Per 56 volte, quest’anno, un governo si è trovato alla sbarra di un tribunale piuttosto informale, gestito da tre avvocati commerciali, senza pubblico né possibilità di ricorrere in appello. La Campagna Stop TTIP Italia e il Coordinamento nazionale No Triv rivelano che finalmente qualcosa sta cambiando: molte imprese che oggi minacciano l’Italia non potranno più farle causa in questi opachi tribunali
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di Francesco Paniè*
Per 56 volte, nel 2018, un’impresa multinazionale ha fatto ricorso contro le politiche di uno stato, utilizzando corti private sovranazionali più potenti di qualunque tribunale nazionale. Un sistema giudiziario parallelo, quello dell’arbitrato internazionale, reso possibile da oscure clausole inserite negli accordi sugli investimenti che centinaia di paesi del mondo hanno siglato a profusione negli ultimi vent’anni.
Per 56 volte, dunque – ed è un record secondo chi raccoglie questi dati – un governo si è trovato alla sbarra di un tribunale piuttosto informale, gestito da tre avvocati commerciali, senza pubblico né possibilità di ricorrere in appello. Qui, in questo luogo surreale, qualche avvocatura dello stato ha dovuto provare a giustificare le scelte del governo di fronte alle accuse un’azienda estera, convinta di meritare risarcimenti multimilionari per l’impatto delle politiche pubbliche sul suo business.
È una storia che anche in Italia conosciamo piuttosto bene, dal momento che il nostro paese è stato oggetto di 11 cause arbitrali da parte di investitori internazionali. Come dimostra un rapporto pubblicato recentemente dalla Campagna Stop TTIP Italia, questo sistema costringe – non di rado – i governi a rivedere le proprie decisioni politiche, preoccupati di dover pagare penali troppo alte agli investitori scontenti. Se in linea di massima è ragionevole pensare che un’impresa debba potersi rivalere su un paese che la espropria, è altrettanto vero che creare una corsia preferenziale capace di elevare il privato al di sopra del potere pubblico è piuttosto rischioso. Specialmente quando questa corsia preferenziale è un tribunale per gli investimenti dove gli stati sono sempre imputati e le udienze si tengono a porte chiuse con un unico codice di riferimento: quello del diritto commerciale internazionale. Con queste prerogative, sarà impossibile far valere l’interesse pubblico di una decisione politica, la sua “necessità” per fronteggiare i cambiamenti climatici o le crisi economiche. I tre “arbitri” valuteranno soltanto se all’impresa non è stato garantito un “trattamento giusto ed equo” o se il governo ha deluso le sue “legittime aspettative”. A questo punto, se uno di questi principi enormemente generici sarà soddisfatto, scatterà la sanzione.
È già capitato quasi 200 volte. In tutto il mondo, gli stati hanno dovuto pagare 84 miliardi di dollari agli investitori di altri paesi grazie all’arbitrato internazionale. Una cifra parziale, visto che alcune cause rimangono segrete e molte altre sono ancora pendenti. Tutto denaro pubblico potenzialmente sottratto a politiche sociali, salariali o ambientali.
Proprio queste ultime sono finite sotto attacco dei petrolieri nelle ultime settimane. Molte imprese del settore oil&gas hanno agitato lo spettro dell’arbitrato nei confronti dell’Italia, scontente della sospensione per 18 mesi dei permessi di ricerca idrocarburi inserita nel Dl Semplificazioni. Le minacce arrivano sull’onda di una causa già intentata dalla multinazionale britannica Rockhopper, la quale da un paio d’anni ha aperto un procedimento arbitrale contro il nostro paese. Per evitare il referendum dell’aprile 2016, infatti, il governo Renzi aveva vietato ad Ombrina Mare, una piattaforma petrolifera della Rockhopper piazzata a 6 miglia dalle coste abruzzesi, di proseguire le attività.
