In qualità di assessora veneta all’istruzione, Elena Donazzan ha sentito l’esigenza di difendere l'”arte venatoria” e di promuoverla nella formazione dei giovani. Insomma si aprono le porte delle scuole ai cacciatori. “Dietro questa iniziativa è evidente una visione del mondo – scrive Annamaria Manzoni -, in cui la violenza a danno dei più deboli è normalizzata…”
Che Elena Donazzan passi ore a Hit Show, fiera della caccia di Vicenza, è notizia di scarso interesse, significativa dei suoi legittimi e ingiudicabili gusti personali; come del resto lo è la sua partecipazione al Convegno dell’Associazione Nazionale Libera Caccia: de gustibus. Che lo faccia nella sua veste di assessore veneto all’istruzione (in quota Fratelli d’Italia) è invece informazione molto meno privata, che esce dal recinto delle sue libere frequentazioni per entrare a pieno diritto nella materia politica in senso lato. Tanto più e soprattutto se a tutto questo si affiancano dichiarazioni sulla necessità di difendere l’arte (?) venatoria dai pregiudizi da cui sarebbe a suo dire assillata e di trasformarla in momento di formazione per i più giovani. L’eco delle sue parole raggiunge in men che non si dica la sua compagna di partito Barbara Mazzali, consigliere della Regione Lombardia per volontà popolare e cacciatrice per passione, che rincara la dose e sposta il livello delle esternazioni niente meno che su un piano di progresso morale ed etico, dove a suo dire la caccia andrebbe situata.
In altri termini si aprono le porte delle scuole ai cacciatori: per essere più precisi, si tengono aperte le porte ai cacciatori, dal momento che esistono scuole in Italia in cui hanno già fatto il loro ingresso trionfale nella veste quanto meno improbabile di protettori dell’ambiente: magari dopo avere, per l’occasione, posato fuori dall’aula i fucili, non oscuri, ma esibiti oggetti di venerazione e desiderio, per mostrarsi in abiti civili: non più Rambo all’assalto concitato del nemico (terrorizzato, indifeso, in fuga) ma sorridenti paladini della natura e degli animali.
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Di quegli stessi animali che vanno a uccidere per pura passione; una passione talmente travolgente da non poter essere governata in proprio e da richiedere il controllo esterno delle leggi, le quali, per quanto permissive, non possono astenersi da porre freni a quello che altrimenti sarebbe uno smisurato sterminio, stabilendo limiti ai giorni consentiti, nonché al numero di individui e alle specie da massacrare. Limiti, come si evince dalla lettura dei siti venatori, vissuti con insofferenza, in una sorta di crescente crisi di astinenza, che esplode poi all’ora X, quando finalmente si può sparare, sparare e ancora sparare.
Il ruolo della passione non è certo disconosciuto neppure dall’assessora all’istruzione Donazzan, che anzi la trova limitante come definizione perché, dice, la caccia è “molto di più”, va cioè ben oltre quel miscuglio di emozioni a insorgenza acuta, di bisogni fisiologici, di ingovernabile eccitazione che spinge all’azione. Superflue le descrizioni al proposito perché le più esaustive le offrono nei loro siti i cacciatori, i migliori conoscitori di se stessi, che raccontano di ciò che si anima nella loro psiche quando inseguono e uccidono quelle che considerano “loro” prede con termini ed espressioni quali “palpitante avventura, eccitazione, magia, ardore, ebbrezza, euforia”, mentre prudentemente omettono qualsiasi riferimento al terrore, ai lamenti, alla morte degli animali, che sono l’obiettivo stesso della loro attività. Che definire arte è quanto meno un azzardo linguistico.
Che dire? Tutto legale: con buona pace dell’abisso in espansione tra ciò che è lecito per la legge e ciò che è giusto per la morale.
