Bosnia, uno squallidissimo obitorio, il volto di un migrante ucciso dal tentativo di superare il confine. Quel ricordo di Gian Andrea Franchi, insegnante di filosofia e oggi instancabile organizzatore con Lorena Fornasir di azioni lungo la rotta balcanica con cui portare medicinali e scarpe ai migranti e creare relazioni, trova risonanza in un libro importante: Morti senza sepoltura di Ottavia Salvador e Fabrizio Denunzio. “Ogni politica statuale, grande o piccola, è necropolitica, per dirla con Achille Mbembe, perché lo Stato – scrive Franchi – e, in generale, ogni forma di potere, è in ultima analisi fondata sul potere di proteggere o non proteggere dalla precarietà del vivere, quindi, in fondo, dalla morte”. Tra i migranti che cercano di superare i confini Gian Andrea riconosce prima di tutto il forte “desiderio di una libertà e un’uguaglianza al di là di ogni ordinamento statuale. Noi dobbiamo raccogliere questo gesto…”. Si tratta, ad esempio, di imparare a coltivare una nuova visione del morire e della morte
La lettura di Morti senza sepoltura di Ottavia Salvador e Fabrizio Denunzio (con uno scritto inedito di Abdelmayek Sayad, ombre corte editore), essenzialmente del suo primo capitolo, scritto da Ottavia Salvador, mi coglie dopo un’esperienza particolare che ho vissuto recentemente in Bosnia: la contemplazione per alcuni minuti, in uno squallidissimo obitorio, del volto di un migrante della rotta balcanica, ucciso dal confine.
Il confine non è la frontiera, non è una striscia di terra fra due Stati. È un ampio dispositivo: un sistema, un meccanismo. Nel nostro caso, va dalla Turchia all’Europa. Il confine, inoltre, è anche un comportamento culturale, psicologico, sociale, un modo di rapportarsi all’altro, all’estraneo, allo straniero. Ne siamo tutti partecipi.
Il confine è un dispositivo attraverso cui si esercita il potere dello Stato di riconoscere o disconoscere il diritto alla vita. Fa parte del dispositivo confinario il sistema di cosiddetto di accoglienza, nelle sue varie strutture, dall’appartamento, al campo, ai Centri per il Rimpatrio (CPR): sono strumenti di riconoscimento/disconoscimento di questo diritto fondamentale. Il lager vero e proprio è solo la forma acuta di tale dialettica necropolitica.
Tentavamo Lorena ed io di fare di quel volto, di quel corpo, un uomo morto e non un cadavere, ricordando lo sguardo di Alì vivo, penetrante e insieme perso in un viaggio senza ritorno…. Adesso era una maschera dalla mascella legata.
Perché avevamo chiesto di vederlo? In realtà, senza dircelo, compivamo una commemorazione silenziosa: celebravamo il lutto per la scomparsa di Alì di fronte al suo corpo, ne facevamo un ricordo presente nella nostra vita. Il corpo di Alì verrà poi rimpatriato. I suoi familiari e compaesani potranno così celebrare il rito funebre e seppellirlo.
Scrive Ottavia Salvador:
“Il volto di un altro ci mette in relazione a un ulteriore altro invisibile … il cui volto è in un ‘noi’ all’origine di una relazione politica che si fonda sulla possibilità dell’universalità” (p. 19).
Questa relazionalità fondativa di ciò che l’essere umano è – in questo senso la politica è una dimensione “ontologica” – si coglie in maniera particolarmente intensa di fronte alla permanenza memoriale del morto nel rituale funebre, quando è autentico e non pura formalità, come in generale da noi oggi; come era, invece, e forse e in parte ancora è, in popolazioni cosiddette primitive. La persona morta non è il cadavere. Il morto si manifesta solo nel rito funebre, nel fare il lutto, che è una restituzione dello scomparso: “una sorta di coesione continuativa tra la comunità dei vivi e quella trascendente dei morti” (p. 8), come si vede bene, ad esempio, in molte culture africane. Questa coesione continuativa può divenire, in molti casi, un impegno politico essenziale: “Ora lottare – scrive ancora Ottavia – significa fare in modo che di Majid ci si ricordi” (p. 36) (Majid, come Alì, è un migrante ucciso dalla frontiera: in questo caso la frontiera interna del CIE di Gradisca d’Isonzo, in modi non chiariti dall’inchiesta, durante una rivolta, nella notte fra il 12 e il 13 agosto 2013).
