di Giuseppe Campagnoli*
Il potere, politico, laico, religioso o economico si è sempre espresso e, ahimè, si esprime ancora, attraverso i suoi monumenti e le sue città che vuole immutabili e celebrativi. I municipi, i parlamenti, i castelli, le chiese, le moschee, le scuole, i centri commerciali e i financial buildings, le residenze e i giardini rappresentano spesso il dominio della politica, dell’economia e anche della cultura di pochi sui tanti. Ma anche i tipi della residenza e del lavoro sono stati influenzati dai vari poteri. La vendetta che la storia e le trasformazioni urbane si sono prese nel tempo ha fatto sì che un convento diventasse una scuola, una chiesa un teatro, un castello un museo. Ma questo non basta. Occorre che i luoghi e i manufatti non diventino mai dei monumenti ma crescano e si trasformino con la città in modo collettivo ed autonomo per rispondere ai bisogni dei suoi abitanti e non dei suoi temporanei padroni. Allora è bene che non vi siano più degli edifici a senso unico, dedicati rigidamente ed esclusivamente alla funzione dominante, sia essa espressa attraverso una scuola, un teatro, un centro commerciale, una casa.
È finito il tempo delle tipologie d’uso e delle funzioni esclusive. Ora bisogna pensare alle forme ed agli spazi e al loro valore disgiunto dall’uso temporaneo. E per temporaneo non intendo secoli o anni, ma anche solo giorni, ore e minuti. La tecnologia e il web in questo, paradossalmente, se usati bene ci possono aiutare mirabilmente. Allora si sarebbe connessi non per le perverse ed inutili funzioni dei social ma per lavorare, imparare, giocare, curarsi in qualsiasi luogo della città che sarà accogliente e bello, non una macchina tesa a far svolgere le funzioni umane ad uso e consumo di chi ci vuole organizzati e ordinati, magari imbellettata dalle sue forme esteticamente accattivanti ma subliminalmente condizionati.
La prima cosa da fare è non costruire più nulla per un po’ o forse per sempre. Il lavoro degli architetti, ammesso che ve ne sia ancora bisogno, è nella fase transitoria verso una “architettura incidentale”, quello di trasformare e riadattare continuamente. È infatti un delitto non riutilizzare in senso polifunzionale spazi e luoghi vecchi e nuovi abbandonati o malamente usati nelle città, riadattarli magari in autocostruzione come dovrebbe essere fatto anche per le nuove residenze e i servizi collettivi, recuperare le campagne da falsi agricoltori e falsi agriturismo, far vivere a tempo pieno le seconde, terze e quarte egoistiche case e tutto il patrimonio edilizio in mano alla speculazione (non si fa business sull’abitare, sulla salute, sull’educazione…). La nuova architettura sarà pensata come indifferente a ciò che conterrà ma assumerà significati diversi e “bellezze” diverse perfino durante una stessa giornata. Un po’ come nella forma dell’acqua. Questa si adatterà al suo contenitore e ne costruirà la forma, il colore… Attrezzature e impianti destinati a funzioni speciali (cura, manifattura, educazione…) potranno essere inseriti ed istallati modularmente, quando e per quanto tempo servissero, in strutture a parte, mobili e flessibili. È questa la vera anima del museo diffuso, della scuola diffusa, dell’agricoltura diffusa, della salute diffusa, della città diffusa e della architettura “incidentale” e dissenziente. Niente monumenti, niente casamenti ma luoghi e spazi liberi e fluttuanti, tra edifici storici che rivivono di una esistenza nuova, ma non definitiva, e nuovi luoghi mutanti e mimetici per non violare la natura e la storia. La nuova architettura sarà pensata e costruita dai suoi fruitori collettivamente come avveniva spesso fino al medioevo e anche oggi nelle poche aree del pianeta ancora non contaminate dal mercato e dalla tecnologia del consumo, senza intermediari pubblici o privati.
https://comune-info.net/2014/10/urbanistica-comunita-locali/
In Questione di stile del 2014 avevo già tracciato qualche linea di controarchitettura. “Rileggendo gli scritti e i disegni di Aldo Rossi ho rinnovato la convinzione che vi sia più che mai bisogno di rifondare l’architettura della città affinché non si dica in futuro che dal razionalismo in poi non vi è più stato uno stile in architettura e forse anche nelle altre arti. Uno stile non autoritario ma spontaneo, diffuso, collettivo. Da tempo ho rinunciato alla professione abbandonando l’ordine professionale italiano con una lettera in cui lamentavo la situazione di un mestiere che è pur sempre stato un venale mercato dove l’arte la cultura e la socialità hanno un ruolo subalterno quando non sono assenti del tutto. Il territorio è nelle mani degli endemici geometri e di troppi architetti e ingegneri ormai rassegnati a fare di tutto assecondando committenze pubbliche o private, imprese o speculatori protervi ed ignoranti di storia, di compatibilità vera e finanche di economia! Rara è l’architettura che rifiuta di essere corpo estraneo per moda o per tensione esibizionista all’originalità e al “Fanta building”. La cultura del trasformare correttamente la realtà per vivere e lavorare deve essere prima radicata nella gente, nei cittadini e nella oltre che nella politica e nella professione ammesso che ve ne sia ancora bisogno. La società non ha bisogno delle archistars e forse non ha nemmeno più bisogno dell’architettura così come l’abbiamo concepita finora né dei suoi mercantili mentori. Ma tant’è, in qualche paese, si diventa senatori anche per questo e si capisce allora anche l’antica provocazione di Caligola..”
