Nella melmosa palude mediatica del tempo che viviamo non potevano certo pensare di conquistare i titoli di apertura di un’informazione da cui, specialmente a loro, non resta che difendersi. A ragione non gliene frega un granché, ci mancherebbe. Eppure, in qualche modo, riescono a far sapere che perfino in diverse università italiane, le ragazze e i ragazzi si sono presi il diritto di sorprendere. Occupano, dunque praticano l’illegalità. Pare che trovino insopportabile la macelleria di Gaza. Chi l’avrebbe detto… Non erano stati condannati senza alcuna attenuante all’autolesionismo e alle patologie della dipendenza? Accade, per esempio, a Genova, in un bel palazzo nobiliare seicentesco che vanta per giunta un’antica tradizione ribelle. Ce li racconta qui una signora che aspetta d’invecchiare e ha memoria di giorni assai remoti in cui gli studenti, sbattendo magari il pugno (chiuso) sul banco, avrebbero intimato al docente in cattedra: «Ehi, tu, parlaci di Gaza!». Così si dice facessero i genitori o i fratelli di gran lunga maggiori di quella “vecchia” signora ai tempi dei vietcong. Lei, che adesso in quell’università, siede – immaginiamo assai poco – dietro una cattedra, per augurare loro la miglior sorte, traccia di quei giovani ribelli sorpendenti (molto esposti alla rappresaglia della repressione) un prezioso ritratto a colori pastello con ombre tenui ma venate di malinconia. Quasi un blues. Però propiziatorio di nuove ribellioni. La nostalgia, si sa, può esser molto dolce, ma la speranza ha il sapore e il diverso gusto della vita che si difende
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Da venerdì 17 (!) novembre il palazzo universitario di via Balbi 4, a Genova, è occupato. L’assemblea in solidarietà con il popolo palestinese, indetta dal movimento studentesco a valle degli scioperi della mattina, si è prolungata lungo la sera, nella notte e poi nel fine settimana. Lunedì pareva che stesse per terminare e invece è proseguita anche nei giorni seguenti: chissà fino a quando, chissà quali negoziazioni sono state e saranno necessarie, chissà su quanta tolleranza istituzionale possono contare in quest’epoca di fascistissimi decreti sicurezza.
Balbi 4 è un bel palazzo nobiliare seicentesco, con un ingresso ampio e non troppo cupo, un cortile quadrato colonnato e, subito dietro, un incongruo e bellissimo aranceto. È da sempre il palazzo delle proteste studentesche, delle occupazioni, delle aulette concesse sine die, nelle trattative fra amministrazione universitaria e occupanti, perché i movimenti non finissero mai definitivamente e qualcosa di quella gioia potesse avere ancora spazio. È il palazzo dove ho studiato, quello che occupammo all’epoca della Pantera, nonché quello dove da decenni lavoro e dove sto felicemente invecchiando fra ricerca e lezioni. Ora chi ci entra trova striscioni appesi alle inferriate e alle balconate, un banchetto informativo, una lavagna dove deporre critiche e, a seconda delle ore, colazione e frutta a offerta libera. Inutile dire che da venerdì il palazzo è assai più bello: vivo, abitato, allegro.
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Nella primavera del 2021, ancora nel pieno delle restrizioni pandemiche, una dozzina di studenti occuparono la sede del DISFOR, dall’altra parte del centro storico: quattro settimane di conferenze, seminari, presentazioni di libri, concerti, pranzi a prezzo politico, discussioni, feste, lunghe serate tiepide sotto un cielo che, infine, sembrava promettere qualcosa di bello. Poi l’inevitabile smobilitazione, fulminea, un attimo prima che intervenissero le forze dell’ordine, e un finale balzano in commissione disciplinare d’ateneo. Nel frattempo, però, decine di giovani umiliati e massacrati dalla chiusura delle aule di ogni ordine e grado, delle biblioteche, dei luoghi della loro socialità si erano ripresi una fetta enorme di vita, avevano sviluppato capacità organizzative e sguardo critico: erano diventati adulti. Fra tutte, una frase dei loro comunicati mi è rimasta piantata nella mente: ci renderete conto di tutti gli psicofarmaci che abbiamo dovuto prendere nella nostra vita.
