Un muretto, una scalinata, un albero oppure una panchina. Perché quei luoghi di incontro sono stati importanti e in qualche caso lo sono ancora? Come possiamo trasformare gli spazi pubblici, nel tempo dell’ossessione del controllo, quella che fa vietare il gioco e gli schiamazzi dei cortili e nei giardini, in luoghi delle relazioni, del piacere, dell’ovvio e dell’inatteso? Con questo articolo, Paolo Moscogiuri – architetto da sempre attento alle questioni educative – torna a ragionare di prossimità, tema di cui abbiamo discusso nei giorni scorsi come redazione di Territori Educativi in un incontro della Biennale dello spazio pubblico (Prossimità educativa) e affrontato con il dossier Fammi giocare
Il “dominio” a cui mi riferisco in questo testo non fa parte di quella sete di potere e di espansione che, nella storia e ancora oggi, le nazioni spengono solo con l’invasione di altri territori, anche se sempre di “territori” si tratta, ma di piccole se non piccolissime porzioni, che possono essere occupate da un pugno di persone. Siamo stati tutti adolescenti, e la maggior parte di noi è sicuramente passato per il periodo del “muretto”, dove ci incontravamo con il gruppo di amici abituali. Ma poteva essere una scalinata, un albero, una panchina, un punto determinato della piazza o del giardino comunale che ci “apparteneva” di diritto perché ne avevamo appunto il “dominio”, consolidato dalla frequentazione abituale. Questo tipo di “dominio” quindi implica la presa di possesso di un luogo o parte di esso, fatto di prossimità: la panchina in fondo al giardino, vicina al tiglio grande; il muretto basso dietro il chiosco della piazza; ecc. Il dominio del “muretto” poteva anche essere condiviso con altri gruppi, ma mai contemporaneamente; in orari diversi, sì: quelli della sera e quelli del pomeriggio.
Il dominio fa sempre parte di un luogo, cioè relazionale, identitario e storico, come ci insegna Marc Augè. Non c’è dubbio infatti che i ragazzi si incontrino lì per relazionare fra loro e questo può avvenire in maniera costante solo in un luogo, perché garantisce con la sua identificazione e storicità, la continuità nel tempo e nello spazio. In un centro commerciale invece, che chiude a una certa ora o in alcuni periodi dell’anno, e che nel tempo può essere rinnovato e sconvolto o addirittura demolito, verrebbe a mancare la possibilità del “possesso”. Così come non possiamo considerare dominio il tavolo del bar, anche se ci incontriamo puntualmente lì con gli amici.
Ci sono “muretti” che vengono passati di generazione in generazione, soprattutto nei paesi e nei borghi, dove i riferimenti non cambiano repentinamente come nelle metropoli.
Genitori e anziani
Ma il dominio di una piccola parte di un luogo, non è prerogativa degli adolescenti, perché le persone che frequentano abitualmente una piazza, con il tempo tendono a incontrarsi prevalentemente in un determinato punto. Così gli anziani che preferiscono angoli tranquilli e riparati, ma che permettano soprattutto l’osservazione di quanto accade al loro intorno; oppure i genitori che portano i figli piccoli a giocare, o i più grandicelli per la partita di pallone dove sanno di non venire cacciati via e dove si trova un elemento da identificare come porta del “campo”: un’arcata di un porticato, lo spazio fra un palo della luce e una felpa gettata in terra, un muro con il disegno dello spazio-porta, ecc.
