È tempo di un teatro degli stranieri, non c’è bisogno di motivarlo espressamente ci dice GüntheR Heeg. Viviamo in questi ultimi anni livelli di xenofobia e razzismo che nella nostra società moderna e illuminata si credevano superati. La globalizzazione ha generato un senso di smarrimento identitario, la crisi economica la paura dello scivolare verso condizioni socio economiche più svantaggiate, i penultimi sono diventati ultimi e mai come in questi anni assistiamo a un vero e proprio accanimento contro i poveri e gli indigenti, ma ancora di più assistiamo al ritorno della paura dello straniero, spesso sotto forma di odio manifesto, fino a iniziative di cittadini coalizzati contro rifugiati richiedenti asilo e più recentemente contro le associazioni che se ne occupano. Nei loro manifesti e striscioni si legge l’opposizione al presunto pericolo incombente di altre religioni e culture e un serrato: “Prima noi”.
Tutto ciò sembra anacronistico in tempi così caratterizzati dall’interconnessione culturale e dall’omologazione universale del mondo del lavoro e della vita, eppure sembra che il mondo sia diventato globale solo nei campi dell’economia, della finanza e della comunicazione digitale, mentre è stata trascurata la ricerca di possibilità e forme transculturali di vita collettiva. Manca la concezione e la pratica di una convivenza con lo straniero e più che mai scontiamo la mancanza di conoscenza anche tra vicini di casa e la necessità di costruire comunità trasversali alle comunità, manca la costruzione di immaginari comuni.
È in questa situazione che entra in gioco il teatro, da sempre strumento cruciale e mezzo per comprendere come vogliamo vivere (e sopravvivere) nel futuro. Ma come deve essere un teatro con gli stranieri, degli stranieri? Che forma deve assumere? È un teatro che mette in scena i loro usi e costumi? I loro linguaggi artistici e culturali tradizionali? È un teatro politico schierato per loro? Ma poi, chi sono gli stranieri? (leggi anche Il caleidoscopio dell’identità, ndr)
Il teatro transculturale è un medium decisivo per l’apertura verso lo straniero. Secondo Brecht, gli spettatori così come gli attori devono «allontanarsi da sé stessi» e diventare estranei a loro stessi: «[L’artista tratta] sé stesso e la propria rappresentazione con estraneità […]». Il teatro allora, secondo Waldenfels e Brecht, è estraneo a sé stesso e costituzionalmente «fuori da sé». Questo lo rende un luogo privilegiato di contatto tra estranei e un mezzo di comunicazione transculturale.
Un teatro transculturale non prende le mosse da culture isolate e distinte che cerca di mettere in contatto, piuttosto si sviluppa dall’esperienza dell’estraneità all’interno della propria pretesa – cosiddetta – cultura nazionale, per avvicinarsi forse a zone di intimità dell’umano, non connotate culturalmente. Le culture nazionali, infatti non sono mai “pure”, ma sempre contaminate, meticciate, mescolate e frutto di incontro tra culture differenti, di altri popoli ed etnie, usi e costumi, influssi e trasformazioni culturali ecc. Contaminate, insomma, da corpi estranei che se devono essere esclusi, è solo perché sull’esclusione dello straniero può essere fondata la chimera di una cultura propria. Ed è proprio del “contaminato” che si occupa il teatro dello straniero. L’altro che penetra nella propria pretesa cultura, questo “trans” che attraversa e apre la propria sfera ritenuta sicura, la lingua, la gestualità, i codici comunicativi, tutto ciò che è certo nei codici di relazione tra individui viene messo in tensione, ed è questo il movente del teatro transculturale, insieme alla ricerca e alla scoperta dell’antropologico universale, di un’essenziale trasversale alle culture, in cui tutti ci possiamo riconoscere.
Solo se il confine tra il sé e l’altro è messo in discussione e il proprio viene reso estraneo, diventa possibile una relazione libera con l’estraneità, quella propria come quella altrui. Il teatro transculturale cerca dunque lo straniero non in luoghi lontani, ma innanzitutto all’interno di ciò che è ritenuto proprio e vicino, ponendolo così sotto una nuova luce.
È questo lo spazio esperienziale del teatro transculturale, un luogo di mezzo, di transito, tra il proprio e l’altro.
