La scelta operata da Andrea Segre e dal co-sceneggiatore Marco Pettenello per il film Berlinguer – La grande ambizione è stata di lavorare su tre piani che si incrociano continuamente: la ricostruzione narrativa, la sfera famigliare, il materiale documentario. Un ottimo cast, sopra tutti un gigantesco Elio Germano che ci dona un Berlinguer di umanità a tutto tondo
Nel 1973 Andrea Segre non era nato, come il suo sceneggiatore Marco Pettenello e come Elio Germano e Elena Radonicich e il musicista iosonouncane. Andrea Pennacchi aveva quattro anni. Paolo Pierobon sei. Miguel Gotor ne aveva due. L’altro consulente storico, Giulio Marcon, ne aveva quattordici e Roberto Citran diciotto, e probabilmente qualcosa di più di quell’anno ricordano. Quasi tutti e tutte coloro che si sono dedicati e dedicate alla realizzazione di Berlinguer – La grande ambizione sono quindi, almeno per ragioni anagrafiche, alla giusta distanza – per ricordare un altro importante regista veneto come Carlo Mazzacurati – da avvenimenti ai quali non hanno assistito o che, vista la giovane o giovanissima età che avevano all’epoca, non devono averli coinvolti più di tanto. Ecco, forse, una delle ragioni per le quali ci troviamo di fronte ad una ricostruzione storica di avvenimenti italiani, europei e internazionali e alla figura del segretario del Partito Comunista Italiano in una fase cruciale della storia del partito e della nostra società che non ha nulla né dell’agiografia né tanto meno della propaganda né della rimembranza emotiva o nostalgica e neanche della messa in fila cronachistica e asettica di fatti e personaggi.
Enrico Berlinguer, che era nato a Sassari nel 1922, fu segretario del PCI dal 1972 al 1974, ma il film di Andrea Segre prende in esame cinque anni del suo mandato politico e della sua vita: dal 1973 al 1978. Sono anni in cui, in ordine cronologico, avviene il colpo di stato in Cile che indurrà Berlinguer a una profonda riflessione culminata nella pubblicazione di tre articoli sul settimanale Rinascita e nella proposta del “compromesso storico”, cioè di unire al governo le forze di ispirazione socialista e comunista e il grande partito di ispirazione cattolica. E poi lo strano “incidente” automobilistico del 3 ottobre 1873 in Bulgaria, il referendum sul divorzio, la strage di Piazza della Loggia a Brescia, il terrorismo brigatista, le tensioni col mondo giovanile nel 1977 e la manifestazione di Roma in cui morì Giorgiana Masi. E le elezioni amministrative del 1975 e politiche dell’anno successivo, in cui il Partito Comunista conquistò il governo di molte città e divenne il più grande partito comunista dell’area occidentale, con circa un terzo di italiani che lo votavano. E le feste dell’Unità con milioni di partecipanti e gli incontri con operai e lavoratrici in una esistenza mai statica. Fino al rapimento di Aldo Moro e all’uccisione della sua scorta e alla drammatica conclusione di quei cinquantacinque giorni del 1978.
Il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana viene fatto trovare dalle BR in via Caetani a Roma il 9 maggio 1978. Enrico Berlinguer morirà a Padova l’11 giugno 1984, quattro giorni dopo essersi sentito male durante un comizio di chiusura della campagna elettorale.
La Prima Repubblica, in un Paese già martoriato da stragi, incidenti, attentati, è segnata dalla tragica morte delle due figure più rappresentative dei due maggiori partiti, che avrebbero potuto dare un senso e una direzione affatto diversa alla politica e alla vita della società italiana. Senso e direzione che, come nel film viene giustamente ricordato, non erano graditi né agli Stati Uniti né all’Unione Sovietica.
Ad Aldo Moro sono stati dedicati molti film e serie televisive, addirittura quando era ancora in vita ed Elio Petri lo ritrasse per mezzo della grande interpretazione di Gian Maria Volonté in Todo Modo (1976). Su Enrico Berlinguer, invece, fino ad oggi non era stata realizzata nessuna opera di “finzione”.
Davanti a questa mole di avvenimenti la scelta operata da Andrea Segre e dal suo co-sceneggiatore Marco Pettenello è stata di lavorare su tre piani che si incrociano continuamente: la ricostruzione narrativa, la sfera famigliare, il materiale documentario.
C’è una grande lezione precedente, che è quella del miglior Francesco Rosi (quello, ad esempio, de Il caso Mattei, 1972) ed è una lezione che qui viene ripresa e applicata nel modo migliore.
Nulla stride, infatti, tra il Berlinguer privato che oscilla la gamba priva di scarpe mentre in casa pensa a qualche suo discorso e il segretario di partito che parla nei comizi o a Tribuna Politica o, con un coraggio raro e anche per questo rimarchevole, rivendica il diritto di una autonoma scelta politica dei comunisti italiani al venticinquesimo congresso del partito comunista sovietico. Né sono mai fuori luogo le immagini documentarie, che devono esser costate mesi di ricerca d’archivio e di scelta, che, anzi, si innestano alla perfezione col racconto del mondo e della famiglia.