Possiamo quindi definire “dominio”: il possesso temporaneo e simbolico, di un elemento o un piccolo spazio che appartiene a un luogo, identificabile dalle sue caratteristiche morfologiche e architettoniche oltre che dalle prossimità. Possiamo allora affermare che esiste una “prossemica” dei luoghi e quindi dei gruppi che lo vivono? Certamente sì. La prossemica come sappiamo è una disciplina semiologica, nata dall’antropologia e che studia le distanze che non mettono o mettono a disagio una persona, quando si relaziona con un’altra, in virtù di varie componenti: sesso, ruoli, età, culture e tradizioni. Ma anche i confini dello spazio dominio hanno la loro misura, non più fra individuo e individuo, ma fra gruppi. Così l’adulto che viola lo spazio muretto degli adolescenti, li mette sicuramente a disagio, non sentendosi questi liberi di parlare nel loro linguaggio e di criticare il mondo degli adulti, insomma si sentirebbero giudicati. E non si tratta, a mio avviso, solo di distanza metrica, perché gli adolescenti del “muretto”, non si fanno certo scrupolo di gridare sproloqui o invettive contro insegnanti, genitori e altri, per non farsi sentire, anzi al contrario, la loro esuberanza fa sicuramente girare il passante, ma la prossemica questa volta sta nel sentirsi protetti nel loro rettangolo di strada. Un atteggiamento che può comprendere bene chi ha o ha avuto un gatto, che se lo sgridate, si ripara anche su un quadrato disegnato in terra. Quello diventa il suo territorio, il suo “dominio”, e lì nessuno può e deve toccarlo.
Il “dominio” quindi è anche uno stato d’animo, e fa parte di un determinato periodo della vita: adolescenza, genitorialità, vecchiaia, ed è per questo che il posto, muretto o altro, viene spesso ereditato dalla generazione precedente.
Gli ultimi abitanti del dominio pubblico
E quale forma di “stato d’animo” come quella dei migranti, può rappresentare meglio i “domini” più grandi, come stazioni, metro, giardini, piazze, ecc, spesso luoghi di incontro in determinate ore del giorno e della settimana, suddivise fra le varie comunità. Così alcuni posti sono frequentati dalle comunità filippine, altri da quelle rumene, albanesi, cinesi, ucraine, ecc. Questa tipologia di “dominio” si differenzia dal “muretto” adolescenziale, perché è intriso da un sentimento di nostalgia e precarietà, e da un bisogno di ricostruire un angolo di ciò che si è lasciato. Non è insolito infatti che alcuni di questi gruppi, nel loro “dominio” si scambino cibo del paese natio. A Roma, per esempio, nel giardino del laghetto dell’Eur, difronte la stazione della metro Eur-Fermi, si incontrano durante i fini settimana i componenti della comunità filippina, e il giardino si trasforma in “trattoria”, con tanto di tavoli, sedie e cibo. Non credo infatti che ci sia niente di più emotivo, quando si sta lontani dal proprio paese, del cibo, perché tocca tutti i sensi contemporaneamente: l’olfatto, il gusto, la vista, e la voglia di parlare e raccontare.
Le stazioni ferroviarie invece rappresentano “… il punto di aggancio di transumanze, attraversamenti, stazionamenti appunto, temporanei ed erratici”, così come le definisce Giancarlo Paba nel suo libro Movimenti Urbani, parlando della stazione di Firenze. E sempre Paba ci fa riflettere su un paradosso tipico delle nostre città, ed è che sono proprio i migranti e i marginali ad essere gli ultimi abitanti del “dominio pubblico”, usando “le strade come strade: luoghi dell’incontro, della reciprocità dello sguardo, dell’ovvio e dell’inatteso, del piacere e del pericolo”. Ed è appunto paradossale che poi questo comportamento “venga percepito come ostile e inappropriato”.
E i rave-party?
Altra forma che possiamo definire di “appropriazione” o ri-appropriazione dello spazio pubblico, ma non “dominio”, sempre da parte dei giovani, anche se non più adolescenti, sono i cosiddetti rave-party. Non fanno parte dei domini perché i posti dove si svolgono variano sia territorialmente che nel tempo. La durata di quattro/cinque giorni e le localizzazioni sperdute e lontane dai centri abitati, non permettono infatti di ipotizzare caratteri di identità, storicità, “ereditarietà” e soprattutto di prossimità. Però non mancano di valenze utili per far riscoprire siti dimenticati e dismessi che pure hanno avuto una loro storia, come i capannoni industriali o le cave.