Un laboratorio di teatro trans culturale è per noi un “giardino in movimento” come lo intende Gilles Clément, agronomo e paesaggista (leggi anche Erbe, arbusti e fiori migranti, ndr) che si è occupato molto delle aree verdi urbane e extra urbane, non coltivate, lui dice:
“Il giardino in movimento è un laboratorio del nomadismo permanente. Un centro di accoglienza sempre attivo, un luogo di incontri e di sparizioni, di certezze aleatorie e al massimo stagionali, in un certo senso il giardino in movimento appartiene ai non luoghi, cioè a quei siti che mancano di storia, permanenza, identità, un centro di posta, di smistamento, un parco logistico della natura in cui convergono e si ri-distribuiscono energie che altrove, cioè nei giardini tradizionali e nei terreni coltivati non trovano ospitalità. Un territorio di rifugio per la diversità biologica”.
Ma ci avverte ancora Günther Hegg:
“poiché questo luogo di transito è uno spazio esperienziale, lo straniero non può essere rappresentato in modo da poterlo additare, etichettare. Stranieri non sono i rifugiati, i migranti e i post-migranti. Se essi sono considerati stranieri vengono resi esotici. Ovunque il teatro si metta alla ricerca dello straniero, invece, è fondamentale che non lo esotizzi, che non pretenda di parlare a nome degli altri e che non ricada in drammaturgie dell’opposizione che ripetono l’obsoleto schema amico-nemico dell’azione politica, e nemmeno in quello della battaglia per la presunta buona causa. Lo straniero non è un oggetto e nemmeno un soggetto. Lo straniero è un’esperienza che ci capita, che strania la nostra percezione dell’estraneo in modo tale da renderci estranea la nostra stessa percezione. L’esperienza dell’estraneità è l’esperienza di un’estraneità nella sfera del proprio. Il teatro può e deve renderla possibile. Solo a partire da quest’esperienza, infatti, diventa possibile una comunicazione transculturale. Un teatro dell’estraneo e degli stranieri, per questo, non è solo degli e per gli stranieri che vengono dall’esterno, ma per gli stranieri che noi stessi siamo. Esso è un teatro tra stranieri e1.”
Realizzare questo è per noi la ricerca e la scommessa più interessante.
Città sospesa è un progetto di azione sociale attraverso il teatro curato da Asinitas onlus. Uno spazio di incontro tra cittadini di diverse età, genere, nazionalità, lingue, curriculum professionale ed artistico.
Non è certo il primo esperimento di teatro sociale e comunitario che nasce in città, ma Asinitas, da sempre impegnata nell’incontro con le persone straniere anche come occasione di rinnovamento delle proprie pratiche pedagogiche e sociali, ha fatto del teatro, come della scuola di lingua o dell’incontro tra donne, uno dei propri spazi privilegiati di ricerca e di azione, uno spazio in cui la vulnerabilità umana e la ricerca artistica si incontrano, trovando nella messa in forma artistica e pubblica una costruzione comunitaria, nella persuasione che se molto il teatro ha da regalare al sociale, questo genere di sperimentazioni ed esperienze stanno lentamente trasformando il teatro nel senso di una vera rivitalizzazione, creando nuovi paradigmi, nuovi modi di intendere il simbolico, la bellezza, la funzione teatrale.
Il progetto ha vinto il concorso MigrArti del MIBACT (oggi scelleratamente interrotto) per due annualità consecutive.
Proprio per il carattere di ricerca non abbiamo un conduttore fisso, ma ogni anno instauriamo rapporti nuovi, per noi è interessante che il mescolarsi della parte sociale e artistica sia autentico, per questo cerchiamo di coinvolgere artisti realmente impegnati nella ricerca teatrale, anche alla loro prima esperienza con il sociale.
Per il 2020 proponiamo un percorso con il regista teatrale Antonio Viganò direttore, regista, autore e scenografo dell’Accademia Arte della Diversità – Teatro la Ribalta – Kunst der Vielfalt di Bolzano, prima compagnia italiana composta da attori professionisti in condizione di disagio psichico che rifuggono da qualsiasi forma di compassione e vivono e fanno vivere il teatro, non con scopi terapeutici o sociali, ma in quanto portatori di un’artisticità autentica: sulla scena loro sono attori, attori e basta.
Nel 2019 Viganò ha ricevuto il Premio Ubu, massimo riconoscimento italiano per il teatro, nella sezione Premio speciale “per l’alta qualità della ricerca artistica, creativa e politica in ambiti spesso marginali e con attenzione capillare alla diversità”.
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1In tutto questo paragrafo faccio riferimento a G. Heeg, Cos’è il teatro transculturale, in «Sciami / Ricerche. Webzine semestrale di Teatro, Video e Suono», 24 ottobre 2018, trad. di A. Giammattei, par. 1, “Un teatro degli stranieri”, https://webzine.sciami.com/cose-il-teatro-transculturale/#fn-1701-10. Per un’idea generale di teatro transculturale l’autore rimanda a G. Heeg, Das transkulturelle Theater, Verlag Theater der Zeit, Berlin 2017.
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