Il primo capitolo del libro mi ripresenta una questione che, da sempre, mi sta molto a cuore: la rimozione del morire e della morte, la loro irrappresentabilità nella cultura moderna di matrice europea – ma chiamiamola con il suo nome: capitalismo. Questo capitolo – il cuore del libro – è molto intenso ed efficace perché fa sorgere una meditazione anche filosofica sulla morte dentro una ricerca sul terreno, fatta di incontri, di storie vissute e di episodi di lotta, che porterà anche alla produzione di uno splendido documentario (“Ogni anima muore. Elegia per Majid”, di O. Salvador).
Ottavia tocca una problematica nota come “lotta per il riconoscimento“. Al di là della storia di questo concetto filosofico e delle sue varianti (da Hegel a Honneth), l’esperienza sul campo con i migranti – che vivo ormai da anni insieme a Lorena -, mi ha aiutato a capire che esso può dare nominare la richiesta implicita di coloro che percorrono la rotta balcanica e, ovviamente, quella ancora più drammatica del Mediterraneo, per non parlare dell’America Latina. “Lotta per il riconoscimento” di che cosa? Del diritto, intrinseco a ogni essere umano, di vivere una vita degna d’essere vissuta.
Il fondamento di ciò che chiamiamo Potere, in senso lato – che sia uno Stato, un fondo d’investimenti o un’azienda come Amazon o Apple, un qualunque datore di lavoro, un padre di famiglia o un capo clan – è prima di tutto la possibilità di esercitare un comando sul diritto di vivere: a te, che dipendi, do la possibilità vivere, ma solo a certe condizioni. Queste condizioni, però, non sono estrinseche. Implicano la costruzione di un’identità, sociale, civile, che oggi è soprattutto proprietaria: “Homo sine pecunia est imago mortis” , chiosa Ottavia. E mi viene in mente l’equivoco in un albergo di Bihac, Bosnia, in cui noi, vedendo entrare un individuo in sandali, maglietta e calzoncini, barba arruffata, pelle scura, pensammo: “Questo è un migrante che cerca di infilarsi in bagno”. Subito accorre servizievole, invece, un cameriere: era un ricco turista saudita.
Altre forme, altre forme di soggettivazione, sono escluse: questo può anche spiegare l’accanimento, oggi, contro l’esperienza di Rojava.
Nel campo della costruzione di questa identità socio-statuale-proprietaria esiste però la possibilità del conflitto. Il conflitto sociale, il conflitto di classe, il conflitto politico, è sempre anche una lotta per il riconoscimento di forme diverse di soggettivazione, di modi di vita dalle maglie più ampie di quelle inizialmente imposte da chi detiene il potere di farlo. La forma di governamentalità cosiddetta “democratica”, che ora tende a ridursi e forse a scomparire, è stata, nella seconda metà del Novecento, il campo e il frutto di questo conflitto.
La lotta per il riconoscimento è anche, nel suo fondo, un conflitto per la vita e per la morte. Lo si coglie dal diverso grado di esposizione al rischio di morte dei gruppi sociali: basti pensare alle morti sul lavoro o anche alla maggior esposizione femminile alla violenza (che è la forma più antica di esposizione al rischio). L’esempio più evidente sono gli Usa, dove i neri sono esposti alla morte, ad esempio per mano della polizia, o a quella morte sociale, con varie gradazioni, che va dalla disoccupazione al carcere, in percentuale molto maggiore rispetto ai bianchi (e, ovviamente, i bianchi poveri lo sono di più dei bianchi ricchi).
Nell’insieme, questo conflitto permanente produce la dinamica storica di ciò che chiamiamo diritti. Ciascuno di questi diritti implica un processo di costruzione della “persona” del cittadino, un processo d’identificazione burocratica, giuridica, sociale ma anche, inevitabilmente, emozionale, che si articola materialmente in una carta d’identità, in un certificato di residenza, in un passaporto, in tutta una serie di documenti. Se qualcuno ha provato il panico della perdita di un borsello con tutti i documenti e i soldi, ad esempio in una lontana città orientale, e la corsa frenetica in cerca di un consolato….