Nati alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, i rave party, non hanno mai smesso di fare parlare di loro in positivo o in negativo. L’origine è databile almeno quindici anni prima quando i movimenti di contro cultura come quella degli hippie statunitensi, ma anche europei, soprattutto in Gran Bretagna iniziarono a radunarsi per ascoltare musica rock ed esternare le loro opinioni contro la guerra e il bisogno di maggiore libertà dai costumi sociali e sessuali. Storici sono rimasti i concerti sull’isola di Wight che da 10.000 persone nel 1968 raggiunsero le 600.000 nel 1970. Ufficialmente c’era un ingresso a pagamento, ma che in realtà non avveniva poi di fatto. E questo portò anche al fallimento dell’organizzazione, che chiuse i battenti per riaprire nel 2002. Quindi più un’esternazione di non conformismo alle regole sociali, che di messa in discussione sull’uso degli spazi pubblici, cosa invece preminente nei rave. Naturalmente il fenomeno è complesso e difficile da analizzare, perché in parallelo c’è l’uso di musica ritmica e martellante a volumi talmente alti da creare stati confusionali, e di droghe, e purtroppo di molti incidenti anche mortali verificatesi sia per la mancata sicurezza nei luoghi occupati che per l’uso smodato di sostanze stupefacenti. Dal punto di vista speculativo per l’analisi dell’uso spontaneo dello spazio pubblico, rimane comunque il fatto che questi tipi di approcci non possono di certo essere “orwellianamente” regolamentati dalle istituzioni, facendo parte di quella necessità genetica insita nell’umano per la quale lo spazio a lui esterno è parte della sua ragione stessa di vita. E lo spazio che lo circonda, placenta alla sua origine, diventa man mano elemento da scegliere e plasmare a sua immagine interiore o auto-immagine, così come ci insegna Feldenkrais in: Conoscersi attraverso il movimento.
Il sequestro di Castel Porziano
Di contro, il controllo dello spazio vuol dire anche controllo dell’individuo. Dalle zone interdette alle manifestazioni, o addirittura al passaggio pedonale se vicine ai “palazzi del Potere”, come piazza Montecitorio a Roma, a grandi spazi naturali come la “Tenuta presidenziale” di Castel Porziano, perché spazio di rappresentanza, ma addirittura spiagge intere o luoghi caratteristici perché dati in gestione al privato, così che il “demanio pubblico” poi tanto pubblico non è, dove il bagnante può camminare nei primi cinque metri di battigia, ma non fermarsi né tanto meno poggiare un asciugamano in terra; fino alle aberrazioni da “coprifuoco” durante i primi due anni di pandemia (2020/2021) in cui le persone anche se isolate erano controllate da droni e denunciate se passeggiavano da sole sulla spiaggia o in un bosco. Una vera occasione da non perdere per il potere, quella del controllo sociale e dei luoghi; tanto da inventare un lasciapassare per i “buoni” e l’isolamento per i “cattivi”. “Di pazienti ne sono morti tanti, ma l’esperimento è riuscito”, direbbe il cattivo medico, perché ancora oggi di condanne e ribellioni se ne contano davvero poche. Quello della pacifica sottomissione del cittadino, a dire il vero era un po’ scontata perché il controllo dello spazio e quindi della vita del cittadino inizia dalla scuola, dove i bambini sono forzatamente relegati in aule sottodimensionate per la maggior parte delle ore della giornata, dalle strade e dalle piazze trasformate in parcheggi e transito veicolare ininterrotto, dai cortili e dai giardini perché regolamentati: vietato il gioco della palla, vietati gli schiamazzi, nelle ore del primo pomeriggio e in quelle serali.
Beh, dopo tutto questo non mi meraviglierei di certo che con una delibera opportuna qualche Comune assegnasse i “muretti” agli adolescenti secondo la zona, l’età e magari su domanda e graduatorie meritocratiche.
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