Lo scenario è buio, non sembra esserci spazio per la speranza. La guerra è ciò che attira maggiormente le nostre preoccupazioni. Ma cosa significa opporsi alla guerra? Sappiamo che non viviamo più nel mondo bipolare e neanche in quello unipolare: viviamo dentro un multipolarismo conflittuale. Il governo del mondo è in mano a un idra psicotica che distrugge la vita e fa esplodere le divisioni identitarie. Come riconoscere il nuovo in grado di emergere come contro-tendenza? Tanti credono sia necessario ripartire da un “noi”. Chi sarà mai questo “noi”? Noi gli operai? Le donne? I contadini? I migranti? I precari? Gli studenti? Gli insegnanti? Gli indigeni? Gli ambientalisti? I lavoratori delle piattaforme? Le persone comuni? Secondo Massimo De Angelis dobbiamo proteggere il desiderio di ribellarci al dominio dell’orrore, quel fare comune che qualcuno ha chiamato “cooperazione sociale” – oggi avvelenata e orientata dall’idra che riproduce il capitale -, una forza che emerge dall’articolazione di molteplici e diverse forze e il cui potenziale è più grande che la somma delle forze individuali. “Per la sua trasversalità, la riproduzione sociale è un terreno potenzialmente enorme di ricomposizione sociale dell’immaginario, delle lotte e delle pratiche che intendono costruire un mondo migliore… Ogni nodo di conflitto può diventare un’occasione per lanciare un progetto di rifondazione della cooperazione sociale che sovverta la subalternità della riproduzione sociale a quella del capitale. Essere contro la guerra significa organizzarci contro questa subalternità….”. Abbiamo bisogno di guardare il mondo a testa in giù
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La situazione è confusa. Le prospettive tetre. E grande è il desiderio di aria fresca. Così spesso mi sento quando, perturbato dall’accavallarsi di notizie orribili, osservo le tendenze in atto che mi rimandano l’immagine di un mondo senza speranza. La tendenza alla distruzione ambientale e al riscaldamento globale. La tendenza alla guerra e al ripresentarsi degli orrori più crudeli, il continuo migranticidio nel mediterraneo, l’eccidio dei palestinesi, la minaccia esistenziale che torna a fare capolino con le sue 13,000 testate nucleari. E poi la tendenza a un mondo sempre più diseguale, la tendenza dei nuovi fascismi a prendersi l’immaginario e il senso delle cose della gente, la tendenza all’esplosione di identitarismi tra loro ostili e rivali, invece che all’articolazione delle differenze che nella loro virtuale interazione possano dar luogo a uno scarto qualitativo alla nostra vita in comune. Insomma, la situazione corrente mi rimanda l’immagine di un mondo che non promette molto bene.
Di questi tempi, la guerra sembra essere la questione che attira maggiormente le nostre preoccupazioni, anche se essa è intimamente legata alle altre urgenze sociali e ambientali. Ma le guerre di oggi, anche se hanno radici storiche, nascono e si riproducono dentro un governo del mondo. Non viviamo più nel mondo bipolare della mia infanzia e giovinezza, dove due opposte immagini di progresso con più cose in comune di quando sembri, governavano il mondo dentro la stretta della minaccia della reciproca distruzione. Non è più neanche il mondo unipolare, dove la pace è portata dalla forza imperiale del vincitore rimasto in piedi, e che promette dividendi per tutti che si sono realizzati solo per i soliti pochi. No, ora viviamo dentro un mondo di multipolarismo conflittuale, dove nonostante le asimmetrie tra potenze, queste non possono (sicuramente non ancora) permettersi di rinchiudersi dentro sfere economiche separate. Tutte le funzioni del nostro metabolismo sociale con la natura non-umana – i circuiti dell’estrazione, della circolazione, della trasformazione, del consumo e della escrezione dei rifiuti con le sue tossicità – sono dominate da reti materiali e simboliche globali. È un dominio che, nonostante le sue forme distintive contemporanee, chiamiamo ancora capitalismo. Ma coloro che dovrebbero governare queste reti, chi ne decide viabilità, prospettive e interessi da premiare, sono in conflitto tra loro. Il governo del mondo è in mano a un idra psicotica, a un mostro il cui corpo si riproduce con la riproduzione allargata del capitale, e le cui innumerevoli teste cozzano l’una contro l’altra portando “noi”, che in questo mondo ci abitiamo e ci vogliamo vivere in pace, sempre più alla deriva, e a vivere una tragica sensazione di impotenza.