Esistono, però, persone che sono fuori dei circuiti di riconoscimento degli Stati e della possibilità di conflitto per acquisire diritti: il migrante, il profugo che varca i confini non autorizzato. Il migrante, il profugo, l’apolide, chi non è degno di vivere nella società, non è più degno di vivere tout court. Mutatis mutandis, mi viene in mente la morte di Walter Benjamin a Port Bou. Benjamin vive tuttora, ben oltre la sua morte, e continua a parlarci. Per i molti, moltissimi morti non degni di lutto, non è così. Come Karnail Singh, che voglio qui ricordare, migrante decennale disoccupato, con foglio di via per mancato rinnovo del permesso di soggiorno secondo la legge Bossi-Fini, trovato morto il 9 novembre 2017, in un parcheggio nel centro di Pordenone.
Fuori del circuito identitario dello Stato si è esposti alla morte. Perché lo Stato, in quanto potere storico di riconoscimento del diritto di vivere, ha sempre a che fare in ultima istanza con la morte, come minimo nei termini del lasciar morire: se tu non sei riconosciuto dallo Stato puoi morire nell’indifferenza: sei socialmente invisibile. Come quel ragazzo pakistano, a Trieste, con i piedi feriti, che, pur dopo essere stato portato in ospedale e, in seguito, in questura per l’identificazione, era stato deposto in strada e lasciato lì, seduto per terra perché non in grado di camminare, fra l’indifferenza dei passanti, finché qualcuno, in grado di vedere i fantasmi, non era in qualche modo intervenuto.
La sopravvivenza senza protezione, in una condizione precaria, subumana, è tuttavia anche funzionale, perché può essere in ogni momento sfruttata senza limiti (di legge), ridotta in servitù, in schiavitù. Il confine è anche questo.
Se ogni azione politica radicale è azione per il riconoscimento, per l’affermazione al di fuori e contro lo Stato, del diritto fondamentale di vivere in modo degno per ciascuno e per tutti (i due aspetti si implicano), ciò si coglie al massimo nell’azione del migrante profugo, di colui che attraversa i confini senza averne il diritto (statale), ma spinto da condizioni belliche, politiche o ambientali d’invivibilità, prodotte da un tipo di civiltà che si può ben definire necrofila. In tal senso l’azione del profugo, di cui ci ha colpito la “disperata speranza”, vista tante volte sui volti e sui corpi di ritorno o alla fine del game intorno alla stazione di Trieste – il gioco, lo chiamano: mettere in gioco la vita! -, è una lotta per rinascere, una lotta per il riconoscimento extrastatuale, che implica il superamento dello stato come attore dominante del riconoscimento.
Ogni politica statuale, grande o piccola, è necropolitica, per dirla con Achille Mbembe, perché lo Stato e, in generale, ogni forma di potere, è in ultima analisi fondata sul potere di proteggere o non proteggere dalla precarietà del vivere, quindi, in fondo, dalla morte.
Se scorriamo la vicenda storica dell’homo sapiens fino a noi, vediamo subito che è intessuta di massacri e di genocidi, paradossalmente ma intrinsecamente legati alla paura della morte. La paura della morte produce il bisogno di controllare la vita, la sua riproduzione e, di conseguenza, il tentativo di dominarla mediante l’organizzazione sociale. Il capitalismo è l’ultima e più intensa manifestazione di questo bisogno di controllo che, per il suo rifiuto dei limiti essenziali entro cui la vita prende forma, diventa suicidario.
Le migrazioni, e in particolare, le migrazioni attuali sono uno dei movimenti centrali che mostrano la necessità di superare la nostra forma di civiltà, che produce guerre e devastazioni sociali e ambientali di ogni tipo al punto da rendere prevedibile l’estinzione o comunque un gravissimo danno per le possibilità di vita umana e generale. Questi “disgraziati” che affrontano la rotta mediterranea o quella balcanica sono, indipendentemente dalla loro consapevolezza, la contestazione del sistema degli Stati nell’attuale contesto mondiale, in cui sono, in modi differenti, articolazioni della polizia del Capitale.
Sulla base della mia esperienza, leggo il game come una critica pratica radicale, mettendo in gioco il corpo, del sistema dei confini e del potere dello Stato. È una critica pratica del potere tout court. Chi va in game afferma nei fatti, esponendo il proprio corpo anche alla morte, il desiderio di una libertà e un’uguaglianza al di là di ogni ordinamento statuale.
Noi dobbiamo raccogliere questo gesto.
