La chiusura dell’anno scolastico e dei relativi scrutini è una buona occasione per ripensare alla splendide parole di Alberto Manzi a proposito di classificazioni e votazioni. Farlo mentre il parlamento si appresta ad approvare il decreto sicurezza bis per impedire di salvare vita in mare e nell’anno in cui tanti hanno ripensato al ragazzo del Mali affogato con la pagella cucita nella giacca significa voler fare della scuola un luogo in cui guardare e in cui cambiare il mondo. “Non dovremmo avere il diritto di giudicare i bambini, perché loro non hanno il diritto di giudicare noi… – scrive il maestro Daniele – I bambini ci insegnano ad aborrire la selezione delle classificazioni, per scrutare, ammirandola, l’unicità che risiede in ogni persona… Ci insegnano a indignarci, ad agire, a renderci conto, a volte, della nostra meschinità di adulti celata dal velo dell’indifferenza…”
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«Classificare dando una votazione o un giudizio di merito comparativo, a livello di scuole dell’obbligo, nel pieno sviluppo evolutivo […] significa voler dimenticare che la scuola è tale solo se insegna a pensare, solo se aiuta a immettersi con libertà nella società […] Classificare significa ancora educare alla divisione classista (bravi, più bravi, meno bravi, ecc.), significa selezionare, distruggere la personalità» (Alberto Manzi)
Durante gli scrutini finali delle settimane scorse, trovandomi a dovere assegnare un voto ai bambini di cui ho avuto la responsabilità del sostegno, sono andato a rileggere le righe scritte da Alberto Manzi il 7 giugno del 1975, con le quali il maestro comunicò una decisione: «Non ho mai classificato nessun alunno […] Se è obbligatoria la classificazione, delego la segreteria della scuola a dare lo stesso voto ad ogni alunno e per ogni materia». La lettera del grande educatore – che negli anni Sessanta insegnò a leggere e a scrivere a milioni di italiani, adulti e analfabeti, con la trasmissione televisiva Non è mai troppo tardi – fu il preludio di disobbedienze che in seguito gli costarono una sanzione disciplinare.
Lessi per la prima volta l’anno scorso, sul sito del Movimento di Cooperazione Educativa, mentre svolgevo il mestiere di educatore professionale a scuola, le perentorie righe scritte dal maestro Manzi. Recentemente ho sentito il bisogno di rileggerle, non perché – chiamato nel frattempo come insegnante di sostegno – io le potessi attuare, ma poiché esse sollecitano la riflessione. La luce emanata dai “grandi” consente infatti di intravedere orizzonti solitamente bui: questi rimangono forse irraggiungibili, eppure, ora visibili, permettono di orientare lo sguardo, di scrutare il mondo delle idee che sul nostro mondo paiono non avere vita.
Ecco, scrutare: dal latino “ricercare, frugare”, e la Treccani assegna al vocabolo scrutinium anche il significato di “perquisizione”.
Non mi sento bene, consapevole che con un voto, con lo scrutinio, ho perquisito l’animo, la personalità di un bambino in difficoltà. E sospiro, cercando orizzonti di luce: li trovo negli occhi dei bambini con i quali lavoro. Quanti sono, tuttavia, i muri neri d’indifferenza che dobbiamo cercare di abbattere? Durante gli scrutini, me lo sono chiesto in particolare ripensando alla morte di un ragazzino africano (per cui le seguenti righe andrebbero scritte con un impasto d’inchiostro di lacrime, saliva e acqua salata) e mentre il parlamento si appresta a trasformare il legge l’orribile Decreto sicurezza bis (leggi 15 luglio, in piazza di Alex Zanotelli).
Lo immagino così il quattordicenne del Mali rimasto senza nome, mentre affoga con la pagella cucita nella giacca; lo immagino guardare per l’ultima volta le stelle, piangendo incredulo alla fine del viaggio inconcluso, all’abisso di un firmamento che in Europa avrebbe desiderato costruire per la sua vita; lo immagino con il mare che a sorsi forzati gli allaga i polmoni, divorato dalle onde e dall’indifferenza crudele di un’Europa che dai propri stermini pare non avere imparato a rispettare la sua sedicente civiltà e il futuro (leggi anche Vi prego, fermiamoci un momento di Franco Lorenzoni).
In periodo di scrutini, in cui noi maestri dobbiamo valutare i bambini, ho pensato molto al ragazzino del Mali annegato nel naufragio del 18 aprile 2015 insieme ad altre, si stima, 1.100 persone.
La riemersione lo scorso gennaio di una simile tragedia – grazie a un libro del medico legale Cristina Cattaneo e a una vignetta di Makkox – ci ha scosso senza cambiare nulla: ciò mi fa credere che noi adulti, in questi anni in cui proseguono migliaia di affogamenti e negati sbarchi a giovani, madri e figli, non dovremmo avere il diritto di giudicare i bambini, perché essi non hanno il diritto di giudicare noi.
Sento la loro accusatoria dinanzi al tribunale dell’umanità: «Ma come, premiate le scuole per progetti significativi come sulla memoria dell’Olocausto, e nel frattempo trasformate il Mediterraneo nel campo di concentramento sommerso dell’Europa?». Certo, la responsabilità è individuale, dei governanti e di chi li ha votati; ma io non avrei l’ardire di pronunciare un’arringa difensiva: i bambini – e i loro cari – affogano anche per un sistema di sfruttamento economico mondiale di cui tutti noi siamo parte.
Nel romanzo I quasi adatti, Peter Hoeg narra la vita in istituto di due ragazzini, alla scoperta dell’esperimento educativo al quale comprendono di essere sottoposti; ecco, siamo noi adulti a meritarci una pagella da inadatti.
Da lassù perdonateci, bambini affogati, perché di voi quest’Europa non è degna. Perdonateci perché noi adulti, troppo spesso, siamo inadatti a soddisfare i desideri dei bambini tutti. Perdonateci e diventate stelle, per rimanerci negli occhi e indicarci quale futuro costruire.
I bambini ci insegnano ad aborrire la selezione delle classificazioni, per scrutare, ammirandola, l’unicità che risiede in ogni persona: in un riflesso di capelli accarezzati, in un sottile battito di ciglia, nella vitalità iridescente delle pupille, nel timbro inimitabile della voce, nelle increspature oceaniche sulle mani, nel lampo d’arguzia che, se ascoltato, accende l’intelligenza di ognuno. I bambini ci insegnano a indignarci, ad agire, a renderci conto, a volte, della nostra meschinità di adulti celata dal velo dell’indifferenza.
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