Il 13 dicembre si è chiusa a Madrid la Conferenza Onu sul clima più lunga che si sia mai tenuta. Risultati zero, un nuovo intollerabile fallimento. I paesi industrializzati non cedono alle richieste di fondi avanzate da quelli “in via di sviluppo”, tra cui si mimetizzano anche colossi come Brasile, Cina e India, che competono ormai con i giganti occidentali ma non vogliono vincoli all’inquinamento per tutelare la loro crescita economica. In questo scandaloso tiro alla fune si lacera il futuro dei paesi più poveri, che sono anche quelli più vulnerabili alle intemperie causate dal cambiamento climatico. La sola speranza di fermare la catastrofe resta nella tenacia e nella capacità di mobilitazione movimenti dei giovani, i popoli indigeni e le organizzazioni ambientaliste
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Con 44 ore di ritardo sulla tabella di marcia si è chiusa la Conferenza ONU sul clima più lunga di sempre, ma il risultato finale è l’ennesimo fallimento. Quello che ci portiamo a casa da Madrid è un misto di stupore e rassegnazione: raramente ci è capitato di vedere un tale distacco fra le istanze promosse da giovani, popoli indigeni, organizzazioni ambientaliste e della società civile e le schermaglie diplomatiche di piccolo cabotaggio che parallelamente si consumavano nelle sale della COP 25. Nonostante i governi tentino a parole di accarezzare il crescente movimento per il clima e i giovani che lo animano, nei fatti al momento di dare risposte diventano impermeabili e sordi. La scelta di assecondare ancora una volta interessi corporativi ormai agonizzanti ha deluso tutti, specie perché questo significa perdere un altro dei 10 anni e poco più che abbiamo di fronte prima che si raggiunga un punto di non ritorno nella crisi climatica. Nonostante la richiesta agli esperti di fornire scenari per evitare un riscaldamento globale superiore al grado e mezzo, nonostante l’inclusione di questi target nell’ultimo accordo sul clima (Parigi, 2015), oggi gli impegni nazionali se messi insieme portano alla crescita delle temperature di oltre 3 °C alla fine del secolo rispetto ai livelli preindustriali. In pochi hanno promesso di aggiornarli entro il 2020 in maniera da raggiungere le zero emissioni nette al 2050, nonostante il documento finale approvato intorno alle 14 di ieri sia pieno di enfasi sull’aumento dell’ambizione.
La verità è che il risultato di questa COP è l’ennesima campana a morto su un sistema di dialogo multilaterale che tenta senza successo di comporre interessi troppo divergenti. In venticinque anni di negoziati il metodo di lavoro è cambiato, ma i risultati restano disastrosi. Si è passati dall’approvazione di un accordo vincolante, ratificato solo da pochi paesi e con anni di ritardo (Kyoto), a un approccio meno vincolante che ha prodotto l’accordo di Parigi, ratificato da tutti ma non rispettato da nessuno. In questo quadro, la COP 25 è l’ennesimo passo falso nel tentativo di spingere la comunità internazionale a mantenere le sue promesse di aumentare progressivamente l’impegno a ridurre le emissioni climalteranti in linea con obiettivi concordati sulla base di studi dell’IPCC. La transizione è considerata necessaria per evitare un aumento di temperatura media globale che porterebbe a sconvolgimenti socioecologici tali da mettere a repentaglio la vita di milioni di persone, le cui terre diverrebbero inabitabili.
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Al di là del pozzo di tecnicismi in cui è stata spinta la discussione nell’ambito delle COP, la realtà è che i problemi di fondo che portano al fallimento sistematico delle trattative sono eminentemente politici e legati a un modo di organizzare le società nella natura estrattivo e competitivo: il passaggio di fase cui andiamo incontro richiederebbe invece solidarietà e cooperazione a scala globale, con trasferimenti economici e di conoscenze dai paesi ricchi a quelli poveri, che hanno poche responsabilità per la crisi climatica e però subiranno la maggior parte degli impatti. Solo una visione del mondo egualitaria può sostenere lo sforzo epocale per costruire un rapporto armonico fra le società, gli individui e tutte le forme del vivente, evitando un eccessivo riscaldamento globale e gli effetti più disastrosi del cambiamento climatico. Ma non è questo lo spirito del tempo.
