In un’epoca in cui la semantica popolare si nutre di paura e menzogne, c’è bisogno di un nuovo linguaggio, capace di alimentare speranze mai sopite del tutto
di Alessandro Ghebreigziabiher
“Elisa”, fece l’uomo scorgendo le sfumature tristi negli occhi della figlia. “Cos’hai?”
“Niente.”
“Bene, raccontami del nulla, allora.”
La giovane osservò il genitore matto che la vita le aveva donato, dalla testa squinternata, certo, ma presente. E qualora tale tutt’altro che scontata evenienza sia garantita, si può aver pazienza perfino di fronte a quotidiani discorsi privi di senso.
“Oggi ho fatto scena muta, al tema. Ho consegnato il foglio in bianco”.
“E come mai? Non hai fatto neppure un disegno?”
“Papà… ho sedici anni, sono alle superiori, non alle elementari.”
“Perché, solo alle elementari si possono fare i disegni?”
La ragazza sbuffò annoiata e agguantò meccanicamente il cellulare.
“Qual era la traccia?” insistette il padre, sedendosi sul bordo del letto dove la figlia era rannicchiata.
“Tema”, citò testualmente lei, “elencate i principali problemi della società moderna e provate a suggerire delle soluzioni.”
“Caspita, roba facile.”
“Scherzi?”
“Sì. No. Tutte e due, forse.”
Elisa esplorò con la mano il comodino in cerca delle cuffie, ma il babbo non si arrese.
“Ti prego…” fece con voce rotta. “Non cancellarmi.”
“Papà, non ti sto cancellando, voglio solo sentire un po’ di musica…”
“E io vorrei sentire te.”
“Cosa vuoi sapere?”
“Perché hai lasciato il foglio in bianco”.
“Vuoi saperlo davvero?”
“Non hai idea quanto”.
“Okay, d’accordo”, rispose sottolineando la resa posando il telefono sul letto. “La verità è che sono stanca”.
“Di cosa? Di me?”
“No, papà, cosa vai a pensare? Sono stanca dei problemi del mondo, sono stanca delle cattive notizie, che sono le uniche notizie, sono stanca di sentir parlare di odio e cattiverie gratuite, di politici disumani e gente priva di empatia, sono stanca di parole brutte, perché non si legge e sente altro in giro”.
“Tranne che nelle canzoni”.
“Esatto, tranne che nelle canzoni”.
“E le storie”.
“Già, come dici tu, pure le storie.”
Una fondamentale pausa di silenzio occupò il tempo successivo, ma fu una parentesi breve, quanto basta per non far scemare il ritmo della narrazione.
“So come aiutarti”, dichiarò l’uomo con un’espressione agitata, ma nel senso buono del termine. “So come aiutarci.”
“Ci mangiamo del gelato?”
“No, quello dopo, come premio.”
“E cosa facciamo?”
“Inventiamo una lingua, una lingua fantastica.”
“Spiega”, fece Elisa, assecondando l’ennesimo delirio paterno.
“Sai perché le parole che si leggono e si sentono maggiormente in giro sono brutte?”
“Presumo che tu stia per dirmelo.”
“Esatto. Sono brutte perché non servono affatto a definire persone o cose, ma solo a insultarle, degradarle, umiliarle e più che mai isolarle. Dobbiamo trovare delle parole che chiamino persone o cose per ciò che sono davvero.”
“Per esempio?”
“Per esempio, parto dalla prima che mi viene in mente: migranti.”
“Cosa c’è che non va in migranti?”
“Ciò che non va è giustappunto il motivo per il quale viene usata questa parola. In questo modo, ancor prima che esseri umani, sono creature condannate a migrare, a essere sempre in movimento, a non appartenere mai ad alcun luogo, quello da cui provengono e soprattutto dove giungono, perfino dopo anni di permanenza. È solo un imbroglio per nascondere la loro reale natura.”
“E quale sarebbe?”
“Quella che spetta a qualunque viaggiatore. Un giorno partente, un altro arrivante.”
“Quindi, invece che migranti dovremmo chiamarli arrivanti?”
“Solo nell’istante dell’approdo, ma da quando hanno messo piede sulla terraferma non v’è altra definizione veritiera che arrivati. Nuovi arrivati, per la precisione.”
“E dopo?”
“Non più nuovi, perché valeva solo per il primo giorno.”
“E nelle successive settimane?”
“Appena arrivati.”
“E dopo qualche mese?”
“Da poco arrivati.”
“E dopo qualche anno?”
“Arrivati da tempo.”
“E dopo ancora?”
Il padre sorrise, con quella sua bizzarra espressione tra l’allucinato e il soddisfatto.
“Dopo ti dovresti fare una domanda, che spiega la ragione per la quale siamo sommersi da parole brutte, che sono solo false, e del perché abbiamo un disperato bisogno di trovare una nuova, fantastica lingua per rendere merito alle persone e le cose del mondo.”
“Quale domanda?”
“Perché, dopo tutti questi anni, del nuovo arrivato non si conosce né il suo nome di battesimo, tantomeno la sua storia personale, da dove viene e soprattutto il motivo della sua partenza?”
“Perché questo non è importante?”
“Brava, proprio così, ma nella nostra lingua fantastica lo è eccome, anzi, è la sola cosa che conti. D’accordo?”
“D’accordo, papà.”
“Bene, e ora andiamo ad abbuffarci di gelato.”
Tratto da Storie e notizie n. 1588
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