Racconti da un corso di italiano per stranieri
di Lino Di Gianni*
Lavorare con adulti, analfabeti in lingua madre, senza una lingua in comune di mediazione è un po’ come sapere che esiste una chiave in un grosso mazzo, ed esiste una porta per entrare. Il difficile è trovare chiave e ingresso. E la volontà comune di entrare. Entrare dove? In una stanza dove ci sono i ricordi di quando, da bambino, non è andato a scuola perché serviva aiuto per la famiglia: nei campi,o in qualche officina o nella bottega dei vicini, o ad aiutare a fare i lavori di casa. Alle donne non serve studiare, al massimo qualche mese nella madrasa, a scuola di Corano.
In quella stanza ci sono anche le esperienze passate del maestro, le persone che negli anni hanno abbandonato, quelle che hanno imparato a leggere e sono rimaste contente di saper leggere, adesso.
In una società in cui tutto è sguardo da decifrare, non conoscere i segni e i suoni dei simboli è come se vivessimo in un paese dove parlano e scrivono solo in cinese, e noi siamo considerati stupidi perché non capiamo.
Ci vuole pazienza, ci vuole costanza, ci vuole una riserva di fiducia.
Io mi aiuto con le immagini: un computer, una connessione wi-fi, lo schermo di un monitor posto al centro dell’aula. Invece delle costose Lim ministeriali (fisse al muro, che si rompono con facilità).
Qualche donna, a volte, viene col bebè da allattare sulla schiena. Qualche donna col marito e con il figlio, anche se lui per fortuna ha studiato e diventa il loro traduttore personale. Qualche uomo mi parla con orgoglio del suo cantante preferito, Youssou N’Dour del Senegal (maestro: lui adesso ministro governo in Senegal).
Una ragazza cinese molto sveglia mi fa ascoltare la canzone inglese che ama, una specie di musica “ambient” per pianoforte. Se chiedo dove l’hai sentita, mi indica il cellulare. Tutta una vita, sul cellulare. Parlano con i familiari rimasti in patria, si esercitano con le app che formano le parole con le sillabe, fanno i giochi o ascoltano musica del loro paese. E ogni tanto si fermano vicino a qualche angolo della scuola per spedire un selfie, come per dire, come diceva Serifou, maliano, a un suo compagno di classe, ghanese: “Qui Italia, Italia bene scuola, bene lavoro, bene ospedale. No come Africa: no soldi no lavoro”. E lui lo sa bene, per questo è venuto in Italia, per avere le cure per sua figlia che non può avere in Mali.
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