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Riproduzione sociale e guerra
Nel multipolarismo conflittuale dentro cui siamo costretti ad operare, la guerra reale o presagita di cui si fa portatore, è oggi il nostro primo nemico, non solo per il dolore e la disperazione creati dai suoi orrori e le ingiustizie perpetrate, ma anche perché attraverso di essa si colpisce e riconfigura la riproduzione sociale in senso lato.
La guerra (e il crescente presagio di guerra) opera sulla riproduzione sociale in tre modi.
In primo luogo essa è ovviamente strumento diretto di distruzione di vita e di peggioramento delle sue condizioni generali di riproduzione. Questo non solo per chi in guerra è in prima linea, o per le popolazioni civili direttamente interessate ai bombardamenti, all’elaborazione dei lutti, all’accelerato aumento del lavoro di cura. Anche per la distruzione ambientale e di diverse forme di vita, per la tossicità ecologica che la guerra aggiunge a quella già accumulata a riprodotta nei secoli dai circuiti del capitale. La guerra dà ulteriore impeto alle forze caotiche del mondo, rinforza gli orizzonti distopici, e intensifica il lavoro di cura necessario a una società. E sappiamo che il lavoro di cura è prevalentemente non pagato o sottopagato, e sproporzionatamente erogato da donne.
In secondo luogo, secondo quanto posso osservare in Europa, perché la guerra è strumento di riconfigurazione della riproduzione sociale, di peggioramento delle condizioni generali di vita attraverso i circuiti economici e finanziari (per esempio attraverso cicli inflazionistici che arricchiscono le multinazionali e impoveriscono i più) e le politiche che stralciano le già insufficienti risorse per finanziare la riproduzione sociale (per esempio welfare, sanità, educazione) per destinarle alla produzione di più armi. “Come se noi ci cibassimo di armi!” si sarebbe detto ai tempi dei miei nonni.
Ne consegue in terzo luogo che la guerra aggiunge la sua forza alle forze divisive già esistenti nel mondo, fa esplodere le divisioni identitarie, rafforzando quelle più escludenti, conservatrici e neofasciste fondate su nette distinzioni di divisione di ruoli di genere, su nazionalismi beceri, sull’identificazione di un “noi” fondato sulla rivalità con l’altro “noi”, così da poter circoscrivere in poche aree e per pochi soggetti le sempre minori risorse della riproduzione sociale, lasciando a tutti la libertà condizionata al reddito di rivolgersi a servizi privati.
La guerra, reale ma anche quella presagita, è una forza di destrutturazione sociale, di divisione profonda, e di creazione delle condizioni che permettano alla riproduzione del capitale di avvalersi di ulteriori abbassamenti dei costi di riproduzione sociale al fine del perseguimento della sua missione “civilizzatrice” in nome dell’accumulazione. La guerra è funzionale alla riproduzione del capitale. Abbassare i costi di riproduzione significa aumentare le diseguaglianze (presto quelle in Europa saranno come quelle in America Latina, prevedeva un articolo di Foreign Affairs lo scorso numero), e aumentare la distruzione ambientale. Ed è proprio questa la missione che le destre in Europa sembrano intente a perseguire e governare con grande tenacia: abbassare ulteriormente i costi della riproduzione sociale per dar slancio a quella del capitale.
“Noi”
Le tendenze sono il risultato delle nostre proiezioni nel futuro di ciò che estrapoliamo dal passato e dal presente. Le tendenze non tengono però conto del nuovo che può emergere, e che può porsi come contro-tendenza. Allora è necessario ripartire dal “noi”, questo pronome personale che è indicibile senza riferimento alla specificità di un contesto, di una scelta di campo, di una identità che lo afferma come distinzione da un “loro”. Chi sarà mai questo “noi”? “Noi” gli operai? Le donne? I contadini e gli agricoltori? I migranti? I precari? Gli studenti? Gli insegnanti? Le comunità lgbtqia+? I cisgender? I bianchi? I neri? Gli indigeni? Gli ambientalisti? Le maggioranze silenziose? I lavoratori autonomi? I lavoratori delle piattaforme? I cattolici? I musulmani? I buddisti? Gli ebrei? I pagani? Gli atei? Mi sembra che nel mondo delle aspirazioni dei movimenti trasversali, la scelta di campo è nessuno di questi in particolare, e potenzialmente tutti allo stesso tempo, una scelta che ha un senso solo a partire dal riconoscimento di una condizione comune anch’essa trasversale a tutte e tutti, anche se in misura e modi diversi. Parlare di condizione comune non è un modo di rievocare l’essenza umana, perché l’umano è declinato proprio nella sua diversità di condizioni, desideri e intenzionalità. La condizione comune è che tutti (o almeno la stragrande maggioranza) su questo mondo operiamo per riprodurre le nostre capacità umane viventi, e che tutti amiamo la libertà, e che tutti siamo esseri sensibili e desideranti, e che tutti viviamo e operiamo articolati gli uni agli altri attraverso numerosi giochi relazionali che creano, riproducono o destrutturano relazioni di potere, e circuiti produttivi che distribuiscono costi e benefici, e che tutti noi viviamo e operiamo sempre e anche necessariamente in rapporto alla natura non umana dal quale traiamo – alla fin della fiera – le condizioni ultime della nostra esistenza. Questa condizione comune e la configurazione del lavoro vivo ad essa corrispondente secondo me è il senso che occorre dare alla parola cooperazione sociale.
