Chiedo scusa se posso apparire melodrammatico, è forse una questione di temperamento, ma sono giunto alla conclusione che siamo di fronte alla situazione che definirà le nostre vite, la traccia etica e intellettuale che lasceremo.
I nostri nipoti (se avranno voglia di occuparsi di noi) non si chiederanno cosa abbiamo fatto nel 1968, o come abbiamo reagito davanti agli attentati fascisti degli anni Ottanta, o al rapimento di Aldo Moro. Si chiederanno invece: come si è comportata mia nonna, cosa ha detto e cosa ha fatto mio nonno, quando si è reso conto del fatto che in un posto che si chiamava Gaza era in corso un genocidio non dissimile da quelli che dal 1942 in poi i nazisti condussero contro gli ebrei, i rom, gli omosessuali, i comunisti, per citare soltanto uno degli innumerevoli eccidi che hanno segnato la storia umana?
Io descrivo a me stesso la situazione come se fossimo in un romanzo di Isaac Bashevis Singer che si chiama Meshugah: negli anni Quaranta un gruppo di intellettuali si incontra per parlare del più e del meno, e viene a conoscenza (una conoscenza frammentaria, contraddittoria) del fatto che un milione di persone sono rinchiuse dentro un campo in un villaggio polacco, guardati da soldati armati, affamati, costretti a bere acqua marcia, o a succhiare per la sete un cubetto di ghiaccio (come racconta Primo Levi). Mentre sono chiusi lì dentro vengono di tanto in tanto picchiati, trascinati fuori dalle loro baracche, malmenati, minacciati di morte, torturati. E ogni giorno cinquanta o cento o mille di loro vengono uccisi.
Non importa che questi internati siano democratici o oscurantisti, socialisti del Bund o fanatici ortodossi lettori della Torah. Non importa niente se sono buoni o cattivi, sono quello che Agamben chiama la nuda vita. Corpi indifesi contro un nemico che li vuole sterminare ed è super-armato.
Naturalmente mentre scrivo queste righe sono consapevole del fatto che all’inizio del genocidio in corso, c’è un pogrom, un’azione di violenza atroce. Il 7 ottobre militanti di Hamas armati hanno superato la frontiera invalicabile e fino a quel momento invalicata, e hanno aggredito, incendiato, sparato su vecchi e bambini inermi. Hanno sequestrato donne e uomini, hanno separato il fratello dalla sorella, l’amante dall’amante, li hanno trascinati separatamente su dei camion come fossero bestiame. Hanno ucciso millequattrocento persone che stavano ballando, o dormendo o scappando. Hanno messo in scena un pogrom come quelli che i contadini polacchi per secoli hanno scatenato contro gli ebrei, un rastrellamento come quelli che i nazisti tedeschi conducevano nei quartieri abitati dagli ebrei durante la seconda guerra mondiale.
Come posso dunque oggi dire che Israele porta intera la responsabilità dell’eccidio del 7 ottobre, e la responsabilità del genocidio iniziato subito dopo?
Posso dirlo perché ho cercato di immedesimarmi in un ragazzo o una ragazza che nel 2018 ha partecipato alla Grande Marcia per il Ritorno.
In quei giorni della primavera 2018 ricordo di avere seguito quotidianamente gli eventi: migliaia di giovani palestinesi, chiamati da un giovane giornalista attivista e poeta di nome Ahmed Abu Artema marciarono disarmati verso le recinzioni che impediscono agli abitanti della striscia di andare nei territori che prima del 1948 appartenevano alle loro famiglie.
Per molte settimane ogni venerdì marciavano verso i fili spinati, lanciavano sassi nel vuoto, gridavano, cantavano alcuni bruciavano copertoni, altri perfino lanciarono bottiglie incendiarie che davano fuoco alle sterpi.
La marcia coincise con il giorno in cui il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump – noto come suprematista e razzista, rappresentante dell’America del Ku Klux Klan – dichiarò che aveva deciso di spostare l’ambasciata del suo paese a Gerusalemme, in spregio alla richiesta di tutti i paesi arabi. La marcia coincise inoltre con il settantesimo anniversario della Nakhba, quando le truppe israeliane uccisero in un giorno solo 57 palestinesi e deportarono migliaia di persone in un atto di pulizia etnica.
