Il Sahel è una fascia orizzontale di territorio dell’Africa Subsahariana che si estende tra dodici Stati tra il Sahara e la savana sudanese. In realtà è prima di tutto una categoria geografica inventata nel XIX secolo che mescola popolazioni diverse, legate a mestieri, storie e religioni differenti, anche se non viene raccontato in tutta la sua complessità. L’attualità propone anche l’immagine del “Sahelistan”, neologismo coniato per indicare la partita che si gioca tra la galassia del terrorismo jihadista, gli stati saheliani, le potenze straniere e le popolazioni locali, nonché le rotte dei trafficanti di cocaina e di uomini e donne che cercano di raggiungere il Mediterraneo. Tra i massimi studiosi di post-colonialismo e dei temi dell’identità, Jean-Loup Amselle, spiega perché dietro quella categoria oggi sono ancora vivi i fantasmi coloniali. La prefazione scritta da Marco Aime all’edizione italiana dell’ultimo libro di Amselle, L’invenzione del Sahel (Meltemi)
Un filo rosso percorre l’intera opera di Jean-Loup Amselle e ne mette in luce, oltre alle indiscusse capacità, la coerenza e l’estrema originalità. Fin dai suoi primi lavori – ricordiamo Logiche Meticce, Connessioni e L’invenzione dell’etnia1– Amselle sembra essersi dato una missione: scardinare il rigido sistema classificatorio, al quale non è sfuggita neppure molta antropologia del passato, per restituirci un panorama più complesso e articolato, che vada al di là delle semplici (talvolta semplicistiche) schematizzazioni adottate, in particolare dagli europei, nei confronti dell’Africa. Questo continente, infatti, è stato troppe volte vittima di vere e proprie “invenzioni”, pensiamo al mito di Timbuctù come città dell’oro o alla propensione mistica dei dogon, solo per rimanere nel Mali, Paese del Sahel, al centro di questo ultimo lavoro dell’autore.
Il Sahel, appunto: “In una nota all’Accademia delle Scienze del 1900, Auguste Chevalier faceva nascere la zona sud-sahariana del Sahel, oggi riconosciuta dal mondo scientifico”, così ha scritto l’esperto del mondo tuareg Edmond Bernus2. Infatti, la nozione di Sahel appare per la prima volta nella penna del botanico Auguste Chevalier, come categorizzazione botanico-geografica o bioclimatica, legata alla latitudine e alle curve delle precipitazioni. Oggi, però, il Sahel è divenuto una sorta di regione distinta, con presunte caratteristiche etniche, geografiche, ambientali, che la caratterizzerebbero come un unicum.
In realtà non è neppure semplice indicarne i confini, chi è in grado di tracciare un confine netto con il Sahara a nord o con la savana a sud? Potremmo tranquillamente dire che esiste più di un Sahel: su un piano meramente geografico, peraltro convenzionale, corrisponderebbe a una striscia lunga 8.500 km, vasta circa 6 milioni di km2, che attraversa 12 Stati (Gambia, Senegal, Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger, Nigeria, Camerun, Ciad, Sudan, Sud Sudan ed Eritrea), definita più dalle sue caratteristiche climatiche, ambientali e sociali che non da quelle geografiche o politiche. Esiste poi un Sahel climatico-ambientale, i cui limiti coincidono più o meno con le linee pluviometriche: da 100 mm/anno a nord, 600 a sud. Quando le piogge rimangono sotto i 150 mm/anno, la vegetazione non riesce a raggiungere una consistenza tale da rallentare il trasporto di sabbia del vento sahariano. Sul piano storico questa regione è legata ai grandi regni dell’oro (Ghana, Mali, Songhay), alle rotte carovaniere che collegavano l’interno del continente con il Mediterraneo e alla religione islamica. Una frontiera vera e propria, dove a incontrarsi non sono state solo le sabbie sahariane con le terre umide della savana, ma anche la tradizione delle popolazioni locali legate al mondo nero con la cultura islamica, venuta dall’est e giunta da queste parti attorno all’anno Mille. Le diverse combinazioni di queste due espressioni hanno dato vita a culture specifiche, che spesso mescolano tratti dell’una o dell’altra, facendoli convivere in una dimensione nuova. L’attualità, invece, propone l’immagine del “Sahelistan”, neologismo coniato per indicare la grande partita che si sta giocando tra la galassia del terrorismo jihadista, gli stati saheliani, le potenze straniere e la popolazione, nonché le rotte dei trafficanti di cocaina e di uomini e donne che cercano di raggiungere le sponde del Mediterraneo.
Un territorio sfaccettato dunque, che cambia volto a seconda del punto di vista, o ancora, come la definisce lo stesso Amselle, “una categoria instabile, meticcia e inconsistente”. Definizione che riassume il percorso del libro, in cui si cerca di decostruire l’immagine di un Sahel coerente e ben definito.
Peraltro, se guardiamo al passato più lontano, rileviamo che nessuno tra i cronisti arabi medievali, da al-Umari a Ibn Battuta a Es-Saadi, cita l’espressione “sahel”, o meglio sahil, che in arabo significa “sponda”. Le regioni a sud del Sahara venivano chiamate bilad es sudan, il paese dei neri. Neppure i primi viaggiatori europei come Mungo Park, René Caillié o Heinrich Barth nominano mai il Sahel, e lo stesso vale per i primi amministratori coloniali. Bisogna attendere la metà del XIX secolo per vedere comparire questo termine applicato a un contesto che definisce tanto un territorio, quanto uno spazio culturale, caratterizzato da tre “razze”: quella “bianca” costituita dai tuareg, quella “rossa” i cui rappresentanti sarebbero i peul (o fulani), che si pensa vengano dall’Egitto, musulmani e fondatori di imperi, e infine quella “nera” rappresentata dalle varie etnie autoctone, spesso soggiogate dalle prime due. Questa divisione influenzerà moltissimo saggisti ed etnografi del XIX e dell’inizio del XX secolo, affascinati, in particolare, dai peul “per le loro caratteristiche fisiche e linguistiche e per il loro stile di vita nomade”.