Il lavoro del direttore della fotografia Benoit Dervaux e il montaggio di Jacopo Quadri, così come gli interventi musicali di iosonouncane sono magnifici.
E poi c’è la questione degli interpreti. Le biografie di personaggi storici sono uno dei generi cinematografici più rischiosi. A volte si realizza un materiale che potrebbe esser buono per un processo di beatificazione, altre si scade nella parodia. Nulla di tutto ciò, in questo caso. Anche quando l’intervento del trucco prostetico (di Leonardo Cruciano e Viola Moneta) è più marcato, come nel caso dell’Aldo Moro di Roberto Citran e, soprattutto, del Giulio Andreotti di Paolo Pierobon, non si scade mai nell’imitazione che tracima nella macchietta. Attori e attrici sono evidentemente stati diretti con sapienza e rigore e hanno reso al massimo livello di intensità.
Sopra tutti un gigantesco Elio Germano che ci dona un Berlinguer di umanità a tutto tondo. Non solo grande dirigente politico, mai pago di facili certezze ma col culto del dubbio e dell’approfondimento, ma anche finanche timido commensale con la gente del suo partito e con i lavoratori e le lavoratrici, e padre di famiglia tenero e attento e marito innamoratissimo della moglie Letizia. (“Che cosa le dispiace di più che dicano di lei?”, chiese Giovanni Minoli in una giustamente nota intervista televisiva. “Che sono triste”, rispose Berlinguer. In questo film vediamo anche i suoi risvolti ironici, allegri, persino beffardi e giocosi, come un uso del tutto particolare de L’accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg).
E così come Andrea Segre dimostra di essere degnissimo erede del grande cinema civile dei Rosi e dei Pontecorvo, Elio Germano, senza cadere in iperboli, è a mio giudizio il vero continuatore dell’enorme capacità interpretativa di Gian Maria Volonté.
Infine: sono stato un militante di quel Partito Comunista (che con la direzione di Berlinguer era arrivato ad avere un milione e settecentomila iscritti) e per un breve periodo anche un dirigente locale della FGCI. Avrei potuto essere quel ferroviere che gli racconta che ogni tanto non faceva pagare il biglietto ai giovani che non trovavano lavoro. Come milioni di altri uomini e altre donne ho attraversato quegli anni italiani e del mondo lavorando, discutendo, studiando, gridando, lottando. Ho avuto l’enorme fortuna di vivere in un periodo storico in cui era carne viva e musica e gioia e fatica e impegno e respiro la frase di Antonio Gramsci che apre lo splendido e indimenticabile film di Andrea Segre: “Di solito si vede la lotta delle piccole ambizioni, legate a singoli fini privati, contro la grande ambizione, che è indissolubile dal bene collettivo”. E continuo a vedere – con altre forme, per altre strade, in modi che possono apparire inediti ma che poi si rivelano possibili – giovani donne e giovani uomini che questa ambizione, grande, potente, vera, la nutrono ancora.
Non c’è la parola “fine”, se non in un film. Nella vita non c’è, grazie anche a grandi uomini come Enrico Berlinguer da Sassari. Ed è bene che non ci sia. “Non capisco da che parte stai, papà”, gli dice il figlio Marco in una discussione a tavola, di quelle che ogni genitore e ogni figlio ha provato. “Sempre dalla stessa, figlio mio”, risponde papà Enrico, “quella dei lavoratori, degli sfruttati, degli oppressi”.
Berlinguer – La grande ambizione
(Italia/Belgio/Bulgaria, 2024)
regìa: Andrea Segre
sceneggiatura: Andrea Segre e Marco Pettenello
fotografia: Benoit Dervaux
montaggio: Jacopo Quadri
musiche originali: iosonouncane
scenografia: Alessandro Vannucci
costumi: Silvia Segoloni
consulenti storici: Miguel Gotor, Giulio Marcon
con: Elio Germano (Enrico Berlinguer), Elena Radonicich (Letizia Laurenti), Alice Airoldi (Bianca Berlinguer), Giada Fortini (Maria Berlinguer), Neri Mazzeo (Marco Berlinguer), Cecilia e Camilla Di Giamberardino (Laura Berlinguer), Giorgio Tirabassi (Alberto Menichelli), Pierluigi Corallo (Antonio Tatò), Fabrizia Sacchi (Nilde Iotti), Francesco Acquaroli (Pietro Ingrao), Luca Lazzareschi (Alessandro Natta), Fabio Bussotti (Armando Cossutta), Paolo Calabresi (Ugo Pecchioli), Andrea Pennacchi (Luciano Barca), Stefano Abbati (Umberto Terracini), Lucio Patané (Gianni Cervetti), Nikolay Danchev (Leonid Breznev), Paolo Pierobon (Giulio Andreotti), Roberto Citran (Aldo Moro).
prodotto da: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa, Francesco Bonsembiante, Jospeh Rouschop, Martichka Bozhilova per Vivo Film, Jolefilm, Rai Cinema, Tarantula, Agitprop
Colore
durata: 122’
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