Ciò rimanda alla necessità politico-esistenziale di una nuova visione del morire e della morte. Non si può affrontare la questione della trasformazione sociale, della politica – della “rivoluzione”, se vogliamo ridare un significato a questo significante ormai vuoto – senza affrontare la questione della morte. Una società, che, da anziano “militante”, potrei anche chiamare comunista, dovrebbe essere una società che non teme la morte, che non la considera un mero negativo, ma la accoglie come compimento della vita, sua forma temporale, e quindi una società in cui sia possibile per ciascuno e per tutti portare a compimento la propria vita. Il valore assoluto di ciascun essere umano dipende dal fatto che ognuno di noi esiste una volta sola nell’arco dell’intera vicenda umana. Per questo ciascun essere umano è unico. Perché è mortale, perché nasce e muore una volta sola, quindi perché è finito. Perciò l’accettazione della propria mortalità, della propria finitezza è la base dell’impegno a costruire la propria singolare storia di vita, è l’appello a una ricerca di sé negli altri e con gli altri che può e deve compiersi soltanto con la morte.
Il riconoscimento del cadavere e la sua cura funebre appaiono come l’estremo tentativo di affermare l’unicità e insieme la relazionalità di ogni esistenza contro la genericità della vita biologica, che riassorbe l’unicità e l’unità del corpo in altre forme di vita. Questo avviene attraverso un rito che rinsalda una collettività nel ricordo di colui che non c’è più, proprio perché la morte sancisce, paradossalmente, nella traccia inscritta in coloro che lo ricordano, il valore insostituibile di ciascuno in quanto unico. La mancanza di questa traccia, l’indegnità di lutto, che colpisce moltissimi, forse la maggior parte degli esseri umani, è l’annientamento finale del senso di una vita. È una Auschwitz generalizzata al cuore della nostra ‘ civiltà’.
Nel rito funebre si coglie assai bene come l’unicità di ciascuno implichi la sua relazionalità. Con la morte il soggetto scompare, ma rimane, per così dire, la sua parola, la sua traccia negli altri. L’unico strumento che un essere umano ha nei confronti della finitezza della vita, che, prima o poi, lo porterà alla morte, è il suo fondamento dialogico: ciascuno diventa se stesso in un permanente dialogo di riconoscimento, che implica anche una lotta, a partire dalla fase fondativa dell’infanzia, in cui il nuovo nato ancora informe acquista le basi della propria forma soggettiva in una relazione intrinseca con chi si prende cura di lui.
Ciò che esprime l’unicità e l‘unità di un soggetto è dunque la finitezza, cioè la mortalità, che fa di ciascuno un unicum, che appare una volta sola, nel percorso singolare tra la sua nascita e la sua morte. La finitezza pone subito un’altra questione essenziale: quella del compimento dell’esistenza, di ciò che si chiama il suo senso. Nel rito della sepoltura a essere posta è proprio la questione del compimento del tempo di vita del singolo.
Che la vita individuale sia finita vuol dire che può e deve giungere a compimento. Vivere con pienezza umana è fare un percorso che giunge a un compimento. E non è una questione di quantità – una lunga vita – ma di qualità: una vita degna di essere vissuta.
Il potere, in quanto tale, è necrofilo. Il fondamento di questo tipo asimmetrico di relazione, che chiamiamo potere, è la paura, la non accettazione, il rifiuto della morte, che spinge ossessivamente al tentativo spasmodico di controllare la vita (la riproduzione, la donna, la natura). Questo tentativo porta alla violenza e quindi alla morte. Una società senza potere sarebbe necessariamente una società in grado di accogliere la morte e, viceversa, una società in grado di accogliere la morte sarebbe una società senza potere.
Vita e morte non sono opposti: questo è un errore ontologico. Sono due nomi dello stesso: vivere è morire, andare verso la fine-compimento di se stessi. Morire, andare nel tempo, passare, è vivere: costruire se stessi in un permanente dialogo con gli altri.
La morte per chi resta e il morire per chi sta morendo dovrebbero essere vissuti come il compimento di una vita unica, perché si dà una volta sola tra la nascita e la morte, appunto. Una vita unica infinita è un non senso: ciò che dà senso è l’unicità di ogni istante, cioè la sua finitezza.
Una politica radicale dovrebbe tener presente e non rimuovere la questione del morire e della morte. Dovrebbe mirare alla costruzione di una dimensione sociale in cui la morte sia, appunto, per tutti un compimento e non una frattura.
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Gian Andrea Franchi ha aderito alla campagna 2019 di Comune Ricominciamo da tre: “Reti di relazioni come Comune sono strumenti importanti, anzi essenziali, come contributo alla costruzione di pezzi di quella società solidale di cui c’è un bisogno vitale”.
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