L’atmosfera però si fa francamente surreale quando i politici in questione, con lo sconcertante assenso di alcune istituzioni scolastiche, designano i cacciatori quali depositari di interventi pedagogici e formativi destinati alle nuove generazioni, addirittura all’interno del contesto scolastico, dove i messaggi acquistano autorevolezza in quanto emanazione delle figure investite di un ruolo educativo.
Dietro queste iniziative è evidente una visione del mondo, in cui la violenza a danno dei più deboli è normalizzata, resa irriconoscibile da un uso distorto del linguaggio, dalla mistificazione che deriva dalla creazione di un’atmosfera amichevole e sorridente quale sfondo di una realtà che è invece cruenta e crudele.
Non si può ignorare la confusione cognitiva che viene generata nei ragazzi, nel momento in cui si richiede loro di accettare l’equazione “amore-uccisione”, “amore-criminale” secondo il pessimo ossimoro televisivo, quella stessa equazione davanti a cui ci si indigna quando è sostenuta dagli autori di femminicidi, che rivendicano di avere infierito sulle loro compagne giusto perché le amavano tanto. L’indignazione resta però sterile quando, in contemporanea, sulla stessa equazione si strutturano interventi che insegnano come l’amore e il rispetto per la natura siano i sentimenti che inducono i cacciatori a violentarla e a ucciderne gli abitanti. Insomma: mancano giusto lezioni sui movimenti pacifisti tenute da militari di carriera e ogni residuo di logica e buon senso sarà definitivamente oscurato dal sonno della ragione. Quello, vale la pena ricordare, che genera mostri.
Davanti a tutto questo, urge fare chiarezza innanzi tutto sul senso e il significato dell’educazione: che dovrebbe essere prima di tutto educazione al rispetto dell’altro, a cominciare da chi è più debole, dovrebbe essere proposta di modelli empatici in cui l’identificazione con l’altro sia la strada maestra per contrastare violenza e crudeltà, nel riconoscimento fondamentale del diritto altrui alla vita, una vita vissuta nei luoghi che sono propri: nulla di più lontano dall’atteggiamento predatorio e violento di chi alla natura e agli animali si avvicina solo con il fucile imbracciato, con l’atteggiamento macho di chi sulla vita degli altri esercita potere di morte, esercitato per puro divertimento.
La politica e le istituzioni, nel momento in cui danno dissennato sostegno a queste iniziative, si assumono la responsabilità di offrire alle nuove generazioni un precoce imprinting alla violenza, quella stessa da cui per altro sono loro stesse a metterle al riparo, quando vietano per legge la partecipazione ad uno “sport” (non solo arte: anche sport) che, guarda caso, a differenza di ogni altro, è vietato ai minori.
Non potendo contare sulla condivisione da parte dei singoli, qualunque sia il ruolo anche prestigioso che rivestano, di valori basici, quali rispetto, pace, nonviolenza, è allora doveroso che sia dal ministero della Pubblica Istruzione che arrivino Linee Guida, in grado di imporre per legge ciò che non è imposto da un’etica personale collassata.
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* Annamaria Manzoni è psicologa e psicoterapeuta. Ha scritto diversi articoli pubblicati su riviste di psicologia; per Bompiani ha pubblicato “Noi abbiamo un sogno“ (il saggio prende spunto dal noto discorso di Martin Luther King estendendone la battaglia antiazzista a quella contro la discriminazione di specie). Nel 2009 per Sonda ha pubblicato “In direzione contraria” che esplora la comunicazione tra animali umani e non. Molti dei suoi articoli sono su http://annamariamanzoni.blogspot.it/. Ha aderito alla campagna di sostegno di Comune Ricominciamo da 3
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Maria Buriani dice
Quando ero bambina in occasione di alcune festività mia madre comperava un coniglio che poi uccideva e scuoiava. Ricordo che io e mia sorella abbiamo sempre pianto e supplicato che non lo facesse. Era la stessa reazione di ogni bambino del vicinato. Io credo di ogni bambino del mondo. Ora abbiamo per cucciolo un coniglio. Questo per me è il progresso.