Bene ha scritto Colin Ward nella sua Architettura del dissenso:
“La cultura ufficiale e autoritaria prescrive determinate forme architettoniche per la casa, l’ufficio, l’opificio, la scuola, anche differenziati per ogni tipo di gerarchia… Ora che il movimento moderno si è esaurito capiamo come i suoi principi fossero elitari o brutalmente meccanicisti ignorando le preferenze della gente per i luoghi della loro vita, del loro lavoro, del loro svago…”.
Tempo fa trovai in una libreria a Béziers, nel sud della Francia. un divertente libercolo della collana disimpegnata Juste assez de… edizioni Dunod intitolato Juste assez d’architecture pour briller en société di Philip Wilkinson cioè “Quanto basta di architettura per non sfigurare in società”: sottotitolo: i cinquanta grandi stili che dovete conoscere. Art déco, Costruttivismo, Bauhaus, Le Corbusier, Mies Van der Rohe, Wright…. gli stili diventano evanescenti, emergono architetti isolati e l’unico tentativo di ricreare uno stile contemporaneo, cui molti avrebbero potuto aderire, sembra essere quello della cosiddetta “tendenza” maldestramente chiamato anche “neo-razionalismo” teso alla costruzione di una idea di architettura rispettosa della forma urbana e del paesaggio, fino a diventare autonoma, collettiva e spontanea come se la città trasformasse da sola sé stessa. Il resto dell’architettura non aspirava alla costruzione di uno stile per l’uomo ma alla tecnologia e al mercato ad una improbabile ecologia urbana, a un eclettismo senza le forme dell’arte ma con le funzioni della tecnologia esasperate e padrone. L’architettura dei mezzi e delle funzioni si sostituisce a quella delle forme, dell’arte e della poesia con effetti devastanti per i paesaggi urbani e non.
Tornando alla mia passione che è la scuola e i suoi luoghi, ci sono pochi edifici che possono rappresentare “l’architettura” come le scuole o i municipi, le chiese, le biblioteche, i musei, i civici “monumenti” insomma. Da questi e intorno a questi, nella storia, si sono aggregate le case d’abitazione configurando un proprio stile peculiare in ogni epoca e in ogni paese. A me pare che oggi questo non esista più e da una parte è anche un bene se si volesse ricominciare da zero a ridisegnare le città e il territorio. Oggi è un po’ come nelle altre arti, dove il mercato decide quali forme siano buone e quali cattive, quali valgano e quali no generando fratture nette col passato, revival, neocorrenti e grandi bluff a seconda dei casi. L’architettura ahimè in tale contesto è la più visibile ed è insieme anche la più sociale e fruibile, poiché ci si vive e ci si muore, ci si cura, ci si apprende, ci si lavora, ci si diverte, ci si comunica. Che allora oggi non diventi parte del fare umano e non di pochi eletti è una disgrazia. Lo stile più bello in Europa era quello del medioevo, quando non c’erano architetti ma interpreti della città come i famosi maestri comacini e i meravigliosi anonimi autocostruttori del popolo.
* Architetto, docente, è stato dirigente scolastico. Autore di saggi su scuola, architettura, costume, con Paolo Mottana è autore di La città educante. Manifesto della educazione diffusa (Asterios). Ha aderito alla campagna di Comune-info Un mondo nuovo comincia da qui. Tra i primi firmatati del Manifesto dell’educazione diffusa
https://comune-info.net/2018/07/manifesto-educazione-diffusa/
IforMediate dice
L’idea di smettere di costruire per un po’ è interessante.
Le costruzioni nuove riducono la complessità della natura perché introducono una linea di ordine culturale, ma allo stesso tempo accrescono la complessità della cultura perché introducono elementi nuovi in un sistema e perciò pretendono un ripensamento del rapporto tra l’individuo e quel sistema appena arricchito. Smettere di costruire e iniziare a riadattare le costruzioni già esistenti, invece, imporrebbe un ripensamento del rapporto con i luoghi, ma senza modificare la complessità del sistema.
Bisognerebbe pensarci un po’…
Ester dice
Un.sogno in.Italia tutto ciò che auspichi! Un sogno! E se puoi dirmi presto dove trovare una città educante, amica della scuola Primaria, dimmelo presto che ci vado!
Unamaestra
giuseppe campagnoli dice
I sogni si avverano se ci si crede un po’, solo un po’. L’utopia è un sogno possibile. Ma non bisogna arrendersi. Qualcuno ci sta provando ma non è bene rimanere isolati. Belle esperienze sono ignote ai più e non vengono condivise e diffuse.