Già: il malessere esistenziale di generazioni irrise e schiacciate dal tritacarne capitalista trattato come «depressione», un problema individuale, qualcosa che non c’entra niente con l’organizzazione del nostro mondo. La sofferenza di chi percepisce correttamente la quantità immane di violenza in circolo, e quindi urla di paura, dismessa come «attacco di panico». Il rifiuto integrale, viscerale, del consumo coatto descritto come «disturbo dell’alimentazione». L’esplosione dell’esuberanza vitale schiacciata nelle gabbie della produttività e della competizione etichettata come «autolesionismo». Poi le bombe su Gaza, la sparizione della pluralità dal discorso pubblico, la disarmante ignavia degli adulti, la riduzione dell’università al programma di ricerca neoliberista, i coetanei morti di alternanza scuola-lavoro, le cariche della polizia su chi trova intollerabili quelle morti, e via dicendo. Le ragioni per essere arrabbiati col mondo non mancano.
Siccome mi avvio a diventare un’anziana signora perbene, vorrei rivendicare il mio diritto a un certo sentimentalismo. Ogni anno, a settembre, quando torno a Balbi 4 per riprendere i corsi, mi sembra che la popolazione studentesca sia sempre più giovane. Come se fossero loro ad avere un anno in meno, e non io un anno in più. Hanno visi dolci, parlano in toni educati, c’è quasi sempre un’ombra di tristezza nel loro sguardo. Credo che non si sognerebbero mai di piantare un pugno sul banco e intimare al docente in cattedra: «Ehi, tu, parlaci di Gaza!», come gli studenti del Sessantotto facevano col Vietnam. Sono stati abituati a non leggere il contesto sociale in termini strutturali, a volte addirittura a non guardarlo nemmeno: nessun rudimento di analisi marxiana, nessuna lettura sistemica, pochissima capacità di interpretazione storica. Il po’ di pensiero critico di cui dispongono se lo sono dovuto guadagnare da sé, senza che mai ne abbiano trovato traccia nei giornali, senza il sostegno degli adulti (persi nello smartphone, nel lavoro, nell’angoscia), a volte contro i loro stessi docenti (persi nella burocrazia, nella remissività alle riforme, nella paura del vuoto).
Eppure.
Eppure, nonostante la piega altamente repressiva del governo in carica, hanno avuto il fegato di occupare. Eppure, a parlar loro fuori dal contesto formale dell’aula, sono informatissimi, se la ridono della propaganda dei media e sono capaci di un’indignazione proprio fisica davanti agli orrori che quotidianamente passano sotto i loro occhi. E sono anche capaci, per chissà quale silente trasmutazione antropologica, di un’organizzazione completamente orizzontale, assembleare, senza leader (una domanda per gli over-quaranta: ma ve la immaginate un’occupazione senza un maschio alfa che subito indossa i panni del capo-popolo? Per me, fino a oggi, era pura fantascienza).
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Non parlo a loro, a questi giovanissimi pieni di coraggio e di disperazione, di generosità e di rabbia. Parlo agli altri, a quelli che, come me, si avviano a invecchiare e che hanno ancora qualche ricordo di gioventù della gioia delle lotte, della bellezza delle città insorte di cui ha scritto Furio Jesi, del balenare della comprensione nel momento del pericolo di cui ha scritto Walter Benjamin, dell’intensità bruciante degli amori che nascono quando la vita scorre in piena. I più giovani, che abbiamo lasciati soli così a lungo, hanno imparato a fare a meno di noi, non hanno più bisogno delle nostre memorie perché se ne stanno costruendo di loro: prego tutti gli dèi, le ninfe e gli spiriti dei boschi che, fra trent’anni, siano ricordi felici di quando il mondo, grazie alle loro lotte, è diventato altro, meno orribile, più abitabile. Siamo noi che abbiamo bisogno di loro: di sapere che c’è vita nel mondo, che la parte migliore e perduta dei nostri anni è riuscita comunque a restare viva, che dopo la nostra morte ci saranno ancora umani gentili, collettivi autonomi e solidali, molti mondi capaci di ricordare senza strazio il proprio passato e di guardare senza angoscia a quel che il tempo porterà.
In bocca al lupo, occupanti.
Quando tutto sembra soccombere alle tenebrose schiere di Sauron c’è sempre un piccolo, anonimo e quasi invisibile hobbit che, inoltrandosi su perigliose strade, si fa carico di un inconcepibile fardello: distruggere l’anello del potere. Da dove adesso si trova il buon vegliardo Tolkien, fregandosene di politicanti passerelle e meloniane lusinghe, sorride ai ragazzi di Genova
Mandi Stefania
Dario
San Vito al Tagliamento
Friuli
Grazie, dal profondo del cuore
Grazie grazie da una vecchissima signora che a Balbi 4 batteva i pugni sul tavolo
Grazie Stefania. Ma tanto tanto