Nel libro Gesù contro edito da DeriveApprodi, Charlie Barnao e Domenico Bilotti, utilizzando gli strumenti della ricerca scientifica, ragionano su quanto l’uomo di Nazaret sia da considerare un criminale. In un paragrafo (qui pubblicato), tra l’altro, scrivono: “Gesù viene definito anomos, cioè «fuorilegge»: è un individuo che si comporta contro l’ordinamento costituito… L’intero messaggio di Gesù sembra svilupparsi attorno a un modello culturale profondamente deviante rispetto alla cultura del suo tempo…”
Luca, citando Isaia, ci ricorda come Gesù venga inserito nella categoria dei malfattori. Nel testo originale greco, infatti, Gesù viene definito anomos, cioè «fuorilegge»: è un individuo che si comporta contro l’ordinamento costituito fino a venire condannato dalla società in cui vive alla pena di morte per crocifissione.
Poiché la possibilità di un errore giudiziario viene perlopiù esclusa degli storici, dobbiamo prendere atto del fatto che la società del suo tempo, attraverso le proprie istituzioni politiche e religiose, con chiara consapevolezza e determinazione ha ritenuto Gesù colpevole di reati gravissimi, qualificandolo quale soggetto estremamente deviante: un pericoloso criminale. L’esecuzione della sentenza avviene, secondo il costume, all’esterno delle mura cittadine, perché il criminale si è posto egli stesso al di fuori dell’ordinamento sociale vigente. La croce stessa a lui destinata è il simbolo della sua devianza sociale e della sua criminalità.
Al netto delle motivazioni ufficiali e formali (politico-religiose) che lo hanno portato alla condanna, Gesù era senz’altro un deviante culturale. Prima però di affrontare i fatti e le azioni devianti di Gesù e dei suoi seguaci, definiamo alcuni concetti necessari alla nostra analisi. Devianza, in sociologia, è ogni atto o comportamento di una persona o di un gruppo che viola le norme di una collettività e che di conseguenza va incontro a qualche forma di sanzione. Un comportamento criminale è un comportamento estremamente deviante. La nozione di devianza non può sussistere al di fuori dell’interazione tra il deviante e chi lo giudica ed è pertanto indissolubilmente connessa al concetto di relativismo nel tempo e nello spazio. Durkheim a questo proposito affermava: «Non lo riproviamo perché è un crimine, ma è un crimine perché lo riproviamo»[1].
Per comprendere un comportamento è necessario contestualizzarlo nella cultura di riferimento, definita dal tempo e dallo spazio in cui si manifesta. Lo stesso comportamento, infatti, può essere considerato deviante in un determinato contesto culturale e assolutamente conforme alle norme sociali in un altro contesto culturale. Facciamo un esempio. Prendiamo a riferimento uno degli episodi più vergognosi della recente storia d’Italia: il caso delle cosiddette leggi razziali. Si tratta di quelle norme giuridiche che lo Stato italiano emanò nel 1938 e nel 1939 contro gli Ebrei. Ebbene, al tempo della loro promulgazione (e per tutto il periodo fascista) quelle leggi indicavano il comportamento giusto e appropriato, in termini di leggi dello Stato, da tenere contro la popolazione «di razza ebraica». In quegli anni, coloro che trasgredivano quelle leggi (leggi che oggi riterremmo criminali perché discriminatorie su basi razziali) erano i soggetti devianti, mentre al contrario gli attori sociali che allora le rispettavano con comportamenti conformi e corrispondenti, sarebbero invece attori sociali che oggi riterremmo senz’altro devianti.
D’altro canto sappiamo anche che non sempre i comportamenti devianti sono comportamenti che provocano un danno sociale. La storia ci insegna che spesso le società finiscono per reprimere e punire i comportamenti che rappresentano vere e proprie innovazioni culturali. Per questa ragione il deviante talvolta paga personalmente il prezzo del cambiamento e del progresso sociale[2].
Esempi, in questo senso, sono stati Giordano Bruno o Galileo Galilei, le cui storie ricordano quelle che Merton[3] individuerebbe nei percorsi biografici di devianti culturali definibili innovatori.
L’intero messaggio di Gesù sembra svilupparsi attorno a un modello culturale profondamente deviante rispetto alla cultura del suo tempo. Per fare un esempio, il metodo da lui maggiormente utilizzato per comunicare la rottura rispetto alla norma è quello di compiere azioni sociali devianti. L’azione di Gesù viene quindi reputata dai detentori della norma «fuori luogo», «impura» perché: a) mette Gesù in relazione profonda con persone socialmente «impure» (lebbrosi, donne con il mestruo, peccatori ecc.); b) Gesù non osserva le regole per i tempi sacri (come il sabato) o per i luoghi sacri (come il tempio); c) Gesù trasgredisce le regole alimentari della sua cultura4.
Note
1 / É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Torino 1960, p. 81.
2 / A. Dal Lago, Prefazione in L. Mucchielli, Sociologia della delinquenza, Milieu, Milano 2017.
3 / R. K. Merton, Social theory and social structure, Simon and Schuster, New York 1968.
4 / J. H. Neyrey, The Idea of Purity in Mark’s Gospel in J. H. Elliott, Social-Scientific Criticism of the New Testament and Its Social World, «Semeia», Scholars Press 1986.
Titolo completo del paragrafo Anomos e deviante. «E fu annoverato tra i malfattori» (Lc 22, 37)
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