Dopo mesi di pressione e azioni in tutta Europa, la più grande banca di sviluppo al mondo, la Banca Europea per gli Investimenti, si è decisa ad approvare la nuova strategia di sostegno al settore energetico, mettendo fine ai prestiti ai combustibili fossili per quel che riguarda carbone e petrolio dalla fine del 2021. Resta uno spazio, seppur limitato, per il gas. È una prima decisione storica, merito delle tenaci pressioni degli attivisti e delle organizzazioni ambientaliste
Una notizia positiva arriva (finalmente) dall’Europa: la BEI (Banca europea per gli investimenti) cesserà di finanziare nuovi progetti basati su fonti fossili dalla fine del 2021. La decisione è stata sostenuta da 19 Paesi, inclusa la Germania, la Francia e l’Italia (bene!). E ha avuto il voto contrario di Polonia, Romania e Ungheria che chiedevano maggiore flessibilità per i progetti relativi al gas naturale (che sarebbe meglio chiamare gas fossile). Dunque il lato positivo è nella fine (ed era ora) dei finanziamenti a infrastrutture legate a carbone e petrolio mentre rimane uno spazio, anche se più limitato, al gas fossile. Anche questo spazio limitato è però un problema se effettivamente l’Ue vuole perseguire l’obiettivo della decarbonizzazione (emissioni nette di gas serra azzerate) entro il 2050.
Infatti, le infrastrutture energetiche, una volta realizzate, hanno la caratteristica di costare molto e di permanere a lungo nel tempo e dunque presentano un serio rischio di trasformarsi in stranded asset, cioè beni incagliati che diventano una perdita. Dunque, fino alla fine del 2021 si potranno ancora finanziare progetti fossili e, per il gas fossile, saranno finanziabili solo impianti con emissioni specifiche – mediate sulla vita dell’impianto – di 250 grammi di CO2 per kWh, dunque un numero possibile solo con i cicli combinati di ultimissima generazione o usando quote importanti di biogas (rinnovabile). Questo punto è il risultato di una pressione sia della Commissione Ue che di Germania, Polonia e Italia che hanno dunque mantenuto aperta una finestra per gli impianti a gas fossile, pur se a emissioni relativamente ridotte.
Sarebbe ora il caso che anche altre banche seguano la strada indicata dalla Bei. Ad esempio, Unicredit: lo scorso aprile attivisti, tra cui quelli di Greenpeace e Re:Common, hanno protestato all’assemblea degli azionisti per le attività di finanziamento di progetti industriali basati su acquisizioni di centrali a carbone in Turchia. E anche nella Repubblica Ceca. La stessa questione si pone per le attività finanziarie di Assicurazioni Generali che, dopo un primo passo positivo nel 2018, ha fermato la sua uscita da attività legate al carbone in Polonia e nella Repubblica Ceca.
Guardando il bicchiere mezzo pieno, con la decisione della BEI siamo comunque di fronte a una svolta. Il progressivo abbandono delle fonti fossili non sarà una passeggiata e l’industria estrattiva, inclusa quella nazionale, ha una strategia precisa, far rimanere il più possibile al centro del sistema energetico il gas fossile (e le sue infrastrutture).
Tanto che in un recente documento di posizionamento la Snam prefigura quote abnormi di idrogeno rinnovabile e gas rinnovabili (biogas e di sintesi) che in futuro potrebbero coprire quasi un quarto della domanda energetica. Si tratta di esercizi di stile – un’«ammuina del gas» – per giustificare il fatto che i propri asset – i gasdotti – non saranno stranded nemmeno con la transizione energetica. Ma se davvero si procederà verso la decarbonizzazione, queste infrastrutture potranno mantenere un ruolo ma assai limitato e per varie ragioni. Il futuro più lontano (2050) lo si deciderà infatti con gli investimenti dei prossimi 10 anni. Che sono anche quelli decisivi per capire se riusciremo a portare il pianeta verso una traiettoria che riduca i rischi di catastrofe climatica. E quello che farà l’Italia e l’Ue potrà avere influenza anche su attori di dimensioni maggiori, come è accaduto in passato con lo sviluppo delle rinnovabili.
* Direttore Greenpeace Italia
Articolo pubblicato anche su il Manifesto
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