Tuttavia, la Campagna Stop TTIP Italia e il Coordinamento nazionale No Triv sono in grado di rivelare che finalmente qualcosa sta cambiando, e molte imprese che oggi minacciano l’Italia non potranno più farle causa in questi opachi tribunali.
Dal 15 gennaio scorso, infatti, nessun investitore con sede nell’Unione europea può più fare causa a un altro stato membro utilizzando la clausola arbitrale contenuta nei trattati commerciali e sugli investimenti. Cosa è successo in quella data? Lo racconta un documento siglato da 15 stati europei, tra cui l’Italia con il suo ambasciatore Maurizio Massari. I firmatari richiamano la sentenza della Corte di Giustizia dell’UE sul caso Achmea (6 marzo 2018), secondo cui l’arbitrato internazionale tra stati membri dell’UE è incompatibile con il diritto dell’Unione.
Prendendo le mosse da quella sentenza, dichiarano che “tutti gli accordi internazionali conclusi dall’Unione, compreso il Trattato sulla Carta dell’energia, sono parte integrante dell’ordinamento giuridico dell’UE e devono pertanto essere compatibili con il Trattati”. In questo quadro, la clausola contenuta in tutti gli accordi bilaterali intraeuropei e nella Carta dell’energia viene definita “incompatibile con i Trattati e quindi dovrebbe essere disapplicata”.
Una simile presa di posizione metterà fine a circa 200 accordi commerciali tra paesi membri dell’UE ed eviterà le compensazioni agli investitori di quei paesi decise in sede di arbitrato internazionale. “Con la presente dichiarazione – recita il testo del documento – gli stati membri informano i tribunali di arbitrato sulle conseguenze giuridiche del caso Achmea, come esposto nella presente dichiarazione, in tutti i procedimenti di arbitrato intra-UE in corso presentati ai sensi di accordi bilaterali sugli investimenti tra Stati membri o nell’ambito della Carta dell’energia”.
E proseguono invitando ai tribunali arbitrali a “mettere da parte questi premi o non farli rispettare data la mancanza di una valida motivazione”. In parole povere, l’Italia sta dicendo che potrebbe non dover pagare un centesimo né alla Rockhopper, né a tutti gli altri investitori con sede negli stati membri che le hanno intentato cause arbitrali.
Grazie ai calcoli del Coordinamento No Triv sappiamo che degli 80 permessi di ricerca vigenti, 57 fanno capo a società con base nell’Unione europea, mentre 23 sono nella disponibilità di imprese con sede in paesi extra-Ue, nello specifico USA, Canada, Australia. Canberra ha sottoscritto il Trattato sulla Carta dell’Energia, ma non lo ha ratificato, mentre Stati Uniti e Canada non lo hanno neppure sottoscritto. L’unico modo per rifarsi sull’Italia, dunque, è il cosiddetto “treaty shopping”, cioè l’utilizzo di società controllate che abbiano sede in paesi terzi, con i quali il nostro abbia stretto un accordo sugli investimenti comprensivo di clausola arbitrale. Una prassi già utilizzata in passato da molte imprese transnazionali, e però profondamente mal vista a livello internazionale.
Nei prossimi mesi sapremo se qualcuna di esse ha voluto giocarsi questo jolly. Nel frattempo, per fermare questo meccanismo alla radice, centinaia di organizzazioni in 16 paesi europei stanno promuovendo una raccolta firme intitolata “Diritti per le persone, regole per le multinazionali”. Ci sono decine di buone ragioni per aderire e diffondere questa iniziativa. Possiamo pensare che queste dinamiche non abbiano a che fare con la nostra vita quotidiana, ma ci sbagliamo di grosso. La nostra vita è sotto attacco ogni volta che un governo abdica al suo potere di fare leggi nell’interesse pubblico, e la paura di una sanzione economica multimiliardaria è spesso un buon deterrente. C’è un solo modo per togliere la pistola delle multinazionali alla tempia dello stato: farsi sentire. Ed è per questo che già mezzo milione di europei ha deciso di sostenere questa campagna.
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