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Cooperazione, strana parola, che nel linguaggio comune generalmente intendiamo con sfumature etiche lodevoli: dai, cooperiamo invece di farci le scarpe a vicenda o di ammazzarci gli uni contro gli altri. No, nel suo senso generale la cooperazione sociale va intesa con Marx come quella forza che emerge dall’articolazione di molteplici forze, il cui potenziale sociale è più grande che la somma delle forze individuali. La tragedia è che una gran parte di questa cooperazione sociale, si fonda sulla rivalità competitiva, sulla segmentazione di classe, di genere, di etnia, di nazione, sulla creazione e ricreazione di soggetti subalterni. Questa cooperazione sociale che intreccia le nostre vite, non solo produce (cose, sguardi, idee, progetti, eventi, saperi, fantasie, immagini, istituzioni, affetti), essa anche riproduce, cioè crea le condizioni per la produzione, per la cooperazione sociale. Quali condizioni riproduce? Due essenzialmente, ma la prima, nell’ordine delle cose esistenti, è sempre più importante della seconda. In primo luogo, riproduce il corpo dell’idra, riproduce il capitale attraverso l’accumulazione, il profitto e la rendita e la propensione per la crescita sopra a tutto. In secondo luogo, riproduce le nostre vite, le nostre capacità umane viventi, quella che chiamiamo la riproduzione sociale in senso lato. La riproduzione del capitale detta le sue misure sul corpo della cooperazione sociale, le sue selezioni, i suoi ritmi, le sue distinzioni, volte sempre a portare acqua al suo mulino.
“Noi”, riusciremo a creare una forza che pone le sue misure delle cose, i suoi cosa, quanto e come produrre, i suoi perché produrre, i suoi come distribuire e ridistribuire, i suoi quanto lavorare, e via dicendo?
Da questo punto di vista, “noi” siamo tutti quelli che intendono re-immaginare, rifondare, riprogettare, riconfigurare la rete di relazioni e pratiche che sottendono la cooperazione sociale, al fine di promuovere condizioni di esistenza degne per tutte, condizioni che amplificano la libertà di creare e di relazionarsi, che trovano modi organizzati per articolare i diversi desideri. In questo senso, la riproduzione sociale è il terreno trasversale dentro cui si può lavorare per la ricomposizione politica di un “noi”. Trasversale, perché la sua problematica è trasversale non solo a diversi soggetti, ma anche ai settori e ambiti di produzione sociale. La questione del reddito, del welfare, delle condizioni di lavoro, della nocività, della cura, dell’abitare, della violenza sulle donne, della mobilità, della devastazione ecologica e del cambiamento climatico, del chi decide cosa, del chi è subalterno a chi, della produzione dei saperi e della loro trasmissione, di quali coppie possono adottare e quali no, di quali giovani cresciuti in Italia possono essere considerati cittadini, e via dicendo, sono tutte questioni della riproduzione sociale che troviamo nei più svariati luoghi della cooperazione sociale.
La guerra (e il presagio della guerra) spinge a un peggioramento generale di queste questioni. Ma per la sua trasversalità, la riproduzione sociale è un terreno potenzialmente enorme di ricomposizione sociale dell’immaginario, delle lotte e delle pratiche che intendono costruire un mondo migliore. Ogni nodo di conflitto tra le due riproduzioni, ha la potenzialità di diventare un punto di articolazione con altri nodi in questo terreno trasversale, se si lavora per una convergenza tra essi. Ogni nodo di conflitto allora può diventare un’occasione per lanciare un progetto di rifondazione della cooperazione sociale che sovverta la subalternità della riproduzione sociale a quella del capitale. Essere contro la guerra significa organizzarci contro questa subalternità.
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