Si viene così a costruire una etnicizzazione della narrazione saheliana, che contribuisce a irrigidire queste categorie, che, invece, come ci ha dimostrato Amselle fin dai suoi primi testi, sono fluide, mobili, instabili, soggette a cambiamenti dettati dalla storia. L’Islam viene così contrapposto all’animismo lungo una linea di divisione etnica, creando degli stereotipi, come quello dei peul nomadi e islamizzati, dei mandinka o dei dogon sedentari e animisti, funzionali all’amministrazione coloniale, ma poco rispettosi della realtà. Esistono, infatti, peul sedentari, che praticano l’agricoltura, mentre i dogon sono in gran parte musulmani, senza contare che è possibile cambiare la propria etnia di appartenenza per motivi personali o per cause esterne.
Amselle però mette in luce come questi schemi di origine coloniale siano stati ripresi nei paesi saheliani moderni e indipendenti e in particolare da molti intellettuali africani contemporanei, al punto da intitolare un capitolo “La formattazione dell’intellettuale saheliano di lingua francese”. Molti di questi scrittori e saggisti riproporrebbero una nuova etnicizzazione della narrazione, enfatizzando il colore della pelle, le tradizioni locali e l’animismo come rimedio alla modernità di carattere occidentale. L’Islam viene spesso caricaturizzato e demonizzato, impedendo così che se ne faccia un’analisi più profonda e articolata soprattutto sulle cause che spingono sempre più giovani ad aderire ai movimenti jihadisti. Viene spesso riproposta una versione rivisitata dell’afrocentrismo, secondo cui tutto avrebbe avuto origine in Africa, invece di proporre una visione più dinamica delle molte e continue relazioni che il continente aveva con il mondo esterno. Sono numerosi i riferimenti alla Carta di Kurukan Fuga, definita la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo, per dimostrare il primato dell’Africa. Su questa carta, presuntamente scritta nel XIV secolo, gli storici e lo stesso Amselle nutrono molti dubbi3. In quest’ottica anche la lotta contro l’escissione femminile viene letta come un complotto e un’intrusione dei bianchi nelle culture locali. Lo stesso per quanto riguarda le battaglie contro l’omofobia, portate avanti da un’élite che viene percepita come molto vicina ai bianchi. Peraltro, molti di questi artisti e intellettuali vivono in Europa o negli Stati Uniti, dando vita a quello che Amselle definisce “un gioco ambiguo con l’ex potenza coloniale”.
Con una precisa e puntuale ricostruzione delle vicende del Mali post-indipendenza, Amselle rivela come alcuni “fantasmi” del passato e dell’epoca coloniale sopravvivano nella contemporaneità, per cui i molti governi che si sono succeduti, spesso in seguito a colpi di stato, hanno oscillato tra un modello gerarchico di potere e uno egualitario.
L’introduzione dello Stato civile, dei documenti di identità e dei censimenti etnici ha fortemente limitato la fluidità delle affiliazioni etniche e i cambiamenti d’identità ricorrenti in tutta la regione: “è così che gli attori sociali sono stati costretti a definirsi sulla base di un’identità mono-etnica e del corrispettivo stile di vita”. L’acuirsi delle tensioni, accentuato dalla caduta del regime libico di Gheddafi, ha inoltre fatto sì che questioni presuntamente etniche si siano intrecciate con questioni religiose e politiche, vedi i feroci scontri tra dogon “animisti” e peul islamici. A sessant’anni dall’indipendenza laddove in realtà c’è una situazione ibrida, mista, in cui agricoltori e pastori si mescolano, così come animisti e musulmani, dando vita a un mondo fluido, si è venuta invece a instaurare una società rigida, basata sull’etnia e sulla casta. Viene riproposta una gerarchizzazione tra “razze” civilizzate, peraltro considerate oggi pericolose per l’adesione al jihadismo, e “razze” incolte, ma pacifiche. I fantasmi coloniali, anche se mascherati da africani, sono ancora vivi e il merito di Amselle è, ancora una volta, di provocarci per indurci a guardare più in profondità, al di là della superficie, per comprendere meglio la complessità.
1 J.-L. Amselle, Logiche meticce. Antropologia dell’identità in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 1999; J.-L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità della cultura in Africa e altrove, Bollati Boringhieri, Torino 2001; J.-L. Amselle, E. Mbokolo, L’invenzione dell’etnia, Meltemi, Roma 2008.
2 E. Bernus, Points cardinaux: Les critères de désignation chez les nomades touaregs et maures, in “Bulletin des Etudes africaines de l’Inalco”, vol. 1, n. 2, 1981, p. 102.
3 J.-L. Amselle, L’Afrique a-t-elle “inventé” les droits de l’homme?,in“Syllabus Review”, 2 (3), 2011; La charte du Mandén ou l’instrumentalisation du passé africain, in https://www.liberation.fr/debats/2015/04/15/la-charte-du-manden-ou-l-
instrumentalisation-du-passe-africain_1817029/.
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