Mentre migliaia di persone stavano in piedi davanti alle invalicabili recinzioni i soldati israeliani, acquartierati in fortificazioni protette, spararono proiettili di vario calibro e di vario genere, compresi proiettili vietati dalle convenzioni internazionali perché esplodono nella carne della persona colpita. Secondo il rapporto di Amnesty International tre paramedici furono uccisi perché si trovavano sul posto con i loro grembiuli bianchi per curare i feriti, tra loro la ventunenne Razan al Najjar colpita al petto da un cecchino israeliano pur essendo chiaramente identificabile come infermiera per i vestiti che indossava. Trentun bambini vennero uccisi nei sei mesi di svolgimento delle marce settimanali. Due giornalisti furono uccisi mentre riprendevano scene della marcia. Secondo l’organizzazione ebraica B’tselem durante le marce pacifiche del 2018 furono uccisi 290 palestinesi. Gli israeliani uccisi furono zero. Nessun israeliano fu ucciso o ferito.
Mi sono chiesto: se io avessi partecipato alla grande marcia del Ritorno nella primavera del 2018 avrei potuto continuare a sopravvivere miseramente senza poter fare nulla se non guardare gli uccelli del cielo e attendere una pallottola israeliana, oppure avrei detto a me stesso: andiamo a compiere l’atto più atroce che si possa immaginare perché tutti i morti viventi che ci guardano in giro per il mondo e non fanno niente, possano finalmente inorridire? Avrei detto a me stesso: andiamo a uccidere e morire. Perché la morte è meglio della vita che i nostri torturatori ci hanno consegnato.
Ho riflettuto molto, ho letto molto, ho provato molto dolore e molta vergogna, ma ora ve lo debbo dire, perché non posso nascondervi quello che sento. Sono giunto alla conclusione intellettuale, emotiva, storica, filosofica e personale che Gaza è come Auschwitz. E non posso pensare di condividere nulla – d’ora in avanti, con chiunque sta dalla parte delle guardie armate che ogni giorno sorvegliano le persone che stanno chiuse dentro un recinto sul quale c’è scritto: Arbeit Macht Frei.
*”Hier ist kein warum“, “Qui non c’è più un perché” è la risposta di un soldato nel lagher a Primo Levi che aveva chiesto “Warum?” “Perchè?” dopo essere stato oggetto di una offesa gratuita.
Mirko Tacchini dice
In Palestina c’è qualcosa di più terribile di Auschwitz: in Germania (spero che qualcuno possa smentirmi) erano le SS e i corpi armati tedeschi ad ammazzare gli ebrei mentre in Palestina semplici cittadini, chiamati coloni, hanno la licenza di uccidere uomini, donne e bambini per impossessarsi delle loro case e terreni.
Paolo Cervati dice
Condivido “l’intera” responsabilità di “Israele” che modifico in totale per poter dire: ‘è la somma che fa il totale’.
Senza l’appoggio incondizionato, (forse è più adatto, intransigente), sostegno dell’Impero britannico colonialista prima, degli Usa e della Germania ‘riparatrice’ poi, lo Stato d’Israele, con ogni probabilità, non avrebbe mai visto la luce.
L’ottusità di allora è la causa della rigogliosa ottusità di oggi. Lo Stato d’Israele è stato pianificato tra le due guerre del secolo scorso; periodo che ha visto la nascita e la successiva messa in atto delle peggiori infamie umane su vasta scala finora storicamente documentate.
Perciò sì, Gaza prigione a cielo aperto più grande del mondo, discende da Auschwitz.
I bombardamenti aerei su Gaza hanno forse più parallelismi con i bombardamenti alleati (inglesi e statunitensi. Toh, che novità!) sulle città tedesche di Dresda e Amburgo e su Nagasaki, Hiroshima e Tokyo in Giappone.
Di Primo Levi voglio ricordare anche questo: i destinati alla macchina della morte nazista erano chiamati muselmanner, musulmani.
E non certo perché i nazisti non sapevano distinguere tra ebrei e musulmani.
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beniamino gaudio dice
ormai alle espressioni di cui vergognarsi non c’è più fine e non c’è più un peggio. sono d’accordo sul giudizio sulle azioni di quel criminale di Netanyahu ma auspicare come fa cervati la non nascita dello stato di Israele è veramente terribile. non capisco come poi sia possibile chiedere uno stato per i palestinesi. e lo dico da persona contraria ad ogni dinamica nazionalista e populista. io abolirei armi e frontiere dovunque