È così che il faticoso multilateralismo promosso dalle Nazioni Unite genera costantemente minuscoli risultati. I paesi industrializzati – è successo anche stavolta – non vogliono cedere alle richieste di fondi avanzate da quelli in via di sviluppo, tra i quali si mimetizzano per convenienza anche colossi del calibro di Brasile, Cina e India. Queste economie possenti che competono ormai con i giganti occidentali, non vogliono vincoli all’inquinamento per non perdere l’abbrivio nella crescita. I paesi più agiati, che performano solo un pochino meglio (i cali, le stasi o i bassi aumenti delle emissioni sono dovuti più alla crisi economica e alle delocalizzazioni che non a vere politiche di mitigazione), non vogliono aumentare la competitività degli altri pagando loro misure di adattamento e mitigazione. In questo tiro alla fune si lacera il futuro dei paesi più poveri, che sono anche quelli più vulnerabili alle intemperie causate dal cambiamento climatico. Avrebbero bisogno di forti aiuti economici, trasferimenti di competenze e tecnologie, ma in questa COP al momento topico sono stati esclusi dagli incontri fra le delegazioni. Un gesto arrogante che rievoca le green room dell’Organizzazione mondiale del commercio (WTO), dove i grandi della terra si chiudevano per decidere le basi degli accordi da imporre poi – con le buone o con le cattive – ai governi del Sud globale.
Le insanabili divergenze fra blocchi geopolitici sono la ragione per cui, inevitabilmente, la diplomazia prova infine a buttarla sulla finanza, protraendo la brutta abitudine a tentare di risolvere con il mercato problemi creati dal mercato. I sistemi di scambio delle emissioni previsti dall’Articolo 6 dell’accordo di Parigi – e prima dal Clean Development Mechanism del Protocollo di Kyoto – sono la scappatoia per tutti, il modo per dimostrare sulla carta di aver raggiunto traguardi che nella realtà restano lontani. Dovrebbero servire a ridurre le emissioni, ma in realtà alimentano soltanto una compravendita di crediti di carbonio fra paesi e fra aziende, che rallenta l’azione climatica concreta. Poi a un certo punto qualcuno fa dei conti e nota la discrepanza, scoppia lo scandalo (Kyoto docet) e ci si siede per discutere regole più stringenti. È quello che si è provato a fare qui a Madrid, per evitare la nascita di un mercato del carbonio drogato da vecchi crediti-spazzatura detenuti da alcuni paesi (soprattutto l’Australia) o il doppio conteggio delle riduzioni di CO2. Ma la trattativa è fallita (tutto rinviato alla COP 26 di Glasgow l’anno prossimo), perché il modello di sviluppo che produce queste scappatoie sta in piedi solo se trucca le carte. Dovremmo finalmente renderci conto che un sistema basato su competizione, diseguaglianze e mercificazione non può evitare la crisi ecologica.
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Intanto, è sempre più forte la pressione internazionale della società civile per evitare un cataclisma. Il problema è che questo auspicabile rivolgimento storico potrebbe verificarsi troppo tardi. Le forze che remano contro sono potenti, ma la sfida che abbiamo davanti è irripetibile: dobbiamo trovare insieme la forza per cambiare la conversazione mondiale sulla giustizia, l’ecologia e la solidarietà, o sarà impossibile costruire un futuro diverso da quello che si profila oggi all’orizzonte.
Ottimo articolo…. e dietro le quinte di un’azione politica inconcludente sta la presenza inquietante delle Multinazionali dell’energia fossile, ancora i profitti prima delle persone.