisi non sono solo pericoli, ma anche occasioni per reinventare ciò che sembrava immodificabile. L’Europa può ritrovare un ruolo nel mondo, ma non con i carri armati: soltanto con una profonda metamorfosi del proprio immaginario. È tempo di scegliere se continuare a camminare verso il baratro con lo sguardo fisso negli specchietti retrovisori della storia, oppure se immaginare e costruire collettivamente un futuro diverso. La seconda opzione è senza dubbio la più difficile, ma è l’unica che meriti davvero le nostre energie. Come disse Fanon, “l’ultima grande battaglia dell’uomo” è quella di recuperare la propria umanità – ed è una battaglia che non si vince con le armi, ma con l’immaginazione, la creatività e la solidarietà.
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STUDIANDO GLI STESSI LIBRI , ATTINGENDO ALLE STESSE INFORMAZIONI SI RICADE NELLA INCOMUNICABILITA’….PERCHE?????